giovedì 14 dicembre 2023

Kunai

 


Ti schiavizzo col Kunai. Così vedrai. Così vedrai. 

Sotto i ponti dei bassifondi, mi sentirai, mi sentirai.

La luna nascosta dalle scorie, griglie di cemento.

Sono puro come l’acciaio.

Sono nuvola di dolore.

Sì che vedrai, mi sentirai.

Nella notte rossa del Kunai.

Lanterna di peonie e tatuaggi, affilatura.

Mi sentirai, non mi vedrai.

Fantasma di vendetta e rancore.

Doppio drago, frusta di morte.

Scarlatta notte del Kunai, penetrazione, nessuna opposizione.

Stupro della carne.

Non mi vedrai, così vedrai, non tornerai, mi sentirai.

Come la vergine dal velo bianco nella sua prima notte.

Sangue impuro nei bassifondi. 

Lanterna di peonie e drago.

Nuvola di sangue nella notte del Kunai.

Lama che penetra,

Affilatura.

Stupro della carne.

Davide Giannicolo


lunedì 13 novembre 2023

Istante

 


Era un istante di pace infinita, sospeso nel vuoto. 

Poi esplose, lieve come una bolla e non lo ritrovai mai più.

Nel labirinto spigoloso dell’eternità.

Davide Giannicolo

mercoledì 25 ottobre 2023

Satana

 


La luna penetrava gli specchi della casa vetusta, fascinosa e oscura come una bella e pericolosa donna dalle forme pallide cinte di neri drappi. Nella stanza illuminato dai raggi spettrali vi era un uomo, un vecchio stanco e stordito dal tempo, un vecchio uomo che non aveva mai imparato a vivere. La notte incombeva su di lui e ne era nuovamente commosso, dopo averla rivista innumerevoli volte, ogni volta diversa, ogni volta ammaliante; perpetua e memorabile, che però lo stordiva come oppio col suo mefitico effluvio, consumando la sua mente facendosi pagare quel fascino, svanendo crudele, evanescente.

L’uomo era inerte sulla sua poltrona, il buio era come un sottile velo, la luna era alta: enorme. Egli non voleva muoversi, voleva attendere nella tenebra quell’oscuro, avvilente richiamo che aveva tormentato la sua lunga vita, l’ignota malia che si susseguiva nei suoi lunghi anni. Era assorto dal felpato tocco della notte, ogni suono era musica, il silenzio era musica.
Eppure anch’esso assordante, perpetuo, che si avvicinava allo splendore di una mente in delirio. Nel silenzio il vecchio udì un flebile suono, quasi un lamento che danzava lugubre nella notte. Acuì il suo udito, cercò nel silenzio e udì nitido lo spettrale verso, come lambito da un sogno oppiaceo lo ascoltò lungamente, si confuse con la sua mente e penetrò con violenza dentro di lui, sfuggente e allo stesso tempo lento, morboso.
Poi il diafano velo che gli appannava gli occhi si allargò fluttuante e magico ed egli guardò fuori, viveva in una foresta, i pini erano un’immensa massa nera, un maestoso monumento di tenebra. Il suono si udiva ancora, ed egli lo seguì lentamente, scese la rampa di scale di legno e lo scricchiolio delle travi marce fu il primo rumore che carpì. Tanto era vecchio che le sue ossa apparivano nitide, era nudo, e la sua pelle era simile ad un velo diafano posato sul suo scheletro fragile, il suo passo era inquietante, leggero, spettrale.
Apri l’uscio di casa e uscì nella notte gelida, nudo sembrava un fantasma, seguiva il suono che gli gelava le membra più del vento tagliente, vicino esso risuonava invadente mentre la luna illuminava il di lui corpo bianco rendendolo fulgido. Fu invaso da un fremito quando intravide il bianco fautore di quel verso, come un barbaro idolo una grande capra belava ammantata dalla tenebra. Attendeva l’uomo, e quando egli giunse cessò il suo verso fatato.

