domenica 18 agosto 2024

Penelope Scarlatta



Macinatore, grattugia arrugginita, ossa e carne, onore distorto, vendetta. Penelope decomposta, Penelope Zombie, lutulenta puttana, catacomba, ritorno, violenza.
Membro di ferro, punizione, estorsione, puntualizzazione, marchio, feticcio.
Penelope assassinata, guanto di ferro, spada, usurpatore legittimo, violenza, sogno rosso come la porpora di ogni ferita, la porpora dei tuoi deliranti vestimenti in un’alba attorniata da onirici cadaveri.
Ritorno, lama, supremazia, atto dispotico, l’usurpatore Lotofago percosso, sanguinante, strisciante ai miei piedi.
Penelope: cazzo nel culo un’ultima volta; sotto il sigillo della mia forza, sotto la morsa della mia presa d’acciaio, tagliola anale di Pancrazio dominante. Non dibatterti Penelope morta: cazzo nel culo un’ultima volta, squartata come un animale al macello, immobilizzata, esposta con le natiche dilatate al massimo da una forza distruttiva pregna di rancore tradito, come hai potuto dimenticare? Questi Proci a banchettare nel mio talamo, il sudore della mia fronte, tutto il cazzo che mi hai rotto ora te lo sbatto nella faccia.
Come hai potuto dimenticare la furia della mia spada? La funesta cupezza della mia ira? Pensavi davvero di poter dormire tranquilli sonni col tenero mollusco sopito tra le tue mani?
Ti repelleva il tocco della mia callosa mano di guerriero, che adesso ti schiaffeggia le molli natiche fino a spaccarti le carni aprendo fontane di sangue.
Vendetta,
Vendetta,
Rancore.
Ridammi ogni mio sogno, ridammi la realtà della mia camera da letto.
Sono tornato e ho con me un vello purpureo, ho ucciso Argo a calci e messo in ginocchio il tuo nuovo me.
Estorsione uccide la mia antica eleganza, sputerò sulla tua vagina, usurpatore Lotofago sconfitto, inerme, implorante, piagnucolante, che cazzo ci fa qui un Lotofago? Come è arrivato dai meandri della sua isola remota fino agli anfratti della prigionia che ti avevo imposto, a frugare convulso nella tua vulva pulsante come un granchio impazzito in una buca? 
Anfibio nero nel muso, denti rotti, danni ingenti, voglio i soldi e la tua carne, non sono Ulisse ma un Lestrigone pazzo fuoriuscito da una realtà distorta, piscerò nella tua faccia dopo averla sfregiata. 
Specchio in frantumi, calma, sperma, respiri profondi, sangue, guanti neri carezzano il corpo violato di Penelope risorta, umiliata, nuovamente marchiata, purificata. Anfibi calpestano i cocci e i detriti dell’atto cruento di innata violenza, usurpatore Lotofago percosso, strisciante, mugghiante. Nuova vita, sperma e sangue versato, nuove certezze, una nuova alba lontano dalla morte, poiché ove v’è dolore e sangue v’è assenza di morte.
Il Re Teschio, impresso sul possente braccio della violenza, si allontana barcollando, ubriaco di tenebre ed espulso furore.
Sul pavimento distesa in posa di sfinito abbandono solo una puttana stuprata e un povero illuso picchiato gravemente, sperma, sangue e i cocci di vetro di uno specchio infranto.

Davide Giannicolo

giovedì 8 agosto 2024

Calipso


 

La spuma delle onde si tinge di rosso cinabro infrangendosi contro scogli ostili, neri rasoi che celano incubi e lamprede, fino a condurre alla sabbia frastagliata di cocci di gusci marini e cadaveri di granchi bianchi come spettri, la mia prigionia.

Ulisse, sette anni, ricordi ancora il tuo nome?

Incantesimo, stregoneria, l’eterna solitudine di Calipso. Non mi libererà mai, non tornerò, o sono io a non volerlo?

Olezzo di alghe marce, isola deserta, letto di conchiglie, inerzia, sortilegio, non riesco a muovermi. 

Cuore straziato.

Nostalgia.

Costrizione.

Isocrono dolore.

Non voglio, non riesco ad abbandonarla.

Il mare si scaglia contro le rocce giorno e notte, luna sanguinante, sole nero, monotonia, ipnosi, sogno. 

Il suono di una malia senza tempo che il tempo cancella, non sono più me stesso, non esisto più, prigioniero dell’amore di Calipso. La amo anch’io? Me ne sono convinto o mi ha persuaso il meccanico lamento delle onde?

Non è come essere preda delle mostruose fellatio di Scilla e Cariddi, di viscose zanne e taglienti bivalve.

No, questo è ugualmente un incubo, composto però di immobilità ed eterno silenzio, impotenza arrendevole, catena invisibile, peso schiacciante sul petto, paura dell’ignoto e del domani lontano da lei, anche se ella mi repelle come la carezza di una medusa tra i fluttui notturni.

Non posso, non voglio tornare, non posso non voglio abbandonarla, la amo, ho paura, l’isola mi inghiotte, incantesimo, malia, affascino, sortilegio.

Il suo sesso rosso e salato m’annega in un mare di sogno, polpi e murene m’avvinghiano senza che io possa formulare nemmeno un pensiero.

Penelope, mia amata, dimentica i giorni felici, non attendermi, io sono perduto.

Davide Giannicolo