lunedì 19 novembre 2012

Volcidor: Shub-Niggurath

Volcidor compone un brano di stampo Death metal usando il linguaggio dei grandi antichi e inneggiando a Shub-Niggurath nei testi....

mercoledì 14 novembre 2012

ALLE PRIME LUCI DELL'ALBA





Alle prime luci dell’alba



Eravamo fuori, come al solito del resto, l’alcool unito alla coca pulsava nelle nostre teste morse dalla follia; albeggiava ma noi non eravamo ancora stanchi, nonostante gli occhi gonfi e le tempie devastate.
Lei era ferma in un sordido angolo, ci aspettava, nera, succintamente vestita allo scopo di eccitare i passanti; dieci euro, economica e sporca, il giusto premio per degli sciacalli notturni come noi.
Solo quando la caricammo capimmo che le tette non erano le sue, aveva il reggiseno imbottito da sudici stracci, peccato, l’ennesima beffa della droga, ci aspettavamo dei grossi seni d’ebano da stringere nelle mani, invece lei aveva solo i capezzoli, o poco più.
Io non capivo nulla, volevo solo prolungare il mio stato d’ebbrezza scemante, come si fa soffiando su di una fievole brace ormai inghiottita dalla cenere.
Ero davanti col guidatore, dietro c’erano due amici che non l’avrebbero scopata ma che comunque la toccavano rimpiangendo la negativa decisione.
Giungemmo nel losco dedalo di vicoli dove ancora regnava la notte morente, lì vi erano delle squallide camerette a piano terra, un letto e un bagno, nulla più; fuori attendevano i protettori, non provavano nemmeno a nascondersi, gestivano le stanze ed erano pronti a bussare prepotentemente alla porta se ci mettevi troppo, non era la prima volta che ci avevo a che fare.
Quando fui dentro mi pentii come ogni volta della mia scelta, il pavimento era cosparso di sperma, imperava un nauseabondo olezzo di orina.
Lei si denudò parzialmente, il mio amico, che conoscevo da bambino(eravamo compagni di banco alle elementari) si spogliò completamente e iniziò a frugare tra le cosce di lei.
Pensai a quando eravamo bambini, coi grembiulini blu, innocenti, paffuti, adesso ce ne stavamo completamente nudi a spartirci una puttana di colore in una sordida stanzetta col pavimento scivoloso a causa delle molteplici, precedenti eiaculazioni di sconosciuti; che fine aveva fatto la nostra purezza? Era già perita o la stavamo uccidendo in quel momento?
Lì dentro la malattia imperava ovunque, incombente come un animale scabbioso, ci osservava: il morbo venereo vomitato da un pene coperto di croste appartenente a chissà quale figlio di puttana che l’aveva dolorosamente spruzzato poco prima.
Il mio amico, dal corpo bello e atletico, scopava la puttana in posizione tradizionale, lui sopra e lei sotto a gambe aperte che fingeva di godere.
Era una scena interessante, non avevo mai visto qualcuno scopare, come guardare un porno dal vivo.
Il mio membro non voleva saperne però di rizzarsi, la cocaina lo strozzava, se ne stava lì rannicchiato, timido come un mignolo senz’osso.
Anche il mio amico divenne presto fiacco, lei iniziò a protestare, ci metteva troppo, lui si difendeva dicendo che non era un bambino, che lui le donne le scopava per ore.
La donna era ancor più scoraggiata dal mio cazzetto inerte, avrebbe dovuto compiere un indicibile fatica allo scopo di tirarlo su.
Drogati, alcolizzati, decadenti di merda, che figura ci faceva l’uomo bianco in quella stanzetta?
L’africana era stata sicuramente scopata da membri mostruosi e brutali fra le fronde della foresta.
Cosa pensava quella troia riguardo quel ciccione dal cazzo moscio che se lo menava senza successo mentre il suo amichetto la scopava vanamente?
A giudicare dalla sua espressione sicuramente aveva pena di me, non manifestava scherno però, poiché una che fa quel mestiere, nelle peggiori condizioni, coi tossici e le persone della peggior specie, per dieci euro, nella sporcizia e il sudiciume, sa che gli impotenti sono la razza peggiore, i più pazzi, frustrati, di conseguenza sadici, suscettibili e violenti.
Ma io non ero e non sono impotente, ero semplicemente fuori di me dalle droghe e dal bere.
“Sei qui per giocare!” Dissi a me stesso.
“Prendila come un gioco allora! Stai guardando un porno!”

Sicuramente De Sade si sarebbe comportato meglio, ma lui aveva i suoi confetti afrodisiaci, nell’elegante astuccio di cristallo coi bordi d’oro, la sua bomboniera magica; ne avrebbe mangiati in quantità eccessiva, come gli si addiceva, e avrebbe punito la negra con un arnese gonfio e prorompente grazie all’artifizio.
Io invece non avevo null’altro che la testa gonfia di cocaina cattiva e a buon mercato tagliata con chissà cosa.
Pensai fortemente a De Sade che frustava le sue mendicanti, adesso il corpo nudo e sudato del mio amico iniziava a infastidirmi e suscitare in me un certo ribrezzo, non ce l’avrebbe mai fatta a venire.
Mi stancai, presi la donna e l’invitai a succhiarmelo, contrariato il mio amico iniziò a spararsi una sega:
“Io non sono un bambino, i bambini vengono subito!” Brontolava menandoselo.
Il mio pene non reagiva, e i calzini neri a contatto col pavimento umidiccio non mi aiutavano.
Non ricordo precisamente come successe ma venni col cazzo moscio, spruzzando debolmente il mio sperma che si unì a quello già presente sul lercio pavimento, l’arazzo di sborra tessuto dal popolo dei bassifondi, ricamato pazientemente da quella ragazza proveniente da un paese lontano con l’animo colmo di speranze, ma che non aveva trovato null’altro che squallida, sordida decadenza: percosse e amanti sdentati, il peso di corpi affannosi e sudati, prepotenti, sudici, indegni.
Tutto il marciume della società moderna aveva gravato su quel corpo, tutte le più empie frustrazioni, la tristezza di una eiaculazione solitaria, malata, oscena nella sua urbana, carnale menzogna.
Andammo via un po’angosciati, gli altri due ci aspettavano in macchina, era ora di chiudere la gelida saracinesca di quella notte febbrile, unta come un moncherino che carezza i boccoli dorati di una vergine.

“Ma tu guarda un po’dove devo mettere l’uccello!”
 Disse il mio amico pensando a quanto successo poco prima, poi mise in moto l’automobile e ci allontanammo nei vicoli percorsi dal gelido chiarore dell’alba.

