mercoledì 22 febbraio 2012

Gocce di fiaba nottetempo

Gocce di fiaba nottetempo



Canto I


La venustà delle fate incantava gli astri
mentre l’orco lottava contro gli spettri di se stesso nella sua caverna.

“Perché non giunge l’orco a mieterci con il suo orrore?”
Dicevano le fate.

Infatti era inverno e la neve appesantiva i rami del bosco.

“Perché non giunge il nero cavaliere bardato dal castello? A fronteggiarlo come sempre?”



Canto II


L’orco era solito mangiare carne umana,
tatuarsi con i rami usando materia grigia come inchiostro;
tesseva le lodi della notte ringhiando e uscendo allo scoperto.

Per le fate quell’orco
era bello come l’ascia che fende la cattedrale gotica vagina mondo.

Il conte era invece solo e feroce,
malinconico come la lama che ama il fodero;
il suo volto era truccato d’un mesto, pallido rancore.
Mentre gli occhi,
gli occhi erano gemme d’amore infranto.


Aveva ucciso la sua amata!
Dopo lunga prigionia,
dalla fine del suo amore
si rasò il capo,
gettando in terra le sue chiome corvine.

Quando la bella vide il suo conte rasato,
scorse anche l’ombra della lama penetrare nel suo seno
e da allora il conte conserva il segreto della pena infinita.
Come un rosario di cilicio eternamente posato sulla carne.

Un corvo portava i messaggi di sfida tra il mesto conte e l’orco truce;
entrambi erano un tao racchiuso nella metà della tenebra,
un tao d’oscurità opposte i cui principi basilari erano gli stessi,
ciascuna parte possedeva una goccia d’essenza della controparte.

Il conte e l’orco erano intimamente simili,
poiché erano l’antitesi della tenebra.



Canto III



Quando il corvo gracchiava alla finestra del conte,
egli diveniva inquieto.
Era come un dolce incubo,
un sogno d’avorio nero;
allora il suo avvoltoio addomesticato
si lanciava contro l’altro rapace,
ma puntualmente il corvo lo uccideva
prima di recitar la sfida.

In realtà non era l’orco a mandare il corvo,
bensì l’orso,
l’orso nero che lo spronava ad esser se stesso.

L’orco non sapeva,
vagava inquieto mentre la nera carrozza
discendeva il declivio boscoso
falciando la notte
con le sue funeree lanterne.

Allora l’orco sapeva che il conte era in arrivo,
si manteneva dunque pronto,
come sempre,
a incrinargli il corpo
contro un pino innevato.


Canto IV



Le ombre
danzavano informi nel bosco,
la luna
risvegliava il tumultuoso
moto ondoso
nelle torbide acque dell’anima sopita.

All’interno della grande sala di pietra,
illuminata da fioche fiaccole,
il conte aveva scelto l’alabarda.

Quale messaggio gli aveva portato il corvo?

“Esci nella notte, cheta la tua bestia uccidendo una bestia!”

E le fate fremevano tutte intorno al solingo castello,
giovano,
poiché sapevano, o speravano, che il cupo conte,
prima o poi,
avrebbe ucciso l’orco.


“Fate puttane!” Pensò il conte
“Ignobili fate che levigate le ossa del cadavere di mia moglie!”
“Avresti preferito quel corpo scempiato dalle zanne dei lupi?”
“I lupi non mangiano i cadaveri, i lupi bramano il sangue caldo!”
“Allora avresti dovuto dargliela viva!”


Canto V



Il conte sbucava dai pini
come fosse la gelida ombra del diavolo,
oppure appariva l’orco
pesante come una scure.
In ambo i casi le ferite si rivelavano serie:
colpi d’ascia ai fianchi,
brandelli di carne sanguinante strappata da artigli.
Ogni volta vi era una mutilazione
che irrorava di purpureo il niveo manto di neve
nel lirico concerto delle grida e degli ululati dei lupi.

Gli scintillanti occhi dell’orso osservavano il duello;
“Qualcuno dei due stanotte morrà, è certo! Non posso lasciare lo stesso posto a due come loro!”
Il corvo, a volte annuiva gracchiante,
altre volte si rivelava furente,
perché non ne poteva più di tutti quegli avvoltoi ogni volta!


