Puro amore per il dolore
E’nitore che abbaglia,
come la brezza che s’alza,
brandisce il tuo sguardo
come fosse alabarda,
poiché le membra tue
son delicate ed esili,
flessuose come il laccio di velluto
d’una vedova d’amore.
Di Arturo Lacroce dicevano cose sinistre, pare che un tempo avesse avuto una passione un po’ grottesca per i camposanti, cercava una donna bianca, si diceva.
“Cerca una donna fra le tombe? Che follia è mai questa?”
Questo si dicevano i dotti, mentre i superstiziosi, lì, tra le campagne, inneggiavano al sacrilegio necrofilo dinnanzi ai vini locali, sussurrandosi intorno al fuoco che quell’uomo era folle e di notte giaceva in blasfemi amplessi con la morte.
Ma del taciturno Lacroce si sapeva ben poco, faceva il porcaro ma aveva una certa cultura, lo si vedeva in alcune notti alle luci di solitarie lanterne, appariva in abiti eleganti, sontuosi, ben diversi dagli stracci e dal cuoio che di giorno indossava.
Non aveva moglie e i suoi unici amici erano loschi individui dal fosco passato.
L’uomo con cui Lacroce era stato visto più volte si chiamava Umberto Tibia, detto Femore, custode del cimitero del piccolo paese nel Cilento; uomo di una solida robustezza, peloso e barbuto, che all’epoca in cui accaddero i fatti, ovvero nel 1917, aveva quarantatre anni.
Si diceva che i due avessero stretto rapporti in epoca infantile, quando già il pallido ed emaciato Lacroce era attratto da macabre atmosfere, atmosfere che l’isolato paese arroccato sui monti e ammantato dai boschi era in grado di offrire a profusione.
L’altro elemento della compagnia era il becchino del paese: Pasquale Tarcasto, ex galeotto coinvolto in passato in oscuri fatti di necrofilia e sfuggito a linciaggi nei paesi vicini a causa di presunti rapimenti di bambini.
La sera del 18 novembre del 1917 accadde un avvenimento tristissimo, Emanuela Costabile, figlia di un locandiere e promessa in sposa a Giovanni Forgotto, un possente ferraio, spirò misteriosamente dopo una notte di insolito languore.
Quella sera stessa la ragazza aveva servito ai tavoli con la solita espressione di toccante insoddisfazione, fu vista essere insidiata dai tre, in particolare da Femore, che con rude trasporto aveva più volte tentato di attirare il di lei purissimo volto fatato d’incanto alla propria unta faccia barbuta segnata dai tagli.
“Bacia un vero uomo puttanella, non sempre se ne ha l’occasione!”
Questo diceva tracannando il suo vino mentre Pasquale il becchino sghignazzava come un corvo alla scena.
L’unico imperturbabile era Lacroce, che non faceva caso alle effusioni brigantesche dei compagni.
“Il mio fidanzato ha il sangue caldo signore…se sapesse…”
Femore estrasse un rude coltellaccio arrugginito, intento a punire la fanciulla lì davanti a tutti, un affronto del genere non scivolava facilmente sulla suscettibile sensibilità da tagliagole di Umberto Tibia.
La ragazza gridò e abbrancò all’indietro, il colosso barbuto invece avanzava intento a sfregiarla, fu allora che un colpo di doppietta fulminò le cervella del guardiano del cimitero, che stramazzò sanguinante sul pavimento.
A sparare il colpo era stato Forgotto, accorso sul luogo avvisato da amici, una voce che aveva velocemente percorso il silenzio nebbioso dei campi e delle poche case.
In seguito alla morte di quel losco uomo incrostato di sangue, subito dopo i sanguinosi eventi avvenuti all’osteria, quella stessa notte, Emanuela spirò per ignote cause, forse distrutta dall’incarcerazione del suo promesso, condannato per omicidio a svariati anni di carcere.
Alla tragedia seguì la calma, Pasquale il becchino aveva seppellito Tibia e si diceva che il furfante avesse addirittura approfittato di quei resti.