Davide Giannicolo

Il Caos seduce il Mare e infine si suicida

Volcidor(Davide Giannicolo) sbalza i suoni di una chitarra elettrica e manipola la realtà aprendo all'ascoltatore le porte di una inquietante dimensione spaziotemporale....

mercoledì 17 ottobre 2012

A CAVAL DONATO NON SI GUARDA IN BOCCA


Le feste a casa del conte erano per pochi invitati, massimo quattro, raramente ammesso il gentil sesso; ma quella era una serata diversa, il suo settantaquattresimo compleanno si sarebbe festeggiato
la notte stessa, così oltre a me, invitato casuale, era stato concesso il privilegio di presenziare ai seguenti gentiluomini:
Il marchese La Vairg, libertino sessantenne totalmente dipendente dalle anfetamine, l’avvocato Spadoni, personaggio dal misterioso passato e dalla dubbia fedina penale, poi il colonnello Von Swan, uomo d’armi tedesco dal funereo portamento.
Inoltre, cosa eccezionale, si diceva fossero state presenti al lussuoso banchetto ben due donne: si trattava della baronessa Bianca Femori, donna dissoluta e completamente pazza, dalle dichiarate tendenze masochiste; l’altra donna era un mistero, c’era chi affermava fosse la figlia della baronessa, altri che fosse semplicemente la sua complice ed amante.
Premetto che la mia presenza alla festa non aveva lubrici scopi come sicuramente qualcuno ancora adesso pensa, il mio unico obbiettivo era entrare nelle grazie del conte affinché firmasse l’atto di cessione di alcuni terreni di cui avevo assoluto bisogno(sono un costruttore), solo in seguito compresi che la mia innocente presenza aveva uno scopo ben preciso tra quegli uomini rotti ad ogni esperienza.
Arrivai in serata con la mia auto, la villa del conte era un edificio immenso, circondato da boschi minacciosi che in quella notte senza luna apparivano come un unico monumento di tenebra, immediatamente il fascino vetusto della villa mi mise a disagio, era come se la vecchiezza fosse un ornamento voluto dal conte, le statue consunte di nudi greci, ammantate dall’ombra e dal muschio parevano fissarmi insistentemente negli occhi.
Bussai alla porta, fui accolto da alcuni domestici che mi condussero in un ampio salone riscaldato da un camino settecentesco.
Fortunatamente non ero il primo arrivato, questo mi evitò il disagio dell’attesa, poiché un uomo piccolissimo e magro, dai baffetti neri e la pelle paonazza, se ne stava immerso in una gigantesca poltrona di cuoio rosso, nell’avvicinarmi capii che il colore di quei capelli evocava un che di innaturale, sicuramente erano tinti.
“Questi è il signor colonnello Otto Von Swan, il conte vi prega cortesemente di attendere qui prima che venga egli stesso a ricevere i suoi ospiti!”
Osservai il domestico andar via, portava in volto un altezzosa espressione che suggeriva tutto tranne che ospitalità, poi mi voltai verso il colonnello, sorseggiava brandy scaldandosi accanto alle fiamme scoppiettanti del camino, contemporaneamente mi fissava con i suoi occhietti stretti, più lo osservavo più non riuscivo a trovare in quella figura nulla di marziale; pensai che quel piccolo uomo aveva trovato nella carriera militare l’unico sfogo alla propria repressione dovuta alle scarse dimensioni fisiche, evidentemente si eccitava nel dare ordini ai suoi robusti, prestanti soldati.
Non tentai di parlare con lui, poiché emanava un aura troppo negativa, era impossibile penetrare tra le spesse coltri di quell’ostinato silenzio; presto però giunsero gli altri ospiti, il marchese e l’avvocato erano insieme, entrarono a braccetto, entrambi in abito scuro, il contrasto tra quelle due figure accostate possedeva sfumature grottesche, il marchese era gracile e tremolante, la pelle incartapecorita, il gozzo pendente ed il naso aquilino, becco che lo faceva apparire come lo scheletro di un volatile umanoide, vagamente in grado di stare in piedi da solo; l’avvocato invece era obeso, un pachiderma che faceva fatica a muoversi, dal sedere enorme e le spesse fasce di grasso che dal ventre pendevano fin sulle cosce a stento contenute dai vestiti, il volto che sovrastava quella imponente massa, era laido e sudato.
Dall’allegria mostrata dai due, e le facce in cui il rossore si allargava in chiazze rubizze, si evinceva che fossero già entrambi completamente ubriachi.
“Buonasera signori, buonasera!”
Il colonnello non si scompose, allora capii che non ero il solo ad essergli antipatico, quell’uomo doveva avere un inimicizia con l’universo intero; l’avvocato gli si avvicinò agitando il sedere come fa una grassa baldracca incapace di muoversi e malata di gotta, nel vedere ciò il colonnello estrasse una rivoltella e sparò un colpo all’altezza dell’orecchio del ciccione sfiorandolo di un pelo, solo allora vidi che il colonnello aveva un frustino poggiato sulle ginocchia, caduto in terra nell’estrazione.
Nello stesso istante in cui lo sparo aveva fatto vibrare i cristalli del salone il conte discese dalle scale di marmo in stile barocco, non lo avevo mai visto, lui come gli altri presenti, si trattava di un uomo basso e pingue, calvo, dalla carnagione chiarissima, sembrava aver ignorato completamente l’eclatante sparo del colonnello.
“Vedo che avete già fatto amicizia, bene, d’altronde Spadoni e La Vairg sono già vecchi amici, venite in sala da pranzo prego, la cena è quasi pronta, cominceremo a sederci, le veneri hanno telefonato e pare che ci faranno aspettare!”
Sorrise con fare effeminato, poi si voltò precedendoci, allora notai che il suo smoking lo copriva solo sul davanti, la sua schiena e le natiche erano nude, completamente glabre, strette in aderenti cinghie di cuoio.
A quel punto realizzai che tutti li dentro erano completamente pazzi.