Canto VI





Ma il duello non finiva mai,
ogni notte il conte aveva la faccia spaccata da profondi tagli,
orribile ormai
era il suo volto.
Il corpo un’unica,
immensa cicatrice.

Non aveva più servette,
le aveva violate tutte,
fatte poi a pezzi con estrema ferocia.
Ora rubava le fate;
anche per questo era divenuto famoso,
vagava nottetempo con un cappuccio e una lanterna,
nero spettro che rapiva le fate,
al fine di stuprarle e mangiarle.

L’orco ammirava questo suo fare,
così cominciò la loro amicizia.



Canto VII



Il conte si accorse di amare Isabel,
iniziò a uscire di giorno
e a pregare dinnanzi alla croce.

Ma Isabel ignorava il conte,
al di là dei cespugli nascosto,
col volto coperto
da una maschera di nero velluto.

L’orco lo lasciava fare,
si commuoveva dinnanzi all’umana innocenza
che si desta come un giglio candido
anche sull’ossidiana di un’anima in frantumi.

Mentre l’orso
placido attendeva
il fragore delle foglie
scandire le magie fragranti del tempo.

Dunque il corvo non portava più messaggi di sfida,
bensì spettri funesti di lutto e tormento.

Una notte,
in cui il conte giaceva ubriaco di vino,
nella grande sala deserta,
il corvo irruppe volando in cerchi
sulla testa dell’ebbro giacente,
sussurrando maliardo
la sua litania:
“Ricordi le sere in cui guardavi negli occhi Lisette?
Ricordi l’immensità che quel verde riverbero evocava al tuo petto? ”

Il conte,
udendo pronunciare quel sacro nome,
che era Lisette,
aprì le palpebre ottenebrate dall’ubriachezza,
la bocca semiaperta,
gli occhi rovesciati
cercavano il fautore
di quelle dolorose parole.

Lisette era la santa sua sposa morta.

“Non pronunciare quel nome!”


Ma il corvo continuò posandosi sul tavolo:

“Ricordi il calore di quello sguardo, scaldarti le membra,
infinitamente più delle braci del camino?
Ricordi le soffici carni
che coprivi giocherellando con le tue lunghe chiome ormai estinte?
Ricordi il soffio sublime di quell’amore che era così immenso da farti impazzire?
Così forte da farti credere immeritevole di esso!
Gelosamente folle dinnanzi a colei che ti rendeva inerme!
E come ricompensi la candida sacralità di quella purezza?
Come rispetti il tuo mesto lutto?
Invaghendoti di una contadinotta quattordicenne?
Era meglio quando rubavi le fate!”

“Basta!”

Il conte lanciò il suo calice,
ancora pieno per metà,
contro il volatile notturno.
S’alzò furente e distrusse ogni cosa;
il suo urlo era artiglio di fiera
che dilaniava il silenzio spettrale.

Tutto in un istante di cieco ardore,
venne di colpo rovesciato in terra.

“Ucciditi conte guerriero, ucciditi sfidando l’orco!”


Canto VIII



L’orco era servo dell’oblio,
ma infuocate sensazioni
serpeggiavano dirompenti
sotto il lago ghiacciato della sua anima.

Sensazioni di orco,
violente,
anche se sottili,
che fanno ressa nel cuore,
erompono,
come lava incandescente sul vulcano innevato.

L’orco non aveva il potere di analizzarle,
né di chetarle,
come spiegare a voi
come ragiona un orco?

L’orco è un essere solo,
rabbioso,
eppure poetico come l’ombra dell’orso.

Ma di colpo,
non riuscì più a convivere
con la sua solitudine;
L’orco voleva un fauno,
con cui condivider la propria natura.

L’unico suo amico
era forse il guerriero del castello,
nonostante il loro
fosse un legame di profonda violenza.

Un giorno una bianca farfalla
si posò su di una ferita aperta
che l’orco aveva in mezzo alla fronte
e disse:

“Al di là della foresta vi è il mare,
bagna in esso le tue membra
e assaggerai l’infinito.
Non vi è fauno che non brutalizzi,
ma sempre egli dorme solitario,
finirai per combattere ogni volta,
ogni volta ucciderai Orco;
tuffati nel mare dunque,
spartisci con esso la tua essenza!”