Fu nella notte di Natale di quell’anno che ogni cittadino fu mosso dall’inquietudine; Arturo Lacroce era stato nuovamente visto nel cimitero, a tarda notte, e questa volta, accompagnato da una donna, lo spettro seducente che forse aveva sempre cercato nei campi al crepuscolo.
Alla messa di mezzanotte, nella bufera tagliente, Pasquale Tarcasto sfondò la porta della chiesa, mutilato di una mano e strisciante avanzava destando lo sgomento della comunità radunata in quella magica notte a celebrare la nascita del Salvatore.
Invece in quella notte un orrore in spoglie umane avanzava spargendo in terra il proprio sangue, mentre fuori la gelida notte ululava con l’impeto di chi cerca vendetta.
Don Gerardo, il parroco, fu il più risolutivo, fracassò la testa di Pasquale mediante un candelabro, urlando con isteria:
“Via di qui, niente sangue in questo luogo, soprattutto in questa notte!!”
Dopo quella sanguinosa, strana notte, le voci furono tante, coloro che avevano visto Lacroce al cimitero tacquero per l’insolita paura di attirare su di loro la stessa sorte del becchino, che si era forse recato in chiesa al fine di denunciare pubblicamente, in un eccesso di redenzione, la esecrabile condotta dell’amico, poi ferocemente punito prima di poter rivelare fatto alcuno.
La cosa che rimaneva inspiegabile era l’attacco di violenza scaturito dal pio Don Gerardo.
Fu in quell’epoca che in paese si trasferì Luigi Prestizzi, eccentrico intellettuale esiliatosi in una villa isolata, a est dell’agglomerato di case.
Il giovane, di un pallore cadaverico, scendeva di rado in paese, infatti quando non lo si scorgeva errare in furiose cavalcate notturne, lo si vedeva in farmacia, allo scopo di procurarsi erbe e miscele chimiche, unite a grandi quantità di laudano, di cui faceva un largo uso su se stesso, ipotesi che appariva chiara scorgendo le sue fattezze emaciate tipiche dell’individuo allucinato.
Grande studioso di occulto, costui fu subito affascinato dagli eventi di cui ebbe sentito dire in paese.
Si recò subito da Don Gerardo che lo accolse con cordialità.
“Cosa pensa di questi grotteschi fatti padre? Crede che siano favole dalle tetre tinte o tremende verità?”
“Io so solo che non riconobbi quel corpo scempiato quella notte, pensavo fosse un orribile creatura di natura blasfema!”
“Ebbene Padre, lei crede in una sorta di presenza diabolica?”
Gli occhi di Prestizzi si illuminarono di perversi lucori ora che il parroco toccava determinati argomenti a lui cari.
“Certo quanto accaduto non è stata opera di Dio non crede? Il becchino è stato dilaniato, una mano gli è stata amputata e non è stata ritrovata in alcun luogo, eppure è stata setacciata la pista in cui sono avvenute le brutalità!”
“La pista?” Prestizzi si sporse in avanti incuriosito.
“Sì, sembra che Tarcasto sia stato inseguito nel bosco e sia stato braccato ferocemente, su alcuni cespugli sono stati ritrovati ampi spruzzi di sangue!”
“E cosa pensa della mano?”
“Penso, che Dio mi perdoni, che sia stata mangiata!”
“Mangiata da una bestia notturna? Un Wurdalak forse?”
“Non so di cosa stia parlando signor Prestizzi!”
“Vede Don Gerardo, sono stato molti anni in Russia e nei Balcani, ho tenuto battute di caccia molto particolari, sa, albergano animali nella notte di cui pochi immaginano la natura, ho ucciso il mio ultimo vampiro a Parma, l’ho inchiodato in quelle terre desolate, brumose e dimenticate da Dio!”
“Io penso che lei sia un invasato Prestizzi, conservi per persone d’altro genere questo tipo di colloqui!”