               
                                                          *


La nostra tavola si rivelò essere alquanto singolare, quattro donne grasse, di almeno cento chili, sulla cinquantina, erano posizionate a quattro zampe in una fila orizzontale, il mio piatto si trovava proprio sul burroso culone di una di queste.
“Prego signor Venoldi, la vedo alquanto perplesso, quella su cui si accinge a cenare è mia moglie, la inculi pure se vuole, la stuzzichi, la percuota, a lei piacerà, come sicuramente apprezzerà se l’avvocato voglia riempirle la bocca, poi ci sono le mie sorelle Francesca e Matilde, questa qui invece è Maria, la mia cuoca!”
Subito il marchese distese un abbondante striscia di cocaina sulle pieghe grasse della schiena della sorella del marchese e con ampie tirate presto fece scomparire la polvere bianca nel suo naso adunco.
“Ma..” Tentai di oppormi a quella bizzarria che mi si era posta innanzi, subitaneamente il conte arrestò le mie parole con tono affettato.
“Signor Venoldi, a caval donato non si guarda in bocca!”
“Al massimo glie la si riempie!”
Continuò l’avvocato che già aveva estratto il suo corto pene facendolo affiorare dalle pieghe di grasso e lo fece inghiottire alla contessa che non sembrava disdegnare l’atto.
Cominciai a eccitarmi, il pensiero di poter disporre della moglie del marchese dinnanzi ai suoi occhi, di poterla umiliare a mio piacimento, mi pervadeva di lubrico piacere, infilai due dita fra quelle natiche enormi affondandole nel primo orifizio che mi si aprì innanzi, quell’ondeggiare burroso sembrava invitarmi ad aumentare la foga della penetrazione, contorcendosi istericamente il culo mi si chiudeva intorno alle dita quando giunsero cinque valletti agghindati da cicisbei, erano giovani ragazzi dagli organi genitali eretti e scoperti, posarono le portate bollenti sulle grasse, nude schiene delle signore, ustionandole crudelmente.
Qualcuno degli ospiti cominciò a giocherellare con quei peni dal pube rasato di fresco.
“A proposito di cavalli, sono da poco rientrato dal Texas!” Disse l’avvocato.
“Lì ho conosciuto una ragazza di campagna niente male, oltre a farsi inculare dai bifolchi delle fattorie intorno, belli o brutti, giovano o vecchi che fossero, che puledra, dicevo, oltre a questo amava farsi fottere da tori e stalloni da monta, mi sono masturbato guardandola per tutta la notte, nella sua stalla con le chiappe nel fieno! Oh dio non nascondo che avrei voluto anch’io essere strozzato dal cazzo di una di quelle bestie, ma mi è bastato guardare i suoi bocconi.”
“Lei è veramente una bestia senza alcuna eleganza, un primate disgustoso Spadoni, non mi meraviglia che non apprezziate le raffinate, artificiali carezze del lattice!”
Ribatté il conte, ma l’avvocato, eccitato dal proprio raccontino, venne nella bocca della consorte contessa.
Il colonnello spense il suo sigaro sulle natiche della cuoca.
“Questi mocciosi hanno cazzi piccoli, i miei soldati possiedono ben più mirabili verghe che succhio con avidità, sicuramente anche il getto sarà scarso, ed io amo annegare nello sperma!”
Provai a immaginare il colonnello che succhiava con bramosia verghe mediante quelle sue labbra sdegnose ricoperte dai baffetti, subito la mia erezione venne meno, poi giunse l’arrogante domestico.
“La baronessa Femori e la sua accompagnatrice sono giunte”
Fu allora che ebbe inizio la vera festa.



                                                                  *
La baronessa era una donna dal corpo stupendo, indossava un aderente tubino in lattice rosso che rivelava natiche possenti e cosce da dea, dal naso in su il suo volto era coperto da una maschera di uguale, lucido tessuto, dunque le si vedevano solo le labbra, rosse, carnose, violente nella loro tisifonea sensualità, gli occhi verdi, rapaci, impassibili, i seni poi, grossi e danzanti, quasi del tutto scoperti grazie a una generosa scollatura a ventaglio; calzava scarpe di vernice rossa dal tacco in acciaio, la sua accompagnatrice era legata a un guinzaglio che la baronessa teneva elegantemente fra le mani inguantate, ma non doveva essere lei quella con le tendenze masochiste?
La donna cane era minuta, completamente nuda nonostante il freddo all’esterno, dai tratti vagamente orientali, i capelli setosi e neri, nonostante la sua umiliante posizione mostrava uno sguardo nobile e fiero.
“Porci schifosi, basta mangiare!”
La baronessa ribaltò la zuppiera piena e bollente sulla faccia del conte.
“Alzati vecchio frocio!”
La ragazza orientale, sicuramente ibrido tra occidente ed oriente, estrasse dei lacci di cuoio da una borsa, con questi il conte fu legato in un nodo complesso, la faccia di lui era estasiata, quasi inebetita.
“Leccami le scarpe”
Il tacco della baronessa affondò nella flaccida guancia del conte quasi perforandola.
In quel momento l’avvocato si alzò denudandosi completamente.
“Come osi ciccione mostrare le tue nudità suine in mia presenza, chinati!”
L’avvocato poggiò le mani sul tavolo formando un angolo di novanta gradi, il culo rivolto verso la maestosa regina del dolore, era chiaro che mi avevano ingannato, quella non poteva essere la baronessa Femori, costei lo fustigò con una verga flessibile fino a quasi scorticargli le natiche, poi si sfilò via le scarpe di lucida vernice e con il tacco acuminato cominciò a penetrare nell’ano dell’avvocato straziandoglielo.
Intanto il marchese non faceva altro che tracannare vino e tirare cocaina, sembrava profondamente divertito mentre il colonnello si impadroniva della piccola donna mezza orientale assoggettandola alle proprie voglie.
Con spesse corde l’aveva stretta talmente forte da segargli le carni, la corda mordeva la pelle, assetata belva vampirica, rendendo le carni violacee, era sublime l’espressione di sofferenza della ragazza, quella piccola bocca leggermente dischiusa, la soave enfasi con la quale ansimava come fosse una statua di martirio, dunque anche il colonnello era bravo a fare i nodi.

Il colonnello estrasse la sua rivoltella e la affondò lentamente nella stretta vulva della candida mezza giapponesina, pregai affinché non premesse il grilletto, ma forse era proprio quel rischio ad eccitare lei, il cui ventre s’alzava e abbassava in dolci sussulti, la cui brina luccicante ricopriva il puro nero della pistola e la mano del colonnello che d’un tratto tirò via l’arma dalla fradicia vulva, se la infilò in bocca come fosse un pene e si sparò nel palato disseminando il suo cervello ovunque.

Restai immobile, sporco di sangue e perplesso, cosa cazzo stava succedendo?
La baronessa sciolse il conte che con i piedi ancora legati stramazzò al suolo come un vitellino intrappolato dai bolas, gli furono gettati addosso nuovi indumenti, l’ordine che ne conseguì fu quello di indossarli, si trattava di una tuta in lattice nero cosparsa di borchie, e una maschera aderente di uguale fattura, il conte la indossò mentre strisciava nel sangue del colonnello, intanto il marchese non smetteva di tirare la sua polvere magica.

La carnefice legò nuovamente il conte, il nodo questa volta era ben più pericoloso, le gambe e la carotide erano collegati da una corda, il solo lieve movimento avrebbe strangolato il vecchio feticista.
“Cammina lurido verme e non osare eiaculare!”
Il conte cominciò a fare piccoli passetti, così con le mani legate all’indietro, se fosse caduto per lui sarebbe stata la fine, ma la regina del dolore lo lasciò a se stesso spostando la sua attenzione verso l’avvocato.
“Stenditi lurido ubriacone!”
Il pachiderma eseguì, la donna lo sovrastava, le mani ai fianchi con fare severo, alta, possente, una perfetta dea della sofferenza.
Con la pianta del piede nudo cominciò a schiacciare la faccia dell’avvocato, questi sembrava tutt’altro che sofferente, si contorceva in laidi spasmi, leccando le dita di quel piede d’avorio.
“Mi fai schifo, alzati cicciona, e siediti sulla sua faccia!”
La cuoca che fungeva da tavolo, la più grassa delle quattro, spezzò la propria immobilità facendo sobbalzare i suoi seni immensi, poi si lasciò cadere senza pietà sul volto dell’avvocato soffocandolo in quella tela di pieghe di grasso, la faccia scomparve annegando nella valanga di carne, solo oscuri gorgoglii si percepivano filtrati dalla massa che opprimeva la bocca e dalle risate della cuoca obesa.

