venerdì 30 dicembre 2022

Frantumi

 


Se ne sta a gambe larghe la vampira beffandosi di Lovecraft che voleva fottere una stella marina venuta dallo spazio o metterlo tra le valve di una vongola gigante. Il divino Catullo invece, senza complimenti se la scopa, troppo inebriato per badare al castello gotico che troneggia alle sue spalle e di cui non conosce l’architettura ai suoi occhi aliena. A dar man forte arriva Poe che però c’è l’ha troppo moscio, non disdegna però di fermarsi a contemplare, come un guardone tra le tombe, il quartetto di donne morte che si cimenta in saffiche effusioni poco distante da lui.

Ci pensa De Sade a squarciare il velo del tempo, e col potere di verghe di carne oltre i parallelepipedi della forma fa sbucare dagli scaffali dove si attarda la bibliotecaria otturata dal desiderio carnale, che mai sfoga, cazzi svettanti che la penetrano ovunque, lasciandola in una pozza di densa semenza.


È già successo altre volte tra i corridoi del supermercato, ma l’incantesimo è labile e le spranghe di carne e vene pulsanti si sgretolano inghiottite da una dimensione irreale ricca di falle. Le verghe si tramutano in tentacoli che tormentano un nuovo corpo in sacrificio.


Una schiera di nerd glabri si masturba ferocemente con la bava alla bocca, rendendo i propri glandi rossi e incandescenti come il cuore di un vulcano. Catullo è allibito innanzi alla visione, tenta di sbatterlo tra i denti di uno di questi impulmi sacerdoti del dado a venti facce, avviene una deflagrazione, densa poltiglia scarlatta viene lacrimata dall’occhio di un ciclope che presenziava nel buio del tempio immondo, tutto muta nuovamente, i tentacoli divengono tenebra tormentata, buio fitto senza fine.


La bella guerriera ci prende per mano estinguendo ogni timore, la sua forma è cangevole come in un sogno. 




La forma, gli odori, non esistono più. Forse solo il tatto persiste sul filo della spada lucente. La bella guerriera è alla foce del sogno, diamanti e serpenti dagli occhi d’opale mutano continuamente le sue forme ultraterrene.


È evidente che non ci è concesso restare a lungo in questi luoghi, il dolore di una polluzione di sangue mi presenta una novella Juliette, è lei la definitiva forma che mi conduce, da solo, nello scantinato dove la nuova Justine è stuprata da Goblin e Orchi come quella volta, nel ‘700 lo era da Volcidor e compagnia.


Non mi resta che risalire il flusso della lacrima e tornare nell’occhio del ciclope ma Juliette mi prende per mano, dirigendo il getto veemente della mia eiaculazione al di là del precipizio del cosmo. Juliette, la puttana cosmica, diviene astro fulgente a sua volta, nulla più potrà tornare uguale a prima, ora che la sacerdotessa di Sade m’accompagna in questa valle di corpi smembrati che posso accorpare a mio piacimento in un gioco di forme di cui ella stessa mi ha svelato la magia.


Allora ragazze fottono zombie in nefaste fantasie erotiche tra pareti di carta di riso, una putrescenza tipica delle menti storpiate che affogano nel loro stesso sperma.


...E nel Giappone feudale, forse la stessa forza malevola, muove strani istinti vampireschi in nobili case.



Vermi brulicano tra i glandi marcescenti, la morte prende vita, Catullo non sa se buttarsi nella mischia o suicidarsi.

La fanciulla di ferro si inginocchia, la differenza consiste in quale lato dell’immenso dado a venti facce, fatto di membrana carnale, l’immensità del tutto deciderà di eiaculare.