“Che sia un Wurdalak o un Lupo mannaro, o qualsiasi altro vergognoso parto satanico, io lo imprigionerò!”
“Vada via Prestizzi, per quanto mi riguarda lei è un altro matto che presto vedremo vagare nottetempo per i cimiteri, terrò informati i carabinieri!”
Prestizzi si ammantò nella sua cappa e andò via sorridente, aveva dunque rivelato i propri, grotteschi propositi senza ombra di imbarazzo, e ora dalla finestra Don Gerardo lo osservava allontanarsi nell’oscurità del crepuscolo morente accompagnato da un gigantesco servitore slavo.
*
“E’ notte fonda ormai, la candela brucia sui teschi di coloro che tu ami!”
Forgotto era in cella, da ore questa cantilena angosciava il suo sonno, era cantata da maligne voci infantili, aveva fissa dinnanzi a lui l’immagine del corpulento Femore che con il volto spappolato tentava di agguantarlo nella tenebra.
Da quando gli era giunta notizia della morte di Emanuela il suo mondo era divenuto un immoto lago depressivo.
“Hai ucciso un uomo per amore e adesso la morte ha portato via anche la tua amata!”
Sentì nell’oscurità della cella una nuova presenza, il brivido di questa consapevolezza lo inchiodava al giaciglio.
Vide l’uncino avvicinarsi sempre più e comprese che quella non era una visione allucinogena, bensì orrida realtà, l’uncino emanava l’olezzo di ruggine e sangue, gli penetrò nella carne delle guance come fosse un amo crudele.
“Sei fortunato che sia giunto io per primo ragazzo! Sono qui per liberarti!”
Forgotto si risvegliò e carpì immediatamente il sapore del sangue nella sua bocca; viaggiavano nella notte su di un carro, le strade erano buie ed il vento tagliente.
“Chi sei?” Chiese all’uomo che conduceva il veicolo coperto completamente da una cappa nera.
“Sono uno che ti ha salvato! E tu in cambio devi fare qualcosa per me!!”
Mentre il carro sfrecciava tra i boschi uno sparo tonante frenò la corsa, Forgotto avvertì unicamente lo spruzzo di sangue che gli imbrattò irruentemente la faccia.
Il carro si rovesciò e Forgotto istintivamente strisciò verso le foglie immerse nella tenebra, verso un’ignota salvezza, mentre il suo sguardo allucinato e l’epilettico respiro erano illuminati dal pallore della luna.
Ebbe comunque modo di vedere l’uomo con l’uncino strisciare ferito; A pochi passi da lui, alto e fiero, incombeva un giovane pallido, imperturbabile puntava un’enorme fucile contro la faccia dell’uomo ferito, la canna fumava sinistramente nella notte.
L’assalitore era Prestizzi, che Forgotto certo non conosceva.
L’alta e snella figura, la barbetta nera, lo sguardo folle di questi certo non contribuivano a fornirgliene una rassicurante impressione.
“Se tu fossi stato un contadino o un taglialegna adesso non staresti strisciando qui per terra a sputare sangue, certo non saresti vivo, dico bene empia creatura? Talvolta mi sbaglio e prendo il tipo sbagliato che cade subito secco al primo colpo di questo gioiello, non che mi interessi poi molto, come si dice? Il fine giustifica i mezzi!”
L’uomo si contorceva, ma ebbe comunque uno scatto ferale e artigliò Prestizzi al petto mediante l’uncino, vi fu un nuovo sparo, questa volta andato a vuoto, in quell’istante un terzo uomo giunse dalla foresta armato di scure, con un colpo netto mutilò il braccio del caparbio uomo uncinato; era l’enorme slavo, coperto da indicibili cicatrici su corpo e volto, era un tipo che pareva aver visto il diavolo in persona e milioni di altre atrocità simili.
“Non ucciderlo Petrov, dobbiamo studiare ciò che accade in queste lande, e pensare che noi dopo Parma volevamo andare in Transilvania, qui invece mi sto proprio divertendo!”