La capra avanzò, gli zoccoli si udivano nel silenzio, forse un cimitero lontano cantava. L’uomo guardò l’animale negli occhi, riconobbe una luce, una luce che non aveva mai visto negli occhi di nessuna capra; erano freddi e spietati, selvaggi e affascinanti come quelli di un lupo. L’animale avanzò ancora con decisione flemmatica, e lui si sedette in terra, nudo, senza comprendere ancora perfettamente, pervaso da un malsano flusso di sangue che avvampava il suo cervello seducendolo a morte. Sentì il gelo carezzargli la nuda pelle, violentarlo; un amplesso sclerotico con la natura si compì, un intimo, violento abbraccio ove egli era schiavizzato e ucciso dal piacere delirante di quel contatto con la sua epidermide. Poi un nuovo elemento si aggiunse alla violenza masochista di quell’accoppiamento, piovve, prima flebilmente eccitando il suo patetico corpo che giaceva tra le foglie morte, poi con fervore, pesantemente, flagellandogli le membra; riempiendogli la bocca mentre lasciva l’acqua strisciava sulla sua pelle, perpetua essa cadeva colpendolo dal cielo e suoi sensi erano accesi da quelle letali, dolcissime lacrime.
Nell’estasi impetuosa di quella maestosa mescolanza il suo corpo sporco da larghe chiazze di fango fu scosso da un gelido tocco, il naso dell’animale giunto sin lì con regale flemma annusava ora lentamente e con violenza le sue carni. Il suo cuore pulsò ancora più velocemente, riecheggiando nella sua mente, assordandolo col suo irruente battito. Ma la paura non vinse il vetusto fascino, il male, vivo, faceva quel che voleva della sua pelle, costringendolo all’obbedienza donandogli oscuro piacere. La capra morse un suo scheletrico fianco in modo inquietante, la poggia si mescolò al sangue e l’animale salì su di lui sanguinante, patetico lui sospirava al di sotto di esso che consumava l’atto blasfemo muovendosi spasmodico sopra di lui. Il belare appariva come una sinfonia di convulsi gemiti che sacrileghi s’ergevano accompagnati dal ritmo della pioggia.
Egli in terra stringeva a sè l’animale con deboli forze sentendo un mefitico alito caldo, penetrava la capra e sentiva sparire piccoli soffi di vita, essa invece appariva incessante e quella turpe scena ormai si consumava da lunghi attimi.
L’uomo sentì la sua mente estraniarsi dal corpo straziato dai denti quadrati dell’animale che belava inquietante su di lui, poi provò un fisico affanno e la morte, la sua vita svaniva evanescente e morbida come fumo sulle ali del peccato.
La capra belava ancora infierendo sul suo cadavere immoto, lanciando ancora quello straziante suono nella notte, violando quelle spoglie mortali sacrilegamente, con ossessione e perversione animale scempiava quel corpo morto, con truculenta e macabra passione.

Davide Giannicolo

domenica 24 settembre 2023

Ctonia Iside

 


Ctonia Iside, accompagnata dai sette Dei scorpioni.

Possenti guardiani del tuo cammino, protettori d’ogni tuo passo, pronti a scattare in difesa tua e di tuo figlio Horus, destinato a divenire Re.

Ctonia Iside, che sorridi e rispondi con garbo all’affronto, nonostante le cuspidi letali delle tue guardie del corpo ti consentano immediata vendetta.

Nel nome di ciascun Dio Scorpione, pronunciato a voce alta vi è racchiusa la formula che scioglie l’incantesimo del dolore. 

Madre eterna, la mia umile cuspide è al tuo servizio.

Davide Giannicolo

martedì 29 agosto 2023

Nasty Bokken

 


Guarda come risplendo

Nella luce del Kendo.

Con questo ligneo bastone

Ti darò una punizione.

Fatale contusione per ogni tua emozione.

Preparati smargiasso per la somma umiliazione.