Davide Giannicolo 

domenica 18 dicembre 2022

Terrore nei Bassifondi

 


Gran Garrota era stato invitato nella torre del campanile in cui abitava abusivamente il Canonico Dagger, prete scomunicato e gran maestro di una setta Satanica, per consumare la cena della vigilia di Natale tra le spesse mura medievali riscaldate da una stufa a legna. Altro ospite sarebbe stato lo stregone Fravaglio di Triglia, che si guadagnava da vivere con falsi oroscopi e imbrogliando mediante la cartomanzia. C’erano inoltre la monaca che aveva abbandonato i voti, grassa e possidente, condotta sulla cattiva strada dal Canonico Dagger e la ragazzina ululante, di cui si sapeva poco o niente, tranne il fatto che presenziava sempre alle messe nere del canonico standosene in disparte in un angolo e ululando di tanto in tanto.

Il campanile si trovava in campagna, ma Gran Garrota, che aveva lavorato in fabbrica fino al giorno prima, voleva scaldarsi in procinto della cena, sfogarsi un po’ e farsi qualche regalo di Natale. Allora uscì di casa nel primo pomeriggio, guidò fino alla fermata di un autobus che portava ai bassi fondi della città, dalla parte opposta in cui era atteso per il cenone, molte ore dopo. Occultò la macchina in una strada fuori mano e salì senza biglietto sulla corriera, voleva immergersi nell’atmosfera dei reietti sin da subito. Sul pullman c’era un miscuglio di varie razze, ispanici, africani, islamici provenienti da terre remote, Gran Garrota li osservava con la bava alla bocca come fossero dolci natalizi, gli piaceva immergersi nello squallore come il messia di  Lautrèamont che si distende nell’immondo giaciglio di un postribolo abbandonandovi un loquace capello dell’aurea chioma.

Dopo circa mezz’ora la corriera vomitò i passeggeri dall’acre afrore tra le strade fatiscenti della città attanagliata dal gelo. Garrota scese con loro, il freddo accarezzava il suo lungo cappotto di pelle nera, un colosso dal volto mezzo celato da una Coppola grigia, guanti neri di capretto, incedeva nelle strade puzzolenti in cui le varie etnie, per il giorno di festa già cucinavano immonde pietanze composte dalle più svariate spezie e carni di sconosciuti animali.

 Entrò nel negozio di un cinese, prese fascette, nastro isolante nero, ganci d’acciaio, schiuma da barba, rasoi di plastica da poco e una borsa in simil pelle nera attua a contenere il tutto. Violentò la brutta cassiera asiatica visto che il negozio era deserto, la sgozzò e la lasciò in un lago di sangue dietro al bancone. Portava sempre con sé un lungo e largo coltello da caccia a lama fissa per questo tipo di esperienze. 



Gli venne fame ed entrò in un piccolo, sudicio locale che vendeva kebab, si rinfrescò con una birra e ordinò un panino, lo consumò lentamente, osservando gli avventori slavi e arabi, cercando di scatenare una rissa. L’odore della cipolla cruda e il grasso crepitare di quella carne dalla provenienza sconosciuta che girava sullo spiedo verticale dinnanzi al fuoco lo eccitò ricordandogli un piccolo inferno medievale, così, non sapendo più resistere frantumò la bottiglia vuota sul cranio di un moldavo e infilò il collo tagliente della bottiglia rotta nella pancia di un marocchino. Li stese tutti, compreso il gestore del locale, rimpinzando le loro carni coi frammenti di vetro e quando non bastarono, li abbuffò con l’irremovibile, puro acciaio della lama.

Ormai si era fatto buio e la magia del Natale era ancora più inebriante. Voleva comprare delle anguille, da cuocere sulla brace avvolte in foglie di lauro, da portare al Canonico Dagger, sarebbero state deliziose, il solo pensiero gli infuse calore in quella serata gelida. 

Andò dal pescivendolo, un giovane bengalese gli stava facendo un lavoretto di bocca nel retro bottega, Fravaglio di Triglia avrebbe detto che il giovane garzone, pagato in nero e a pochi spiccioli, stava “pulendo il pesce” come da tradizione. L’omone inzaccherato di frattaglie ittiche spinse via il piccoletto bengalese lasciandolo con la bava alla bocca, si sistemò i calzoni e andò al bancone a servire il cliente. 

“Metti i guanti merda umana, voglio delle anguille vive della specie grande detta Capitone e ringrazia che non ti uccido, perché sei l’unico italiano che ho incontrato stasera!”