Fu da quel giorno che l’orco cominciò a pensare al suicidio.



Canto IX




L’orco uscì dalla caverna
con il sangue alla testa;
fiumi di soporifera ferocia
ad annebbiare i suoi occhi:
aveva pensato tutta la notte alla morte.

La luna lo aveva incatenato a sé
guidandolo fino al mare;
quell’immensità
onusta di prorompente bellezza
si infranse contro il roccioso cuore dell’orco,
frantumandolo irreparabilmente.

Dall’alto di un dirupo egli ammirava il mare,
immane,
luminescente,
ammaliante di pienezza.

Aveva raggiunto le rocce a picco sul mare,
attraverso una stretta cupola di rami di pino,
che magicamente sembrava incorniciarne l’incanto.

Bassi i pipistrelli
sussurravano un mesto poema,
volteggiando sulle loro ali,
composte con la stessa essenza della notte.

Intorno la pineta silenziava,
elegiaco scrigno di bellezza e armonia,
luogo incantato
che aveva condotto l’orco verso la costa.

Il pensiero della morte non svaniva,
anch’essa era apparsa,
come un cavallo nitrente,
diafano,
che sbuca dai rami
in una maestosa,
furente corsa.

L’orco si trafisse il petto
mediante un ramo spezzato,
il sangue scintillò nella notte,
battezzando quella visione sublime:
L’orco trafitto,
la luna ridente che gli carezza le gote sfregiate
e la morte
che ulula attraverso i rami di pino,
fino a cavalcare le bianche increspature
che spumeggiano sul mare d’ebano.



Canto X




Ma all’alba l’orco si risvegliò,
non era morto.
Robusta era quella tempra
che bisognava scempiare con un’ascia;
non un delicato ermafrodito,
no.

Così l’orco s’alzò,
con ancora il ramo confitto nel petto;
non guardò neppure il mare,
altrimenti ci si sarebbe tuffato
e ormai sapeva
di non poter perire.

Ripercorse i suoi passi
ed entrò nella pineta
cullata dal rombo delle onde.

E scorse un fauno.

Un grosso,
irsuto
fauno dormiente.

Accanto a sé
giacevano i corpi scempiati
di tre fanciulle.

“Svegliati Fauno, io sono come te!”

L’orco estirpò il ramo dal petto,
la morte era svanita,
insieme alla notte.

Il fauno si destò pigramente,
poi rivolse all’orco il viso barbuto
e
fu scosso da un indicibile paura!

“Hai paura di me fauno? Eppure sei forte,
lo vedo dalle tue braccia robuste!”

Il fauno s’alzò e tentò di scappare,
L’orco gli frantumò la spina dorsale.


Canto XI



Nel vedere il cadavere del fauno,
contorto,
sanguinante tra gli aghi di pino,
l’orco sorrise.
Si sollazzò con i resti delle tre fanciulle,
e si addormentò sulle loro ossa bianche.

“Io sono l’orco, non posso avere amici,
solo il cavaliere del castello può uccidermi
                                                    e liberarmi”

Durante il sonno dell’orco,
giunse silenziosamente l’orso,
si chinò all’orecchio del mostro
e gli sussurrò lene un sogno,
un sogno di cigno,
soave,
fluttuante:
“Muori Orco…e non pensare!”


L’orco si ridestò
e si trafisse lo stomaco con un ramo lunghissimo,
ma il ramo si spezzò nelle sue interiora,
senza che lui morisse.


Canto XII



Dodici giorni erano trascorsi
e l’orco non faceva ritorno.
Il conte era schiavo dell’ozio,
voleva divenire una stella,
dimorare accanto a Lisette.

Il vino lacerava la sua mente,
lacerandola in frammenti di spettro purpureo.

“Solo l’orco dei boschi può togliermi la vita!”

“E’ugualmente suicidio!”
Disse la Croce,
mesta, imperativa.

“Taci!”
Intervenne il corvo.