Prestizzi afferrò la vittima che ancora si dibatteva nonostante il braccio monco, la spinse violentemente contro un albero, estrasse un enorme coltellaccio e con sadica maestria tagliò il naso da quella faccia arcigna.
“Sei Pasquale Tarcasto non è così? Come hai fatto a uscire dalla tomba?”
Si voltò verso il silente Petrov:
“Lo portiamo a casa, è vero che è affascinante torturare un risorgente di ignota razza qui nel bosco, ma chi ci capirebbe? Volevamo solo fare una suggestiva escursione notturna e invece chi ti troviamo? Questo mattacchione che va a spasso per i boschi!”
Dicendo ciò sorrise in maniera perversa e infantile in egual modo.
Tarcasto ebbe modo di rispondergli in preda al dolore mentre Prestizzi si accingeva a recidergli anche l’orecchio:
“Passeggi sempre col fucile malvivente? Fai pure, taglia quanto vuoi, tanto non puoi uccidermi!”
“Passeggi sempre col fucile malvivente? Fai pure, taglia quanto vuoi, tanto non puoi uccidermi!”
“Ho avuto spesso a che fare con questo genere di problemi! Tu non preoccuparti di questo!” Disse il gentiluomo infilzandolo ancora con in volto un malinconico sorriso di rimembranza.
Petrov infilzò un gancio in una spalla di Tarcasto, e mediante una catena cominciò a trascinarlo tra gli alberi, i tre si allontanarono seguiti dal suono strisciante del morto vivente strattonato, mentre Prestizzi, palesemente ebbro, tracannava un grosso fiasco di vino, accingendosi a passarlo al taciturno compagno di caccia.
*
Forgotto vagò per tutta la notte, ormai non più l’uomo di un tempo, l’omicidio, il carcere, la follia che ora si impadroniva di lui, tutto ciò lo rendeva un pallido spettro vagante per i campi.
Solo quando sorse l’alba egli si fermò e rimase assopito in un sonno angoscioso.
Quando si risvegliò era nuovamente notte e spettri d’angoscia gli stringevano il petto.
“Andrò a riposare sulla tomba di Emanuela, quale luogo potrà essere più consono a me, che ormai vago sui declivi del delirio, solo lei, solo la mia amata, potrà acquietare i miei incubi!”
Attraverso i sentieri più oscuri e isolati giunse al cimitero, mentre le solinghe brughiere offuscavano di paura e sinistre cantilene i suoi sensi.
Scavalcò i cancelli mentre la luna era alta, i lumini danzavano carezzati dalla brezza, soffice come il respiro di uno spettro, non sapeva dove fosse situata la tomba della sua amata, così passeggiò lungo le tombe, dannata apparizione nella notte invernale.
Trasalì scorgendo di lontano i lucori tremolanti di una lanterna, poi vide l’inconfondibile figura di Arturo Lacroce muoversi fra le lapidi.
“Che triste storia!” Pensò. “Anche il folle Arturo cerca una donna fra le tombe e lo fa da molto prima di me, forse dovrei parlargli!”
Allora Forgotto seguì la lanterna, come una spettrale falena in una fiaba di morte.
Fu agghiacciante la scena che vide quando Lacroce posò il lume:
Emanuela, esangue, sbucò dalla tenebra dei cipressi, completamente nuda, bianca, tanto che le sue carni apparivano trasparenti, raggiunse con cupo languore il visitatore notturno; i due, tra carezze soavi, si abbandonarono ad un inquietante amplesso tra le croci e le lapidi.
Forgotto assistette agghiacciato alla macabra scena, nuovo dolore si aggiungeva alla sua psiche frustrata mentre sulla sua fronte bruciavano gli incensi del collasso nervoso.
Fu l’acre odore della terra umida portata dal gelo della notte e l’aroma della cera dei lumini a tenerlo in piedi.
“Puttana!”
Urlò nel silenzio vetusto del camposanto notturno.
