PARTE II
LA SOLITUDINE, IL DELIRIO E IL PIANTO DELL’INFANTE
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ESECRABILE COME NOTTIVAGA PRESENZA
Provenienti dal silenzio, s’innalzavano come spire arcane le sensazioni del suo delirio, una follia strisciante rendeva languida la sua anima e nel fosco abbandono egli si smarriva sfinito.
Nella sofferenza di quella vita consumata, annebbiata dalla malattia che sentiva intrisa nel sangue, Igor trascorreva ore intere a meditare.
Era nel salone, tutte le cose intorno giacevano grigie e sbiadite; persino le pareti sembravano sgretolarsi, dilaniate dal tempo e dalla pazzia dei Vetusta.
In grembo stringeva una testa umana ormai quasi teschio, carezzava la reliquia con folle trasporto, come un bimbo che contempla il suo balocco.
La solitudine era pesante e viva, danzante in quel suo cupo sepolcro ove la vita era divenuta una recita funebre, si consumava lì, ogni giorno, la decadente rappresentazione di un’esistenza in frantumi.
La vita di Igor era stata un crescendo di atti irrazionali; ogni cosa alle sue percezioni giungeva inversa, la vita diveniva una morte perpetua, agitata dal continuo cordoglio che come ago rovente penetrava nella mente incendiandola, oppure posandovi un velo di passività lo rendeva glaciale e inerte nel malinconico crogiolo di un attimo senza fine.
La morte che nuda e parzialmente decomposta distende con seduzione ineffabile un velo sulla mente agitata, mesta proviene dal buio ed è la regina assoggettante, la silenziosa signora dell’inquietudine che avvolge le sue esili mani intorno alla psiche, avviluppandola in un languido torpore.
La stanchezza stava sovvertendo la sua esistenza, nulla scorgeva al di là della sua crociata sanguinosa, nessuna passione umana poteva sfiorarlo, ma in ogni caso le pulsioni di Igor stavano implodendo logorando la sua già precaria salute mentale.
Sin da bambino la malinconia e una certa propensione marcata nei confronti del macabro erano state caratteristiche destinate ad accompagnarlo, comportamenti tipici della sua famiglia da duecento anni e più.
Igor era figlio unico, solo, nella grande casa ove le ombre s’allungavano, aveva sperimentato sottili giochi, truci e solitari passatempi.
Era orgoglioso del suo passato, dell’adolescenza triste ma fiera, consumata nella bramosia, nel desiderio di essere in simbiosi con la vita.
Ma cos’era la vita? Cosa poteva saperne lui che era stato educato in un monastero sul picco d’una rupe e aveva compiuto uccisioni persino in Iran e nel medio Oriente, ove le streghe si celano sotto un pudico velo.
A diciassette anni Igor fu mandato da solo, nel deserto dell’Iran con null’altro che una spada d’argento e una croce.
In quei giorni lontani, il giovane e unico erede della casata Vetusta appariva come un pallido angelo del martirio, muscoloso, nel pieno delle sue forze, con i neri indumenti ad attirare accecanti dardi sotto il sole ardente del deserto, e nonostante le membra sudate, la fatica, la non piena comprensione del suo singolare destino, limpida era la sua mente; infinitamente più ardente delle frecce di Apollo, il fervore sorreggeva quel ragazzo che già d’allora sapeva di essere totalmente diverso dagli altri.
In quella missione doveva apprendere una cosa fondamentale: riconoscere le streghe distinguendone lo sguardo.
Ne riconobbe molte infatti, ciascuna sgozzata nel cuore della notte da un demone giovane e dal volto candido come la neve.
I monaci erano rispettosi con lui, ma ne uccise prima circa dodici per far sì che ciò accadesse, fu così che le punizioni corporali furono sostituite da veri e propri duelli tra anziani templari e un giovane diciannovenne ormai già imbattibile.
Improvvisamente Igor infranse i suoi pensieri come si fa con uno specchio nel quale è doloroso guardare, retrocedette sulla strada d’ossidiana dei suoi ricordi fino a riprendere contatto con la realtà, gettò in terra il teschio che prima, con sguardo assorto stava accarezzando; la blasfema reliquia rotolò grottesca ove giaceva il resto del corpo di una prostituta, da lui ritenuta colpevole di satanismo e voluttà con il diavolo, l’aveva uccisa mesi prima.
Era stanco e sentiva il proprio corpo emettere segnali, lo avvisava di stare eccedendo, persino il suo corpo voleva abbandonarlo, infatti le membra pendevano stanche rifiutandosi di seguire la fievole fiammella della sua veglia, pesanti gli occhi cercavano il torpore al fine di spegnere quella tormentata, notturna coscienza.