Gli avvoltoi del conte erano tutti morti,
addestrati dal loro padrone,
suoi unici figli,
uccisi dai sanguinari messaggi del corvo.

“Solo la lama dell’orco ti amerà di amore sincero!”


Canto XIII


Nella ignobile ubriachezza
Il conte sognò sua moglie,
così armò la propria funebre carrozza
ornata da teschi di ferro
e scese con essa la rupe
che conduceva al bosco dell’orco.

Ma prima aveva una cosa da fare,
falciò il sentiero saettando tra gli alberi,
una furia disperata lo guidava verso Isabel:
l’innocente fanciulla di ogni fiaba;
doveva ucciderla!

Fermò la carrozza dinnanzi all’uscio,
silenzioso entrò nella sua stanza
e con una sottile, seppur lunga lama,
tagliò con delicata eleganza
il collo di lei.

La testa fu recisa,
portata con sé dal fautore del gesto.

Le teste di donna sono ottime esche per gli orchi.


Canto XIV



Non vi fu bisogno di attrarre nulla,
l’orco maestoso,
attendeva da tempo,
il conte fra gli alberi.

Ritto su sé,
si dava grosse pacche sul petto,
innalzando un eco tonante nella notte,
che avrebbe scoraggiato
qualsiasi nobile cavaliere
di qualsiasi lieta fiaba.

Era la danza d’attesa dell’orco,
immobile schiocco di pura forza.

Il conte lo vide,
frustò i cavalli
e accelerò l’impeto della sua folle corsa,
tenendo alta la testa di Isabel,
come macabro trofeo
stringendone le insanguinate chiome.

L’orco non si spostò
di un solo millimetro
e fu investito in pieno.

Travolto l’orco,
la carrozza si infranse fra gli alberi,
il conte precipitò così
in una caduta suicida.
Aveva rotto qualche osso.

Presto però,
l’orco insanguinato
sorse dalle macerie
e la notte
divenne scarlatta.

La neve era rossa come il manto dell’Empio,
Il conte affondò la sua larga mannaia nel volto dell’orco,
l’orco strinse il capo rasato del conte e lo piantò nella terra.
Con furia funesta entrambi soccombevano all’altro.
Ma l’orco era innaturale,
con forza malevola,
strangolava il nero cavaliere,
costui però
era padrone di mille, subdoli trucchi.

Una lama nascosta
amputò una delle mani dell’orco,
la presa però
non perdeva la sua forza,
anche se il monco braccio
vomitava sangue scintillante
e il guerriero colpiva con la lama
i più arcaici punti di morte.

Il corpo dell’orco era d’acciaio,
ma l’anima del guerriero
è l’essenza dell’acciaio stesso;
ogni lama è profondamente legata alla carne,
così come la carne è in simbiosi col sangue.
L’acciaio è il sesto, serafico senso del guerriero.

Così il conte divenne lama
e penetrò le sue mani
nel cranio aperto dell’orco,
strinse tra le aguzze dita il cervello;
dita che avevano strangolato amici e serve nottetempo,
al lume cremisi dell’assassinio.

Il cervello dell’orco fu spappolato,
ma questi,
pur stramazzando in terra,
non liberò l’artiglio dalla gola del conte,
entrambi dunque morivano,
sorridenti,
nel loro orgoglio guerriero.

L’orso mirò la poetica scena,
intanto albeggiava.

L’orco era morto suicida,
e il guerriero piangeva solenne la morte di lui
con lacrime di sangue
seguendolo sulla oscura via del suicidio reciproco.

Così l’orso nero,
portò entrambi via con sé.

                                              Davide Giannicolo

















mercoledì 15 febbraio 2012

Paesaggio Marino

Rombano
le onde turchesi,
spumeggiano
le bianche increspature
dipingendo il mio corpo nudo
di incantevoli colori.
Ci feconda poi,
entrambi,
me e il mare,
il tiepido sole,
il cui occhio rovente è alleggerito
dal sinuoso alitar di sirena nascosta
liberato dalla brezza marina al di là degli scogli.
In me,
nel mare,
adesso e ovunque,
non può che germogliar bellezza.

Davide Giannicolo