Comprò cinque bellissimi esemplari giganteschi, vivi si dibattevano nella busta di plastica puzzolente mista ad acqua dolce. Rivide in quella scena un nuovo, piccolo inferno medievale e si eccitò ancora.

Lì vicino abitava Sashi, un suo misero e sudicio collega della fabbrica, anche lui un ometto musulmano del Bangladesh come il tipetto di poco prima che arrotondava alla vigilia dal pescivendolo.

Sapeva dove viveva Sashi perché lo aveva già seguito una volta, incuriosito dalla nana scimmiesca di sua moglie, anche lei era stata assunta da poco nello squallido posto dove si guadagnava da vivere. Essendo islamici non avrebbero festeggiato il Natale, ci avrebbe pensato lui ad allestire un bel presepe poco prima del cenone. I regali che aveva preso dalla cinese erano per loro.

Varcò la soglia del vecchio, fatiscente palazzo dalle mura marce, scrostate, cadenti. L’androne puzzava di stufato speziato in un cimitero mediorientale a cielo aperto, carcassa di pollo macerata nella merda condita con coriandolo, curry e cipolla.

Scassinò la porta, con la grazia e il silenzio di un cigno nero, all’interno la puzza di spezie straniere lo invase ancora di più , trovò quasi subito, uno dopo l’altro due ragazzini adolescenti, li stonò di botte al volto, legandoli poi saldamente col nastro isolante. In cucina incontrò Sashi, lo riempì di schiaffi, di peso, senza che questi potesse opporre resistenza, lo schiantò su una sedia e immobilizzò anche lui sapientemente col nastro nero. Ora poteva dedicarsi completamente alla signora, che a quanto pare era in bagno. Fu presa dal terrore quando si trovò davanti al colosso, le afferrò la gola, la sollevò e con la mano libera le strappò di dosso il pigiama denudandola. Le strinse una fascetta al collo senza soffocarla ma provocandole dolore, una alle mani e una ai piedi fino a segnarle con strazio le carni. Le infilò un gancio in una guancia facendola sanguinare abbondantemente, sul seno e sul ventre ambrato e gonfio. L’altro gancio fu fissato alla fascetta che servì a issarla su un pensile della cucina tenendola sospesa come una martire. Sashi guardava tutto con terrore. Sua moglie era nuda, sospesa nel vuoto, mentre agitava le corte gambe, sanguinante. Un rigoglioso cespuglio di pelo nero le ricopriva il pube come un manto animalesco,

arrivando fino all’ombelico. Gran Garrota spruzzò abbondante schiuma da barba sul mantello ispido, con il rasoio dalla lametta poco affilata cominciò a depilare la donna, grattava senza grazia; un rumore simile a un rostro di cavalletta stuprava la stanza mentre il pelo veniva via e la donna ansimava, presto emersero tagli ed escoriazioni, la vagina della bengalese mussulmana appariva ormai glabra come quella di una bimba. Sashi si dibatteva, Garrota lo tramortì con un pugno in testa, la donna piangeva, gridava singhiozzando frasi di diniego e richieste di pietà, che non fecero altro che infervorare l’aguzzino.

Garrota liberò due anguille, grasse e viscide, della specie che lui preferiva, ne infilò una nella vagina gonfia e arrossata poiché  depilata di fresco e l’altra nella bocca della donna che si dibatteva. La lasciò così, stuprata da quei serpenti acquatici, legata su un gancio alla cucina.

“Si è fatto tardi, tornerò a incularti un’altro giorno!”

Gran Garrota si allontanò silenzioso, come un fantasma, per le scale nel suo nero cappotto, che pareva il mantello di Maldoror. Prese una corriera al volo, mentre ormai il gelo e le stelle volgevano verso la notte della natività. Solo pochi passanti si attardavano dirigendosi verso le calde dimore piene di parenti e amici. Tra le luminarie natalizie che salutavano il quartiere deserto, le finestre erano già  piene di luce e appannate dal vapore caldo della cena imminente, dietro i cui vetri si udiva il vibrare di risate e voci in festa.