Così anche l’avvocato morì in preda ad orribili spasmi, mentre il marchese, ormai fuori di sé non tagliava più strisce di coca, bensì aveva vuotato un sacchetto sul tavolo e si serviva direttamente dalla montagna bianca.


Il conte, come previsto, era caduto, una bava biancastra gli colava dai lati della bocca mentre veniva strangolato da quel complesso gioco erotico.
La baronessa legava intanto la sua schiava a gambe larghe su di una sedia mediante fili elettrici scoperti, aveva coperto il volto di questa con una maschera preservativa, di quelle che usavano i medici del medioevo per visitare gli appestati, la cui caratteristica era quella di possedere un lungo e affusolato becco che veniva riempito con spezie e profumi al fine di filtrare gli immondi olezzi della peste.
Da dove avesse preso un simile, tetro ornamento lo ignoravo, ero troppo impegnato ad assistere alla morte del conte.
Ricordo che oltre alla maschera la schiava era completamente nuda, appariva come un demone bianco con quel suo nuovo volto e le carni segnate dai fili elettrici in una tagliente ragnatela che avviluppava completamente il suo corpo mordendole le carni, i seni stretti talmente tanto da sembrare frutti in attesa di dischiudersi.
La padrona, che io vedevo da dietro chinarsi e mostrare un angolo del nero, vellutato e nudo sesso, infilò nella vulva della sua schiava una lametta, poi un'altra e un'altra ancora, fino a che il sesso iniziò a vomitare sangue, il ventre continuava ad agitarsi scosso da una sorta di violento piacere, mentre i capezzoli, aguzzi come spine di rosa sormontavano quei piccoli seni inturgidendosi sempre più, la carnefice si voltò infine verso di me, che fino ad allora ero stato ignorato insieme al marchese e alle restanti donne tavolo.
“”Credi che lei stia soffrendo? Se tu potessi vedere il suo volto sotto la maschera! Capiresti allora che lei in questo momento gode orribilmente!”
Vidi la mostruosa inespressività della maschera preservativa, sotto di essa un corpo perfetto, sanguinante, scempiato dai segni delle corde e delle precedenti percosse del colonnello.
“Non è vero baronessa Bianca?”
Dunque la baronessa era colei che stava subendo il martirio, i miei dubbi erano fondati, per questo la carnefice aveva tenuto tutto il tempo celato il proprio volto, perché quell’inganno? Perché quel gioco di morte?
Fu tolta la maschera alla vera baronessa, effettivamente sorrideva, estasiata da quelle massicce dosi di dolore, la dea infernale afferrò l’estremità del filo elettrico a cui la donna era strettamente legata, al suo apice vi era un spina per la corrente, rimasi inorridito quando compresi le sue intenzioni, fece scorrere il filo tra le labbra della vagina sanguinante, poi lo infilò fra le natiche come fosse un macabro perizoma, la baronessa rideva, mentre la carnefice non mutava la sua glaciale espressione,  la spina fu inserita nella corrente.
“Prendi la pompa grassa puttana!”
Fu ordinato alla cuoca, che presto corse verso la finestra su cui era stata prematuramente poggiata una canna per l’acqua.
“Si presto, sbrigati, sto godendo come una puttana fra i martiri dell’inferno, l’inferno della macerazione delle carni, dove spero di andare presto e soffrire all’infinito, questo, si questo è il mio paradiso, voglio morire all’apice del dolore e poi raggiungerlo!”
La baronessa delirava mentre la sua carnefice afferrava la pompa idrica  posizionandola fra le proprie gambe, come se cavalcasse un immenso serpente di plastica il cui tocco con la sua nuda vulva era sicuramente eccitante, quell’oblungo membro di plastica la faceva sembrare un agghiacciante ermafrodito.
“Questo è il mio membro artificiale, stai per ricevere l’ultimo getto di sperma sul tuo volto da puttana, fate aprire l’acqua!”
La cuoca diede il segnale e quasi immediatamente la gittata investì la baronessa, le scosse elettriche furono atroci, era come in preda ad una crisi epilettica, ma sorrideva, gridava ebbra di godimento fino a che non sputò lunghi getti di sangue.
Allora la carnefice gettò la pompa in terra e rivolse il suo algido sguardo verso di me.
“Siamo rimasti solo io e il marchese, a meno che anche moglie e sorelle vogliano farsi macellare!”
Pensai questo, ma quando mi voltai notai che il marchese era collassato affondando il volto nella montagna di coca, spettatore passivo aveva preferito togliersi la vita con un overdose, sniffando fino alla morte, la dea del dolore mi si avvicinò, nelle sue forme giunoniche e inarrivabili che il latex, tessuto sintetico dai richiami necrofili mi impediva di mordere e baciare.
“Presumo che lei possa andare!”
Disse impassibile queste parole, pronunciandole attraverso la rosa vermiglia della sua bocca.
“Mi dice cos’è successo?”
“E’semplice, queste persone volevano suicidarsi e a volte, se si hanno determinate passioni e si vuole morire travolti da esse si ha bisogno di un aiutante, mi capisce? Questo è il mio lavoro, guadagno bene e mi piace, le hanno fatto credere che ero la baronessa per confonderla ulteriormente, il suo compito era quello di essere testimone di questo suicidio altrimenti scambiato per mera carneficina, ma le leggi non approvano simili sottigliezze, per questo non conosce né il mio nome né il mio volto, inoltre la presenza di uno spettatore ignaro ha triplicato il godimento dei miei clienti, non si preoccupi, sono morti felici, il colonnello, impotente ed omosessuale represso ha sacrificato la propria vita mediante un arma intrisa nel tempio di Venere, tempio al quale non era mai potuto assurgere, l’avvocato ed il conte, amanti e schiavi dei giochi che comportano prima umiliazione e poi soffocamento hanno trascorso la vita a spingersi sempre più oltre e questo è stato l’apice della loro carriera, la baronessa, serva del dolore e dell’umiliazione da sempre è morta avvolta dalle vergate del suo tormentoso dio, in quanto al marchese, ha preferito esalare il suo ultimo respiro fra gli eccessi della cocaina.
Aspetti prima di andare, ho questo per lei, è una busta da parte del conte!”
Presi la busta e l’aprii, erano gli atti di cessione firmati, avevo avuto quello che desideravo, ma ormai non mi bastava più, volevo lei, e sapevo che c’era un unico modo per averla, ma no, non era il caso, girai i tacchi e mi diressi verso la macchina, lasciandola sola, stupenda, seminuda fra i cadaveri, sorgeva l’alba e avevo i miei documenti, cos’era quella sensazione sgradevole che mi pervadeva? Cosa avevo da lamentarmi, come si dice? A caval donato non si guarda in bocca!