Arturo si voltò, Forgotto afferrò un’enorme crocefisso e brandendolo come fosse un’ascia si lanciò contro la morta traditrice ed il suo amante necrofilo.
Con un colpo violentissimo sfondò la mascella di Arturo mentre la fanciulla rediviva se ne stava a gambe aperte.
In un gesto fulmineo la ragazza morta scappò, il candore del suo corpo nudo librato nell’oscurità infiammò ancor di più Forgotto di furia omicida, con il crocefisso percosse ancora Arturo, che adesso giaceva sulla stessa terra su cui un attimo prima erano posate le natiche di lei, ancora belle e sopravvissute alla morte; lo maciullò di colpi feroci con folle impeto mentre il sangue schizzava sul suo volto stravolto.
Quando ebbe terminato rimaneva un corpo inerme e scempiato in terra, nella terra spaccata vi era conficcato il crocefisso, mentre gli argentei raggi della luna piena illuminavano il sangue, dolcemente posato sul nitore dell’erba gelata; le membra sudate d’un assassino innamorato finalmente si chetarono.
Nei giorni successivi al ritrovamento del cadavere di Arturo Lacroce nel cimitero, le indagini si strinsero come un cappio intorno alla losca figura di Luigi Prestizzi.
Ben presto però un ordine proveniente dal Vaticano mise tutto in situazione di calma.
Lo zio paterno di Prestizzi era un potente Vescovo napoletano.
Intanto Forgotto si nascondeva tra i boschi, ancora incrostato di sangue e sempre più delirante:
“Devo trovarla, devo trovare la mia Emanuela!”
Era questa la natura dei suoi folli monologhi.
Era braccato, se lo sentiva sul collo, erano vicini, era evaso solo per uccidere un altro uomo, e adesso lo avrebbero preso, mentre i suoi paranoici occhi roteavano in tutte le direzioni in cerca di un segnale, tutto per quella puttana che da morta si faceva scopare dal pazzo del villaggio, figurarsi da viva cos’aveva combinato la troia!! Doveva trovarla, aveva bisogno di lei per non essere solo in quell’incubo.
Improvvisamente però, carpì un profondo male aleggiare nei luoghi deserti intorno a lui, perfino il frinire delle cicale cessò imbevendo l’aria di un fosco, morboso silenzio.
Vide due occhi nella penombra, lo fissavano spaccandogli l’anima, allora lacrimò d’istinto, era la bestia dei suoi sogni malefici, il nero colosso che giungeva a prenderlo ringhiando vendetta, e allora ricordò chiare e nitide le parole dell’uomo con l’uncino:
“Sei fortunato che sia giunto io per primo ragazzo!”
“Sei fortunato che sia giunto io per primo ragazzo!”
Non poteva scappare, quello sguardo brutale e antico lo aveva inchiodato all’albero dov’era appoggiato.
Presto lo vide in tutto il suo orrore, non era il solito Tibia, anche se ne aveva qualche vaga rimembranza, costui era alto quasi due metri, peloso come un orso, orribilmente curvo ringhiava avanzando, una bava viscosa gli incrostava il petto ricoperto di nerissimo manto.
“Sei qui per vendicarti? Sappi che sei stato tu a incominciare, io ti ho ucciso per amore!”
La bestia posò i suoi artigli sul volto malarico di Forgotto, gli sfregiò il viso penetrando a fondo nella carne, poi lo scaraventò lontano, come fosse un pupazzo, il giovane tentò di scappare, sanguinante e acciaccato, presto sentì una nuova, tremenda artigliata alla schiena, poi lo assalirono percosse brutali mirate al dolore assoluto.
La bestia era pelata per metà volto, al posto dei peli vi era una chiazza marcescente, non vi era dubbio che quell’animale satanico fosse stato un tempo Umberto Tibia.
Mentre Forgotto ormai s’abbandonava con rassegnazione alla morte sentì un impatto violento liberarlo dall’assalitore incombente, un nuovo venuto si era abbattuto su di lui con la violenza di un masso.