Il pullman era vuoto, se lo immaginava guidato da un conducente dalla faccia di teschio, per le strade non c’era anima viva.

La corriera spettrale lo condusse in campagna, dove recuperò la sua automobile. Erano le otto di sera, abbastanza in orario, gli piaceva arrivare per ultimo quando era atteso.

Il campanile era maestoso, immerso nell’oscurità. Quando salì le scale nere e buie, percepì le voci di sopra e una tenue luce conviviale. Immenso fu il calore quando gli aprirono la porta, il profumo del buon cibo, il lucore della stanza antica, il tepore della stufa, la compagnia dei suoi simili.

“Ho portato dei capitoni, hai del lauro vero Dagger?”

Il padrone di casa annuì senza parlare.

L’ex monaca grassa già lo fissava con occhi famelici, mentre la ragazza ululante gli sorrideva con follia demente.

L’unico a parlare, già palesemente ubriaco e rosso in volto accanto al fuoco scoppiettante fu lo stregone Fravaglio di Triglia.

“Sei sempre l’ultimo Gran Garrota....puzzi di sangue, torture e ossa rotte come al solito!”


Davide Giannicolo


La torre del campanile e i personaggi al loro interno sono liberamente tratti dal romanzo “L’Abissodi J.K. Huysmans al quale l’autore porge un palese e grato omaggio. 

L’ambientazione razzista, il titolo e lo squallore sordido dei bassifondi sono un omaggio al racconto  “L’Orrore a Red Hook” di H.P. Lovecraft.

Il racconto è tra l’altro disseminato di tributi e omaggi al Conte di Lautrèamont.

Davide Giannicolo


domenica 4 dicembre 2022

Aggressione Futanari al veglione di Capodanno

 


Gabriel aveva fatto sei ore di macchina, in pieno inverno, per festeggiare coi suoi amici il veglione di Capodanno in un club(così lo chiamava lui) di Castel Volturno. Il ventenne nigeriano aveva lavorato duramente tutto l’anno in una fabbrica della costa adriatica e adesso non vedeva l’ora di svagarsi e lasciarsi l’estenuante fatica alle spalle.

Il locale era colmo da scoppiare, pieno di tipi strani eccitati da alcool e pasticche. Gente vestita in maniera assurda, anche chi non lo era appariva venuta da un altro mondo sotto le luci fluorescenti e gli stroboscopi che mitragliavano flash. La musica potente dai bassi nevrotici rimbalzava nel petto e faceva tremare i denti. Gabriel bevve un paio di cocktail, non sapeva assolutamente cosa ci fosse dentro e si lasciò andare. Era un ragazzo esile, dalle membra fini e allungate, l’alcol ci mise poco a fare effetto, completamente vestito di bianco spiccava nella pista, l’odore pungente del sudore cominciava a impregnare quella sorta di altare della carne dove la gente si ammassava l’un l’altra strusciando i propri corpi in un’unica massa palpitante. I ragazzi, per lo più neri erano scatenati, ballavano senza sosta. Improvvisamente si avvicinò però a Gabriel un donnone dalla pelle bianca, era più alta di lui, massiccia e muscolosa,  un volto bellissimo e magnetico. Gabriel iniziò a danzare con lei, intontito, quasi ipnotizzato, sentì quelle carni sode su di lui, enormi seni, morbidi e profumati nonostante quel carnaio, premevano contro il suo petto.

“E se fosse un uomo?” Pensò Gabriel, “Qui è pieno di trans, devo farla parlare, li riconosco dalla voce, anche se non è la prima volta che per arrangiarmi me ne faccio uno, stasera ho voglia di una donna vera!”

Come se la gigantessa bianca leggesse i suoi pensieri gli sussurrò all’orecchio parole umide e sensuali, quasi gli imperlò i lobi di saliva dicendogli con un alito fresco che sapeva di caramella alla fragola:

“Dai andiamo a prendere un pò d’aria fuori, qui si soffoca!”