©Davide Giannicolo

sabato 28 luglio 2012

Volcidor, The Devil

Volcidor picchia il microfono dando vita ad un rumoroso rituale sonoro, sinistra evocazione di divinità malevole, capaci di impossessarsi del vostro fragile sistema nervoso....

La notte, il vino rosso e la morte(Volcidor e Davide Giannicolo)

Il folle Volcidor incontra Davide Giannicolo, e  ne nasce un pezzo lisergico e malinconico.....

Un racconto malato di Dave Necro

E' ancora notte in quel piccolo villaggio messicano. Gli ultimi lampi di un temporale appena passato illuminano a sbalzi la stanza.
Il volto dell'uomo è una feroce maschera di follia, le sue mani sono sporche di sangue. Ancora un lampo, questa volta si riflette sulla lama di un coltello gettato a terra, accanto al letto. Dalla lama cade qualche goccia di sangue.
D'improvviso si getta sul cadavere della moglie e a suo modo assapora ancora la sua carne. Il pene scivola a fatica dentro di lei, amore e morte.
Vuole farla ancora sua, strappa a morsi le labbra con voracità inaudita. In fondo amava quel volto e ORA lo divora come potrebbe fare uno sciacallo con uno sporco cadavere. Mastica lentamente l'occhio quasi andando in sincronia con il suo lento battito del cuore, come fosse un tamburo di un'agonia.
Profanando la Morte getta il suo seme dentro di lei. E lentamente si addormenta con l'ultimo pezzo di carne ancora fra i denti.
Il sole è quasi sorto quando si risveglia. Si veste in fretta dando uno sguardo fugace al cadavere della moglie poi esce di casa chiudendo dietro di sé la porta, lasciando che la follia della notte non abbia fine in quella casa. Fuori un tiepido sole sta per soccombere da oscure nubi.
Non piove per ora, ma pioverà nella sua mente, ancora, come la notte appena passata.
Rilegge a mente quella poesia, sconclusionata e folle, scritta a matita con gli occhi sbarrati la sera prima, al crepuscolo. Prima di fare a pezzi sua moglie.

"Come si innalza turgido il mio membro
sta eretto come un monumento funebre
di fronte a questo cadavere violaceo,
il mio oscuro desiderio.

Respirando esalazioni mortifere
bisbiglio lente note funebri
mentre il mio membro
umido di liquidi putrescenti
spinge avidamente nel fetido incavo femminile.

Affondo i denti in questi seni ormai neri
un tempo preziosa fonte di vita
ora cibo per vermi
assaporo la carne gelatinosa e acida.

Mi fermo un istante, ansimo di piacere
sto rigettando il mio seme
in questo corpo colmo di vermi
li sento brulicare accanto al mio membro,
come incestuosi scavano viscide gallerie.

Ecco il mio nero orgasmo
è un caldo vomito di blasfemia
che bagna carne putrescente
e ossa ingiallite.

Questa fredda notte
stupro la Morte
che per me è Vita,
desiderio."

Poi aveva chiuso il block notes degli appunti e si era alzato andando in cucina, aveva bevuto un sorso di tequila fissando quel coltello appoggiato sul bancone di legno.
Il saluto dei suoi amici lo distolgono dai quei ricordi ormai lontani. Ricordi di vita ormai spezzata e fatta sua. Finalmente ora sta bene, non si è mai sentito così felice da anni.
Per i due amici che da anni si recano al lavoro è un mattino come tanti altri, scherzano ricordando alcuni episodi del giorno prima.
Sarebbe anche una giornata come tante altre, come dire.. anonima, se solamente le sue unghie non fossero sporche di sangue.
Ma nessuno quel giorno noterà quelle piccole tracce di oscura follia.
Non lo noteranno neppure quando si fermeranno nella tarda mattinata per consumare il solito pasto. Insieme, come fanno da anni.

La sera, al loro ritorno a casa discutono sulla giornata appena trascorsa. La fatica si legge sul volto sporco di sudore.
Non fanno caso al loro amico, al suo sguardo che improvvisamente è cambiato, come un predatore che sta aspettando l'attimo giusto per saziare la sua fame.
Quando i tre giungono in quella boscaglia poco prima del villaggio la pioggia sta iniziando a cadere.
Nessuno dei due amici arriverà a casa quel giorno. Come un lampo e senza alcuna emozione in volto scaglia la lama del macete sul collo del primo amico, che cade a terra di colpo cercando inutilmente uno spiraglio di vita portando la mano alla ferita.
Gli occhi dell'altro amico sono sbarrati, è incredulo. Non farà in tempo a capire gli avvenimenti, non farà neppure in tempo a pronunciare alcuna parola.
Anche il suo corpo cade a terra privo di vita, come un vecchio albero mozzato alla base.
Non gli importa nulla degli occhi sbarrati e sporchi di sangue che sembrano fissarlo, cerca di pulire alla meglio il macete in una siepe e si avvia verso casa. Non spreca neppure il suo tempo a voltarsi indietro, verso la boscaglia ormai lasciata alle spalle. Prosegue il suo passo verso casa, non curante della pioggia che bagna il suo volto. A casa, verso la cena.
La Sua cena.
E poi quell'ombra, che nonostante sia quasi buio, appare fortissima e sembra vivere di vita propria. E lo sta seguendo da qualche giorno.

Già, le ombre. Che non sono altro che demoni, vivono nascosti dentro di noi, si nutrono. E attendono.
Attendono fino al giorno che potranno uscire fuori dal nostro corpo.
Finalmente liberi.

(Dave, 2005)

lunedì 11 giugno 2012

Deicidio, il poema dell'ascesa, canto III


La strada era lunga,
i cadaveri molti,
Deicidio si nutriva delle loro carni.

Poi un caverna,
l’antro della follia,
Deicidio vi entrò.

Follia era in ginocchio,
nuda bellezza distorta,
cicatrici segnavano una pelle che mai conobbe il liscio velluto
che almeno Deicidio aveva provato.

“Contiamo le nostre cicatrici donna?”
Non si aspettava risposte,
era tempo che non credeva più alle risposte.
Ma Follia aveva più cicatrici di lui,
Questo bastò ad infastidirlo.

Una risata agghiacciante,
e quel corpo decadente, bello e scheletrico,
finalmente dimostrò d’esser dotato di languide movenze.

In ginocchio follia fissava Deicidio,
occhi vitrei,
le sue costole sembravano un’armatura ;
nulla è ciò che sembra,
banale ma vero,
in parte
solo in parte.

“Ti uccido!”
Follia parlò,
un’altra donna,
tutte così belle.
Nella sua immobilità, il demone chiamato Follia
Innervosì Deicidio,
che le sfondò le costole con un calcio,
non  era un armatura,
nulla è ciò che sembra,
la banalità a volte è così potente.

Follia sorrise,
ma non era innamorata,
il sangue bagnava le sue stupende labbra disidratate e spaccate.
Poi s’alzò,
e mille violini suonarono.