Con la vista annebbiata dalle contusioni Forgotto riconobbe lo slavo, che come un lottatore che fronteggia un orso si cimentava in un corpo a corpo suicida con la belva.
Cadde fra le foglie infatti, accanto a Forgotto, poiché dopo pochi istanti di lotta l’animale gli aveva strappato un occhio e ora lo mangiava con avidità; ma come se fosse stregato o immune al dolore Petrov lo slavo si alzò nuovamente brandendo la corta scure che portava legata in vita, l’occhio vomitava sangue che gli imbrattava il petto nudo esposto al gelo del bosco.
Lanciando un urlo belluino si gettò ancora alla carica, come un martire santo che sfida il male con l’arma fulgida e sacra del proprio corpo immolato.
Conficcò la scure nel petto dell’animale, poi estrasse un lungo coltello da caccia ed ebbe anche lui il suo occhio, poi morse quel volto orribile tentando l’assurdo con furia guerriera, ma presto fu nuovamente scaraventato con violenza tra le foglie, accanto a Forgotto, questa volta con un braccio brutalmente strappato dal corpo.
Osservò sorridente la bestia rosicchiare l’arto che un tempo gli apparteneva, intanto estraeva dalla tasca un unguento che cominciò a spalmarsi sul corpo, l’animale lo osservava masticando il braccio reciso mentre Forgotto, ormai prossimo allo svenimento, poteva solo udire l’orribile rantolo di quella masticazione antropofaga.
Lo slavo accese un fiammifero e con esso si diede fuoco, balzò sull’animale stringendolo in una morsa d’acciaio, presto entrambi avvamparono tra grida disumane, le fiamme saettavano nella notte nel sacrificio di quel rogo sacrilego, con l’aiuto dell’unguento incendiario, Petrov aveva abbattuto la bestia mediante il sacrificio della propria vita.
Contuso e sanguinante Forgotto si allontanò dal luogo della macabra lotta, dove ora giacevano due salme carbonizzate.
Ci mise tutta la notte a uscire dai boschi, lasciando dietro di sé una scia di sangue sgorgante dalle ferite aperte, ogni passo di lancinante dolore gli suggeriva un unico pensiero: uccidere quella puttana che aveva causato tutto quello, la troia satanica che aveva frantumato la sua vita rendendola un incubo.
Una sola soluzione gli giungeva come logica, ovvero rintracciare il misterioso amico dello slavo che aveva rapito l’uomo con l’uncino nella notte in cui quest’ultimo l’aveva fatto evadere.
*
Conosceva tutte le altre case, dunque non gli restava che provare nell’antica villa. Ma quando giunse alla casa e rovistò dappertutto ormai prossimo allo svenimento, si avvilì per non aver trovato nessuno.
Giaceva su un sontuoso divano che lo abbracciava di un dolce sopore quando la sua attenzione fu destata da rantoli soffusi. Seguì il sinistro richiamo fino a uno scantinato, varcata la porta accese qualche lume, l’odore di carne era pregnante come in una macelleria.
“Ragazzo ti prego, salvami…ragazzo!”
Che immagine truculenta gli si parò innanzi:
Pasquale Tarcasto era squartato dallo sterno in giù, eppure ancora vivo, le sue budella pendevano al soffitto infilzate a ganci da macello e gli sbucavano dall’enorme squarcio come tentacoli sanguinanti, nell’occhio aveva ancora conficcato il coltellaccio di quella notte, il naso e le orecchie mutilate si erano cicatrizzate ricoprendo di una maschera orribile quel voto già deforme naturalmente.
Pasquale Tarcasto era squartato dallo sterno in giù, eppure ancora vivo, le sue budella pendevano al soffitto infilzate a ganci da macello e gli sbucavano dall’enorme squarcio come tentacoli sanguinanti, nell’occhio aveva ancora conficcato il coltellaccio di quella notte, il naso e le orecchie mutilate si erano cicatrizzate ricoprendo di una maschera orribile quel voto già deforme naturalmente.