Nonostante la musica alta non c’era dubbio, quella era la voce di una donna, niente toni gutturali e spiacevoli da transessuale, nessuna cazzo di T-girl o Shemale a fargli la buccia.

Si baciarono, lì in pista, aveva una lingua calda e grassa come quella di una mucca, sembrava volesse scavargli fin dentro le viscere con quell’appendice umida, sentì meglio quel sapore di caramella alla fragola e mentre la lingua gli violentava la bocca gli venne duro e lo premette contro la gamba d’acciaio di lei, che tanto era alta doveva piegarsi leggermente al fine di baciarlo.

Furono fuori e la musica si affievolì, si appartarono in un parcheggio, dietro il rudere di una casa vecchia, cominciarono a esplorarsi con le mani, lei divenne più aggressiva, spinse Gabriel contro il muro e limonandolo violentemente gli calò i pantaloni con un forte strattone liberando il suo membro duro, fine e lungo come le sue membra. Lei iniziò a frizionarlo, ma qualcosa non andava, quelle grosse mani sembravano appartenere a un muratore.

Eppure aveva due seni enormi e soffici, li liberò dal tessuto strettissimo ed elastico che li fasciava e ci fece giocare il ragazzo per un po’, poi si tirò su la gonna cortissima, e Gabriel fu preso da un irrefrenabile terrore. Arrotolato in un minuscolo perizoma filiforme c’era un mostruoso cazzo gigantesco, che ricordava il membro possente di un asino.

La tipa iniziò a ridere, eppure quella risata da ragazzina adolescente non aveva nulla di maschile.

“Adesso me lo succhi frocetto, o ti spezzo il collo!l”

Gabriel con uno scatto, coi pantaloni calati, tentò la fuga, ma la gigantessa lo afferrò e lo sbatté contro il muro, con una potenza decisa da buttafuori, il cazzone era duro e sobbalzava nel vuoto della penombra mentre la possente amazzone sballottava il  gracile negretto. Gli infilò un dito nel ano e gli morse  il labbro inferiore a sangue spingendolo contro il muro, assaggiò il suo sangue imbrattandosi la bocca di rosso carminio, mentre lo maltrattava e il membro mostruoso premeva contro il ventre di lui quasi a volerlo accoltellare con il glande rovente nella parete addominale, tesissima e palpitante a causa della paura.

Lo mise in ginocchio costringendolo con le sue enormi braccia piene di muscoli guizzanti e senza troppi complimenti lo strozzò col suo pezzettone di carne asinino, il ragazzo con la bocca piena e gli occhi lacrimanti non poteva fare altro che poppare in silenzio quella mostruosità che gli era stata ficcata in bocca, tenendosi con le mani supplicanti artigliate ai glutei di marmo di lei, al fine di non farsi trafiggere la carotide. Fu sodomizzato, schiaffeggiato, il culo dilatato oltre ogni dire sanguinò. Fu inondato da fiotti innaturali di seme, tutto il suo corpo si ritrovò appiccicato in una pozza animalesca, sembrava un incubo. Poi arrivarono altre gigantesse, sentiva risate da troie ragazzine troneggiare su di lui. Lo attorniavano coi cazzi svettanti, duri e sobbalzanti come randelli di gomma. Lo circondarono, severe, con le mani ai fianchi a mostrare la loro imponenza e le chiappe nude, dure e scintillanti come il marmo.




Lui nudo e supplichevole, implorante come una preda sul pavimento sudicio, le osservava sottomesso.

“Adesso ci farai divertire cazzetto moscio!”

Spaccarono ogni suo buco, lo soffocarono con carne venosa e pulsante, scoppiarono getti feroci di sperma nella sua gola e fra le piccole natiche sfiancate. Lo distrussero, le tettute culturiste dai culi di pietra. Lo picchiarono coi propri membri come fossero fruste o mazze nerborute e flessibili. Fu una gang bang in piena regola dove fu sfruttata ogni posizione e fantasia. Fino all’alba si consumò l’aggressione Futanari di Capodanno che annegò Gabriel nella più violenta e animalesca lussuria sottomissiva.

Davide Giannicolo