Deicidio danzò con Follia,
ipnotizzato da quell’oscurità fu vulnerabile,
e Follia accoltellò la schiena del ribelle,
sorrideva Follia,
danzava bene.

Ma Deicidio sin da bambino aveva conosciuto le carezze della lama,
lui che si strappò il cuore per non amare.

Follia,
che ormai amava Deicidio,
 fermò i violini,
una nuova danza:
l’estasi dell’amplesso,
il corpo scheletrico e i seni cadenti di lei si mossero agili sul maestoso viandante.
Poi ella abbandonò il suo amante.
“Và, io non ti fermerò.”

Deicidio aveva nuove cicatrici,
questa volta il loro sapore era estremamente dolce.
Lode a Follia,
bellissima e pazza.
Una risata riecheggiò nella caverna,
una risata terminante in un pianto,
singhiozzi che accompagnarono Deicidio lungo il suo cammino.
Lode a Follia,
bellissima e pazza.
 
                           Davide Giannicolo

mercoledì 23 maggio 2012

Divina d'orrore



Pallori diafani sul suo corpo,
porcellana gotica.

Ali d’ebano nere,
mio malato angelo.
Corvine le chiome
fluttuano librate
nel turbine della sua bellezza.

Incede,
languida, nera duchessa decaduta.

Ai polsi profondi tagli,
la bellezza del suicidio
aleggia nei sublimi lineamenti suoi.

Nel nero velluto delle consunte vesti,
scorgo tracce di lutto che accarezzano
il lugubre pallore delle membra.

Poi le sottili dita adunche e fragili e
il cremisi, rubicondo, eterno bacio
dell’affilato stiletto sui suoi polsi.

Gemelle fiamme di tormento i suoi occhi,
incantano di malinconia straziante.

Vaga mesta per cimiteri d’autunno,
celebra la morte,
divina d’orrore ella muore e risorge ogni notte,
e nemmeno la fiamma del mio peccaminoso amore
riscalda le sue membra gelide.

Testo di: Davide Giannicolo

Desiderio




Un candito frutto,
cinto di carnale disio,
sulla terrazza arsa dal sole
indugia.

Allungo le mani,
deciso
nell’atto di coglierlo.

Soavemente le mie dita
all’apparenza brutali,
carezzano la superficie liscia e sinuosa
che sembra carne ardente.

Fremono le foglie
al mio tocco leggero
che man mano
di desiderio è impregnato.

Un mango succoso
o qualcosa di simile,
poiché in terra
mai ho scorto
qualcosa ad esso affine.

Si agita,
spasmodico,
il mio desiderio,
ed è più forte di qualsiasi moto interiore
l’impulso di posarvi le labbra.

La mia bramosia,
diviene ossessione,
assaggio avidamente
la vellutata scorza
che racchiude in sé
sapori riconducibili ad un metafisico incanto.

Ed eccomi ubriaco
del succo divino,
stordito,
ormai totalmente assoggettato
a quella malia delicata
dal vivido sapore.

Sento quasi dei gemiti soffusi
innalzarsi,
mentre il sole ardente
infiamma questo singolare amplesso,
poiché io sono carne
che s’unisce sempre più con vigore
a qualcosa che è composta
dell’essenza di un fiore.

Maggiormente si dischiude,
aprendosi completamente alle mie labbra
ormai avide,
polpa sublime,
rossa,
intrisa  d’essenza divina.

Chiari sono i gemiti adesso,
di entrambi,
il frutto e la carne,
si mescolano divenendo un'unica cosa,

era forse intriso di un narcotico elemento
quel succo vermiglio
che ora cola dalla mia bocca mai sazia?

Poiché mi sembra d’entrare totalmente
in quella densa,
inumana porta,
che la buccia mi ha aperto
concedendomi l’estasi.

Fremo,
e pare che anche il frutto lo faccia,
s’innalza l’incanto,
unendoci in questo banchetto surreale.

Cos’ho realmente fra le mani
Se non desiderio?



Testo: Davide Giannicolo
Immagini: Caravaggio e Fabrizio Beretta

giovedì 8 marzo 2012

L'aurora incantava il mio volto ferito

L'aurora incantava il mio volto ferito,
e con le sue eleganti dita diafane
lo rendeva bello,
bello perfino sfregiato com'era.

La bellezza invadeva i nostri cuori,
fiori di carne,
leggiadri pocomai.

E un abbraccio d'amico
ottenebrava
a volte il dolore.

Ma noi stupidi
volevamo le aquile marchiarci d'onniscenza.

Finchè un giorno,
ferito al volto a causa d'un duello
fui costretto al riposo,
a spartir la solitudine
col mio cane mastino.

Ma la bellezza m'inseguiva,
cangevole d'aspetto,
sempre superba,
dolce solo per uccidere.

Poi ho scordato le alchimie del tempo,
ho lottato con fulmini,
cavalcato diamanti,
e la bellezza non si sà
se mi inseguisse o sfuggisse.

Tarantole insidiose d'alterigia,
mi dissero attraverso le stelle
d'abbandonar me stesso.
così che le Lamie,
credendomi morto
scempino il mio cadavere.

                                         Davide Giannicolo

mercoledì 22 febbraio 2012

Gocce di fiaba nottetempo

Gocce di fiaba nottetempo



Canto I


La venustà delle fate incantava gli astri
mentre l’orco lottava contro gli spettri di se stesso nella sua caverna.

“Perché non giunge l’orco a mieterci con il suo orrore?”
Dicevano le fate.

Infatti era inverno e la neve appesantiva i rami del bosco.

“Perché non giunge il nero cavaliere bardato dal castello? A fronteggiarlo come sempre?”



Canto II


L’orco era solito mangiare carne umana,
tatuarsi con i rami usando materia grigia come inchiostro;
tesseva le lodi della notte ringhiando e uscendo allo scoperto.

Per le fate quell’orco
era bello come l’ascia che fende la cattedrale gotica vagina mondo.

Il conte era invece solo e feroce,
malinconico come la lama che ama il fodero;
il suo volto era truccato d’un mesto, pallido rancore.
Mentre gli occhi,
gli occhi erano gemme d’amore infranto.


Aveva ucciso la sua amata!
Dopo lunga prigionia,
dalla fine del suo amore
si rasò il capo,
gettando in terra le sue chiome corvine.

Quando la bella vide il suo conte rasato,
scorse anche l’ombra della lama penetrare nel suo seno
e da allora il conte conserva il segreto della pena infinita.
Come un rosario di cilicio eternamente posato sulla carne.

Un corvo portava i messaggi di sfida tra il mesto conte e l’orco truce;
entrambi erano un tao racchiuso nella metà della tenebra,
un tao d’oscurità opposte i cui principi basilari erano gli stessi,
ciascuna parte possedeva una goccia d’essenza della controparte.

Il conte e l’orco erano intimamente simili,
poiché erano l’antitesi della tenebra.