Tarcasto rideva, questo rendeva quell’ammasso di carne ancora più inquietante:
“Ho parlato, ho detto tutto a quel pazzo!”
“Detto cosa? Come fai a essere vivo? Cosa sta succedendo?”
“Arturo Lacroce aveva scoperto delle formule che avevano reso in nostri giochetti notturni un po’ più movimentati, il maiale cornuto giunse nel bosco e ci promise delle vite come noi sognavamo, immuni al dolore, distanti dalla morte! Io e Umberto accettammo ma Arturo scelse un altro tipo di patto, scelse di rianimare la creatura che in vita lui non avrebbe mai potuto avere, così la uccise e la tenne con sé da cadavere; Umberto dopo che l’hai ucciso, è divenuto una fiera selvaggia, a proposito, non ti ha ancora trovato? Avresti dovuto vedere lo stato in cui mi ridusse la notte di natale di un anno fa, quando ero ancora in vita, prima di questo stadio sublime in cui mi trovo ora!”
“L’ha ucciso il gigante che era con l’uomo che ti ha sparato la notte in cui sono evaso, ma è costato la vita a entrambi!”
“Sono contento, quello slavo era un sadico mostruoso, non puoi capire cosa mi ha fatto!”
Forgotto si fece avanti, sembrava non temere più la carcassa viva che gli stava innanzi:
“Io rivoglio Emanuela, e se non posso la ucciderò, ne ho passate troppe per starmene in disparte!”
“E’ per questo che ti ho liberato, avevo previsto che mi saresti tornato utile contro quel rimbambito romantico di Arturo che è l’unico a conoscere le formule e ormai cominciava a fare troppo l’arrogante!”
“Arturo Lacroce è morto! L’ho ucciso io!”
“Bene, era proprio quello che volevo, liberami forza, dopo questa storia voglio darmi definitivamente al commercio di bambini, sono stufo di queste porcherie stregonesche!”
“Perché dovrei liberarti? Perché non hai ucciso tu Arturo?”
“Perché io ti ho liberato prima che la bestia ti trovasse per strapparti i genitali e farne una collana alla tua troia morta, perché quel macellaio di Prestizzi ora è al cimitero e sta per fare a pezzi il tuo adorato bocconcino….ah e non ho ucciso Arturo perché un incantesimo della malora me lo impediva, tutti hanno bisogno di alleati ragazzo!”
Dicendo ciò il cadavere vivente si era alterato fortemente, strabuzzando gli occhi e vomitando sangue, così Forgotto lo liberò dalla terribile tortura alla quale era sottoposto.
Tarcasto si ricucì alla meglio:
“Adesso restituirò tutto il dolore a quel grandissimo figlio di puttana!”
“Adesso restituirò tutto il dolore a quel grandissimo figlio di puttana!”
*
Rubarono un calesse, pioveva ed era tardo pomeriggio, il cielo plumbeo si offuscava di nubi e l’effluvio della pioggia risvegliava l’antico poema dei pini.
Intanto la coppia grottesca sfrecciava sotto i lampi con andatura sconnessa, le strade fangose rendevano ancor più spericolata la corsa della vettura flagellata dall’acquazzone.
“Non si vede niente ragazzo!”
“Rallenta becchino!!”
“Santa madre, mi si sta riaprendo la ferita!”
Le budella di Tarcasto non volevano saperne di restare dentro.
Giunti al cimitero, come i personaggi di una scena apocalittica, i due si scorgevano a malapena offuscati dalla pioggia incessante, sporchi di fango annaspavano cercando di raggiungere attraverso il diluvio la tomba di Emanuela Costabile; lì furono testimoni di una tragica, quanto toccante apparizione.
Emanuela stava in piedi e fissava il vuoto come un pallido automa, in ginocchio, davanti a lei, con la guancia premuta contro il di lei ventre bagnato e la testa fra le sue mani adunche, stava Luigi Prestizzi, lo spietato cacciatore di creature notturne; fradicio di pioggia, patetico come un bambino in seno alla propria madre, egli piangeva, e le sue lacrime si mescolavano al di lei corpo irrorato dal violento temporale.