Le orme dei suoi piedi scalzi s’ incisero nella notte, perseguitate dall’insonnia; percorse l’intera villa con un leggero fremito posato lungo le membra, una sorta di febbre maledetta.
Era inquieto, infastidito dall’ipnotico gracchiare della notte.
Giunse infine nella sala funebre dove giaceva sua madre, intrappolata dalla morte in un giovane quanto inquietante aspetto.
Igor si spogliò, il suo volto era patetico, le labbra tremanti, gli occhi arrossati e umidi di pianto, il viso di un bambino punito che sta per cedere alle lacrime che erompono.
Completamente nudo si distese accanto al corpo della donna morta e sussurrò al gelido orecchio:
“Madre, vogliono rendermi un cadavere, annullare la mia esistenza, conservare la mia anima in un’ampolla”.
Disse ciò in uno sbiascico sospettoso e delirante, era tenero e spaventato in quell’istante; solo, nudo, alla disperata ricerca di una protezione che sapeva, nell’intimo innominabile della sua anima, di non poter ricevere.
In lacrime si abbandonò ad un folle monologo, quell’uomo che un tempo era stato temuto come un demone ora era in totale balia delle ombre della follia.
Cominciò a baciare la salma, e in lui s’accendeva la gelida passione della sessualità repressa, naturalmente inversa come ciascuna sensazione a lui appartenente; il desiderio era il chiaro simbolo della sua desolazione interiore, violare il cadavere della madre era il gesto che confermava la solitudine dei suoi sentimenti, lo spirito di Igor era imprigionato dietro possenti sbarre come in un dipinto di Wolfli.
Nel culmine della sua triste foga ebbe una fitta di dolore, violare nottetempo un fantoccio impagliato che era stato sua madre, strisciare svestito sulla morte; quanta solitudine in quella scena, infatti, Igor non seppe sopportarla, nelle sue oscena e decaduta nudità si lasciò cadere sul pavimento, piangeva istericamente, aveva disperatamente bisogno di morire, tormentare il proprio petto con un coccio di vetro, non gli restava che farsi inghiottire dalla desolazione, recidere i polsi tingendo la notte di porpora e dolore.
Si torceva nudo come un verme che lotta con l’immensità dell’universo con le sole sue scarne forze, strisciava nella disperazione e nel suo stesso sperma maledetto, simbolo della propria purezza inesistente, paradosso ignobile della propria, folle crociata; era in preda ad una violenta crisi nervosa.
“Dolore, quanto dolore negli occhi delle streghe. Invadono ancora la mia mente ed i miei sogni, sono perduto ormai, angelo caduto eternamente maledetto, sono finito come lo è la mia stirpe”.
Si calmò solo tre ore dopo, quando i suoi occhi umidi di pianto cessarono di essere invasi dai fantasmi delle lacrime, diafane perle d’angoscia.
Le sue membra finalmente si rilassarono e riuscì a percepire soltanto stanchezza infinita.
Con un solenne sforzo si alzò dal pavimento, si diresse verso le sue stanze lasciando sola la salma immota e agghiacciante di sua madre, incubo celato nella latebra della sua mente; passività, morte e silenzio continuarono così a banchettare nella sala divenuta nuovamente deserta, il cadavere della donna era avviluppato da presenze morbose e angoscianti generate da oscurità innominabili, non vi è nulla di più morboso di una stanza abbandonata, cosa possiamo sapere noi cosa vi accade una volta svanita la nostra presenza?
L’occhio vitreo e senza vita della donna imbalsamata, guardava un punto fisso che certo non era la nuda, tatuata schiena di suo figlio che si allontanava, anche se in un tetro istante, parve che quell’iride azzurra, priva di luce o sensazione alcuna, si muovesse inquietantemente verso l’uscio ormai vuoto.
Una volta giunto nuovamente nelle sue stanze Igor si vestì con minuzia, come un guerriero che indossa le sue vestigia, con sacre movenze immortali, era la caccia l’unica cosa che teneva in vita l’ultimo dei Vetusta.
*
NEL BUIO CELATA
La città, che era stata in antichità sia gotica che barocca, era ricca di spettri; in quei vicoli oscuri, di notte, in silenzio, strisciavano cupe presenze d’ombra e d’angoscia.
Igor passeggiava lungo le strette vie mal illuminate; nei vicoli in un sussurro impercettibile il tempo cantava; le icone dei santi, dai tabernacoli osservavano il guerriero maledetto, un lottatore smarrito tra le luci dei neon e le streghe di plastica dei pornoshop.
Quella era però, l’ora in cui vagamente si sentiva a suo agio, anche se provava una sottile ansia provocata dalla strana attrazione che quel luogo aveva esercitato su di lui; vi era giunto senza sapere perché, in quei quartieri malfamati ove ogni vicolo celava un fantasma sanguinante.