Canto III



Quando il corvo gracchiava alla finestra del conte,
egli diveniva inquieto.
Era come un dolce incubo,
un sogno d’avorio nero;
allora il suo avvoltoio addomesticato
si lanciava contro l’altro rapace,
ma puntualmente il corvo lo uccideva
prima di recitar la sfida.

In realtà non era l’orco a mandare il corvo,
bensì l’orso,
l’orso nero che lo spronava ad esser se stesso.

L’orco non sapeva,
vagava inquieto mentre la nera carrozza
discendeva il declivio boscoso
falciando la notte
con le sue funeree lanterne.

Allora l’orco sapeva che il conte era in arrivo,
si manteneva dunque pronto,
come sempre,
a incrinargli il corpo
contro un pino innevato.


Canto IV



Le ombre
danzavano informi nel bosco,
la luna
risvegliava il tumultuoso
moto ondoso
nelle torbide acque dell’anima sopita.

All’interno della grande sala di pietra,
illuminata da fioche fiaccole,
il conte aveva scelto l’alabarda.

Quale messaggio gli aveva portato il corvo?

“Esci nella notte, cheta la tua bestia uccidendo una bestia!”

E le fate fremevano tutte intorno al solingo castello,
giovano,
poiché sapevano, o speravano, che il cupo conte,
prima o poi,
avrebbe ucciso l’orco.


“Fate puttane!” Pensò il conte
“Ignobili fate che levigate le ossa del cadavere di mia moglie!”
“Avresti preferito quel corpo scempiato dalle zanne dei lupi?”
“I lupi non mangiano i cadaveri, i lupi bramano il sangue caldo!”
“Allora avresti dovuto dargliela viva!”


Canto V



Il conte sbucava dai pini
come fosse la gelida ombra del diavolo,
oppure appariva l’orco
pesante come una scure.
In ambo i casi le ferite si rivelavano serie:
colpi d’ascia ai fianchi,
brandelli di carne sanguinante strappata da artigli.
Ogni volta vi era una mutilazione
che irrorava di purpureo il niveo manto di neve
nel lirico concerto delle grida e degli ululati dei lupi.

Gli scintillanti occhi dell’orso osservavano il duello;
“Qualcuno dei due stanotte morrà, è certo! Non posso lasciare lo stesso posto a due come loro!”
Il corvo, a volte annuiva gracchiante,
altre volte si rivelava furente,
perché non ne poteva più di tutti quegli avvoltoi ogni volta!


Canto VI





Ma il duello non finiva mai,
ogni notte il conte aveva la faccia spaccata da profondi tagli,
orribile ormai
era il suo volto.
Il corpo un’unica,
immensa cicatrice.

Non aveva più servette,
le aveva violate tutte,
fatte poi a pezzi con estrema ferocia.
Ora rubava le fate;
anche per questo era divenuto famoso,
vagava nottetempo con un cappuccio e una lanterna,
nero spettro che rapiva le fate,
al fine di stuprarle e mangiarle.

L’orco ammirava questo suo fare,
così cominciò la loro amicizia.



Canto VII



Il conte si accorse di amare Isabel,
iniziò a uscire di giorno
e a pregare dinnanzi alla croce.

Ma Isabel ignorava il conte,
al di là dei cespugli nascosto,
col volto coperto
da una maschera di nero velluto.

L’orco lo lasciava fare,
si commuoveva dinnanzi all’umana innocenza
che si desta come un giglio candido
anche sull’ossidiana di un’anima in frantumi.

Mentre l’orso
placido attendeva
il fragore delle foglie
scandire le magie fragranti del tempo.

Dunque il corvo non portava più messaggi di sfida,
bensì spettri funesti di lutto e tormento.

Una notte,
in cui il conte giaceva ubriaco di vino,
nella grande sala deserta,
il corvo irruppe volando in cerchi
sulla testa dell’ebbro giacente,
sussurrando maliardo
la sua litania:
“Ricordi le sere in cui guardavi negli occhi Lisette?
Ricordi l’immensità che quel verde riverbero evocava al tuo petto? ”

Il conte,
udendo pronunciare quel sacro nome,
che era Lisette,
aprì le palpebre ottenebrate dall’ubriachezza,
la bocca semiaperta,
gli occhi rovesciati
cercavano il fautore
di quelle dolorose parole.

Lisette era la santa sua sposa morta.

“Non pronunciare quel nome!”


Ma il corvo continuò posandosi sul tavolo:

“Ricordi il calore di quello sguardo, scaldarti le membra,
infinitamente più delle braci del camino?
Ricordi le soffici carni
che coprivi giocherellando con le tue lunghe chiome ormai estinte?
Ricordi il soffio sublime di quell’amore che era così immenso da farti impazzire?
Così forte da farti credere immeritevole di esso!
Gelosamente folle dinnanzi a colei che ti rendeva inerme!
E come ricompensi la candida sacralità di quella purezza?
Come rispetti il tuo mesto lutto?
Invaghendoti di una contadinotta quattordicenne?
Era meglio quando rubavi le fate!”

“Basta!”

Il conte lanciò il suo calice,
ancora pieno per metà,
contro il volatile notturno.
S’alzò furente e distrusse ogni cosa;
il suo urlo era artiglio di fiera
che dilaniava il silenzio spettrale.

Tutto in un istante di cieco ardore,
venne di colpo rovesciato in terra.

“Ucciditi conte guerriero, ucciditi sfidando l’orco!”


Canto VIII



L’orco era servo dell’oblio,
ma infuocate sensazioni
serpeggiavano dirompenti
sotto il lago ghiacciato della sua anima.

Sensazioni di orco,
violente,
anche se sottili,
che fanno ressa nel cuore,
erompono,
come lava incandescente sul vulcano innevato.

L’orco non aveva il potere di analizzarle,
né di chetarle,
come spiegare a voi
come ragiona un orco?

L’orco è un essere solo,
rabbioso,
eppure poetico come l’ombra dell’orso.

Ma di colpo,
non riuscì più a convivere
con la sua solitudine;
L’orco voleva un fauno,
con cui condivider la propria natura.

L’unico suo amico
era forse il guerriero del castello,
nonostante il loro
fosse un legame di profonda violenza.

Un giorno una bianca farfalla
si posò su di una ferita aperta
che l’orco aveva in mezzo alla fronte
e disse:

“Al di là della foresta vi è il mare,
bagna in esso le tue membra
e assaggerai l’infinito.
Non vi è fauno che non brutalizzi,
ma sempre egli dorme solitario,
finirai per combattere ogni volta,
ogni volta ucciderai Orco;
tuffati nel mare dunque,
spartisci con esso la tua essenza!”

Fu da quel giorno che l’orco cominciò a pensare al suicidio.



Canto IX




L’orco uscì dalla caverna
con il sangue alla testa;
fiumi di soporifera ferocia
ad annebbiare i suoi occhi:
aveva pensato tutta la notte alla morte.

La luna lo aveva incatenato a sé
guidandolo fino al mare;
quell’immensità
onusta di prorompente bellezza
si infranse contro il roccioso cuore dell’orco,
frantumandolo irreparabilmente.