“Io ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, dolce creatura smarrita al di là della morte, ti porterò con me, domani stesso partiremo da questo luogo di zotici, andremo ad Amsterdam, ti va? Parlami amore, te ne prego!”
Quell’uomo fradicio di pioggia s’alzò lentamente, le prese le mani fra le sue e baciò le esangui labbra di lei, gelide e prive di respiro; ella non si mosse di un millimetro, i suoi occhi vitrei, da bambola priva di coscienza, continuavano a rivolgersi al vuoto innanzi a lei, non reagendo minimamente ai tristi baci di lui, ed egli continuò scendendo giù lungo quel corpo morto, le baciò il collo, i seni, e poi il ventre prostrandosi nuovamente, fino a baciarle i piedi come un umile schiavo.
Poco lontano Forgotto e Tarcasto osservavano la scena indisturbati, Pasquale divertito dal cacciatore umiliato da quella sorta di pupazzo privo di sentimenti né emozioni, mentre Giovanni Forgotto, appariva orribilmente geloso.
“Maledetta puttana! Si fa fare tutto, da tutti, e non dice niente!!”
Puntò il fucile che aveva preso alla villa verso la scena dei due sinistri amanti, sparò un colpo che si infranse distruttivo fra i seni di lei catapultandola all’indietro, bianca, inespressiva, con gli occhi vacui, le membra scomposte come quelle di un burattino dai fili recisi, solo un sottile rivolo di sangue nero che le colava dall’algida bocca, mentre ormai la fanghiglia del temporale cominciava a sporcare il nitore delle sue membra come a volerla finalmente seppellire, restituendo quelle spoglie mortali, poc’anzi innaturali, al luogo a loro consono.
Nel vedere Emanuela in quello stato Prestizzi si voltò verso colui che aveva sparato, il suo volto era sconvolto, poi corse verso il corpo giacente, si chinò su di lei e le sollevò leggermente la testa tenendosela in grembo, come in preda a una infantile follia cominciò a carezzarle delicatamente la fronte, sussurrando frasi sconnesse:
“No, no, finalmente mi ero innamorato….”
“No, no, finalmente mi ero innamorato….”
Ella guardava con poca eloquenza l’uomo che la stringeva a sé, il petto sfondato dai pallini del fucile da caccia, il mento percorso da un denso nastro di sangue ormai non più rosso.
Intanto Forgotto era giunto più vicino ai due, mentre il temporale scrosciava sulla fronte di porcellana di Emanuela e con inaudita poesia si mesceva a quel sangue nero, egli sparò il secondo colpo che spappolò la testa della tragica, contesa amante.
Sotto la pioggia incalzante, inginocchiato nel fango, Prestizzi fissò Forgotto che stava in piedi dinnanzi a lui brandendo il fucile fumante; quelle figure drammatiche, erano una dinnanzi all’altra, fradici, sotto il lacrimare violento di quel temporale, dopo un attimo di stasi emotiva Prestizzi estrasse una pistola, entrambi spararono, con precisione fatele e simmetrica, gli spari divennero uno, accompagnati da un fragoroso tuono.
I due corpi stramazzarono nella fanghiglia, Prestizzi aveva colpito Forgotto alla testa, che ora giaceva accanto al corpo di Emanuela, mentre il giovane cacciatore era stato centrato a una spalla e adesso si contorceva nel fango flagellato da quella piovosa notte di tragedia, presto però un uncino penetrò nella sua carne prima che egli potesse accorgersi del fendente, trascorsero dunque ore di dolorose torture prima che egli potesse morire.
Dopo quell’accaduto inesplicabile agli occhi della giustizia, non accadde nulla di tanto grottesco nei dintorni, cominciarono però a sparire parecchi bambini, rubati dalle culle da un uomo con un uncino al posto della mano, ma c’è chi dice che sia solo una fiaba paurosa.
©Davide Giannicolo 2002
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