I pesanti tacchi degli stivali riecheggiavano nel silenzio delle anguste strade ove mille e mille ancora brutali omicidi si erano consumati nel corso dei secoli, a Napoli, in certi quartieri antichi, ad una certa ora, le anime dei morti intonano un canto silente, una litania silenziosa che agghiaccia la pelle e segue il viandante fino al suo uscio, talvolta riuscendo anche ad entrare in casa.
I morti, infatti, accoglievano il loro pupillo Igor guidandolo nella città antica; alta sopra di lui la luna imperava, tonda, fascinosa, stretta in quelle strisce di cielo che i vicoli rivelavano, non vi è nulla di più oscuro e poetico del lume della luna cinta da antichi palazzi.
Piccole cappelle e grandi chiese dimenticate osservavano il suo passo, l’incalzare di una carrozza invisibile si udiva di lontano, spettri lontani, confusi con il ciarlare di qualche televisore tenuto acceso a notte alta da un ubriaco ormai assopito; era accanto alla cappella di San Severo e si dirigeva sempre più nel fitto dei vicoli in salita.
Man mano che avanzava il silenzio regnava sempre più lungo le stradine notturne, un silenzio incombente che s’arrampicava sulle sporche pareti degli alti edifici monumentali.
Scale tetre e spettrali lo conducevano nel cuore misterioso di quei luoghi lambiti da una losca e oscura atmosfera, era settembre e il cuore di Igor gemeva.
Udì lo scrosciare di una fontana; ne seguì il flebile suono fino a raggiungerla, morbosamente tetra essa emanava quella melodia acquatica, simile all’incalzare di una fluida presenza proveniente dall’oscurità di un angolo nascosto; immobile Igor la fissò lungamente, era ipnotizzato e silenzioso al centro del vicolo completamente deserto, la malia dello sciabordio gli carezzava l’anima con una seducente euritmia.
Poi udì alle sue spalle un fruscio lene, carezzevole come la brezza. Si voltò di scatto e sotto un lampione, bellissima come la notte lo fissava una donna, la creatura che nel cimitero aveva intravisto da lontano, così languida da sembrare uno spettro. I lineamenti di quel volto erano solcati dal velo eburneo della sofferenza; come un’anima in pena, la donna scrutava Igor, silente, inquietante lo sondava con l’abisso ammaliante e melanconico, pauroso e dolce, dei suoi grandi occhi apparentemente vuoti.
Inizialmente Igor rimase smarrito, profondamente trafitto da quell’ignota presenza che riempiva il suo petto come fosse in un sogno, fiaccandogli le membra in un’attrazione mortale e sottomissiva.
“Puttana pazza, esci dalla mia anima!” Gridò nella notte e sfoderò un lungo pugnale puntandoglielo contro.
La donna scivolò in un vicolo come un fantasma, lentamente, a scatti come se fosse fatta di carta; un automa di cartapesta dallo sguardo veemente.
Igor tentò di rincorrerla percorrendo affannato i quartieri silenti, la donna era sparita, forse rifugiatasi in qualche oscuro scantinato o tra i marmi di una diroccata cappella; aveva bisogno dei suoi cani per trovarla, per ora doveva desistere.
Ancora però correva delirante lungo il labirinto di piccoli sentieri bui, dove minacciose si allungavano le ombre e non vi erano mai angoli nitidamente rischiarati dalla fioca luce dei lampioni.
Durante il suo folle inseguimento in cerca dell’ineffabile, s’imbatté in una losca coppia di uomini.
Si erano stagliati dinnanzi a lui, con occhi famelici e allo stesso tempo stupidi lo esortarono a consegnare i suoi averi, due grosse lame erano il loro incitamento.
Igor sollevò il coltello, ma i due gli si avventarono contro tempestivamente accoltellandolo al ventre.
Si ritrovò ancora solo tra le scalinate e le discese di quei luoghi, accasciato nel suo sangue, con fatalismo quasi lirico si lamentava, rivolgendo lo sguardo verso la gigantesca luna che lo sovrastava stretta dai tetti delle case addormentate:
“Un cacciatore di streghe rapinato da due coglioni! Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo!”
Tossì convulsamente nel pronunciare ogni parola, tamponandosi il ventre con le mani tinte di sangue.
Obnubilato dal dolore, ormai prossimo allo svenimento, si distese posando il capo sui freddi mattoni; in quell’ istante, nell’angolo buio di un vicolo, vide il lembo della veste bianca che indossava la donna di poco prima, la spettrale presenza aveva appena silenziosamente svoltato allontanandosi nelle fitte vie dell’antica città.
Davide Giannicolo
Davide Giannicolo