Dall’alto di un dirupo egli ammirava il mare,
immane,
luminescente,
ammaliante di pienezza.

Aveva raggiunto le rocce a picco sul mare,
attraverso una stretta cupola di rami di pino,
che magicamente sembrava incorniciarne l’incanto.

Bassi i pipistrelli
sussurravano un mesto poema,
volteggiando sulle loro ali,
composte con la stessa essenza della notte.

Intorno la pineta silenziava,
elegiaco scrigno di bellezza e armonia,
luogo incantato
che aveva condotto l’orco verso la costa.

Il pensiero della morte non svaniva,
anch’essa era apparsa,
come un cavallo nitrente,
diafano,
che sbuca dai rami
in una maestosa,
furente corsa.

L’orco si trafisse il petto
mediante un ramo spezzato,
il sangue scintillò nella notte,
battezzando quella visione sublime:
L’orco trafitto,
la luna ridente che gli carezza le gote sfregiate
e la morte
che ulula attraverso i rami di pino,
fino a cavalcare le bianche increspature
che spumeggiano sul mare d’ebano.



Canto X




Ma all’alba l’orco si risvegliò,
non era morto.
Robusta era quella tempra
che bisognava scempiare con un’ascia;
non un delicato ermafrodito,
no.

Così l’orco s’alzò,
con ancora il ramo confitto nel petto;
non guardò neppure il mare,
altrimenti ci si sarebbe tuffato
e ormai sapeva
di non poter perire.

Ripercorse i suoi passi
ed entrò nella pineta
cullata dal rombo delle onde.

E scorse un fauno.

Un grosso,
irsuto
fauno dormiente.

Accanto a sé
giacevano i corpi scempiati
di tre fanciulle.

“Svegliati Fauno, io sono come te!”

L’orco estirpò il ramo dal petto,
la morte era svanita,
insieme alla notte.

Il fauno si destò pigramente,
poi rivolse all’orco il viso barbuto
e
fu scosso da un indicibile paura!

“Hai paura di me fauno? Eppure sei forte,
lo vedo dalle tue braccia robuste!”

Il fauno s’alzò e tentò di scappare,
L’orco gli frantumò la spina dorsale.


Canto XI



Nel vedere il cadavere del fauno,
contorto,
sanguinante tra gli aghi di pino,
l’orco sorrise.
Si sollazzò con i resti delle tre fanciulle,
e si addormentò sulle loro ossa bianche.

“Io sono l’orco, non posso avere amici,
solo il cavaliere del castello può uccidermi
                                                    e liberarmi”

Durante il sonno dell’orco,
giunse silenziosamente l’orso,
si chinò all’orecchio del mostro
e gli sussurrò lene un sogno,
un sogno di cigno,
soave,
fluttuante:
“Muori Orco…e non pensare!”


L’orco si ridestò
e si trafisse lo stomaco con un ramo lunghissimo,
ma il ramo si spezzò nelle sue interiora,
senza che lui morisse.


Canto XII



Dodici giorni erano trascorsi
e l’orco non faceva ritorno.
Il conte era schiavo dell’ozio,
voleva divenire una stella,
dimorare accanto a Lisette.

Il vino lacerava la sua mente,
lacerandola in frammenti di spettro purpureo.

“Solo l’orco dei boschi può togliermi la vita!”

“E’ugualmente suicidio!”
Disse la Croce,
mesta, imperativa.

“Taci!”
Intervenne il corvo.

Gli avvoltoi del conte erano tutti morti,
addestrati dal loro padrone,
suoi unici figli,
uccisi dai sanguinari messaggi del corvo.

“Solo la lama dell’orco ti amerà di amore sincero!”


Canto XIII


Nella ignobile ubriachezza
Il conte sognò sua moglie,
così armò la propria funebre carrozza
ornata da teschi di ferro
e scese con essa la rupe
che conduceva al bosco dell’orco.

Ma prima aveva una cosa da fare,
falciò il sentiero saettando tra gli alberi,
una furia disperata lo guidava verso Isabel:
l’innocente fanciulla di ogni fiaba;
doveva ucciderla!

Fermò la carrozza dinnanzi all’uscio,
silenzioso entrò nella sua stanza
e con una sottile, seppur lunga lama,
tagliò con delicata eleganza
il collo di lei.

La testa fu recisa,
portata con sé dal fautore del gesto.

Le teste di donna sono ottime esche per gli orchi.


Canto XIV



Non vi fu bisogno di attrarre nulla,
l’orco maestoso,
attendeva da tempo,
il conte fra gli alberi.

Ritto su sé,
si dava grosse pacche sul petto,
innalzando un eco tonante nella notte,
che avrebbe scoraggiato
qualsiasi nobile cavaliere
di qualsiasi lieta fiaba.

Era la danza d’attesa dell’orco,
immobile schiocco di pura forza.

Il conte lo vide,
frustò i cavalli
e accelerò l’impeto della sua folle corsa,
tenendo alta la testa di Isabel,
come macabro trofeo
stringendone le insanguinate chiome.

L’orco non si spostò
di un solo millimetro
e fu investito in pieno.

Travolto l’orco,
la carrozza si infranse fra gli alberi,
il conte precipitò così
in una caduta suicida.
Aveva rotto qualche osso.

Presto però,
l’orco insanguinato
sorse dalle macerie
e la notte
divenne scarlatta.

La neve era rossa come il manto dell’Empio,
Il conte affondò la sua larga mannaia nel volto dell’orco,
l’orco strinse il capo rasato del conte e lo piantò nella terra.
Con furia funesta entrambi soccombevano all’altro.
Ma l’orco era innaturale,
con forza malevola,
strangolava il nero cavaliere,
costui però
era padrone di mille, subdoli trucchi.

Una lama nascosta
amputò una delle mani dell’orco,
la presa però
non perdeva la sua forza,
anche se il monco braccio
vomitava sangue scintillante
e il guerriero colpiva con la lama
i più arcaici punti di morte.

Il corpo dell’orco era d’acciaio,
ma l’anima del guerriero
è l’essenza dell’acciaio stesso;
ogni lama è profondamente legata alla carne,
così come la carne è in simbiosi col sangue.
L’acciaio è il sesto, serafico senso del guerriero.

Così il conte divenne lama
e penetrò le sue mani
nel cranio aperto dell’orco,
strinse tra le aguzze dita il cervello;
dita che avevano strangolato amici e serve nottetempo,
al lume cremisi dell’assassinio.

Il cervello dell’orco fu spappolato,
ma questi,
pur stramazzando in terra,
non liberò l’artiglio dalla gola del conte,
entrambi dunque morivano,
sorridenti,
nel loro orgoglio guerriero.

L’orso mirò la poetica scena,
intanto albeggiava.

L’orco era morto suicida,
e il guerriero piangeva solenne la morte di lui
con lacrime di sangue
seguendolo sulla oscura via del suicidio reciproco.

Così l’orso nero,
portò entrambi via con sé.

                                              Davide Giannicolo