Davide Giannicolo

sabato 5 agosto 2023

Fututerroraction

 


Quando uscì dalla porta la luce del sole si era fatta rossa e stava morendo lentamente dietro la fila di case sull’altro lato della via. Un cane attraversò la strada dimenando la coda. Lui si chinò, gli fece una carezza e pensò:

“Mi resta ancora una sola cosa da fare.”

Con un balzo improvviso il cane posò le sue grosse zampe sulle spalle massicce di lui, prese a leccargli la faccia in maniera festosa e invadente, lui sorrise, questo suo nuovo amico aveva dipinto di conforto il fosco tramonto che man mano assumeva le tinte scarlatte del sangue.

Improvvisamente un getto umido gli investì il volto, era stato tutto così confuso, cadde in terra e sulla faccia non aveva certo la saliva del cane, era qualcosa di più denso, dall’odore pregnante, una fragranza malvagia che lui conosceva benissimo, sangue; il cane aveva smesso infatti di leccare.

Aprì gli occhi e concepì con orrore la scena, la testa del cane non c’era più, il corpo del povero animale era ancora adagiato sul petto di lui, contorto in agghiaccianti spasmi nervosi, il collo reciso che vomitava abbondanti fiotti di sangue imbrattando la sua attonita faccia.

Restò immobile per qualche secondo, la violenza di quella scena lo aveva ibernato, proprio come si intrappolano nel ghiaccio le vergini adultere(dunque non più vergini) che vengono mutate in sculture immobili in onore del gran maestro Gilles kitch, presidente operoso del pianeta, della moda e del design .

Quando riuscì finalmente a muoversi, liberandosi dal peso spruzzante che gravava sul suo petto, si impegnò a tergere il sangue dalle proprie palpebre così da poter vedere con maggiore chiarezza. Intorno c’erano il cervello e la testa del cane, sparpagliati in truculenti pezzetti un po’ ovunque.

Dritto di fronte a lui imperava un “Controllore”, alto e maestoso, inguainato nella sua rigida divisa in lattice nero e metallo, con in mano il tipico manganello a scariche elettriche, lo osservava dall’alto mentre lui era in terra tra i resti dell’animale.

Era stato lui a far saltare la testa al cane, con una scarica così possente da poter uccidere un bue, solo un sadico è capace di un simile gesto; infatti se non eri sadico non potevi entrare nell’ordine dei controllori, lo diceva espressamente il regolamento, “si pregano le persone dal cuore tenero di astenersi dal reclutamento.”

Il grosso controllore fissava Chiodo che a sua volta ricambiava lo sguardo con aria perplessa, insanguinato e seduto sul bordo del marciapiede.

“Non lo sa che è proibito esternare manifestazioni d’affetto così carnali? Non sa che qui a Roma è proibito perfino stringere la mano ad uno sconosciuto senza l’ausilio di guanti in lattice? Figurarsi fare quello che lei stava facendo con quel cane! Lei deve essere proprio pazzo! Perché non è al palazzo del bondage? La baronessa del fetish sta tenendo un discorso!”

“Perché ha ucciso in maniera così barbara quella povera bestia? Era il primo cane che vedevo in strada da anni!”

“Le è proibito fare domande signore, lei ha tutta l’aria di essere un ribelle, venga con me!”

Il controllore estrasse le manette dentate, anch’esse munite di scariche elettriche, si chinò verso Chiodo per ammanettarlo ma già questi in uno scatto gli aveva piantato una larga lama in mezzo agli occhi.

“Bastardo! Questo è per il cane, porco deviato!”

Non c’era nessuno in strada a quell’ora, i motori  dell’ossigeno stavano per essere spenti per la notte, dunque tutti erano già ad affollarsi nei templi del bondage o ai distributori automatici con le loro mascherine.

Chiodo viveva in un’epoca buia dov’era difficile incontrare un cane per strada, l’ossigeno era stato monopolizzato dal gran maestro Gilles Kitch già da vent’anni dopo la grande regressione del petrolio.

I combustibili avevano oppresso la terra consumandone ogni risorsa e avvelenando l’aria, gli uomini per vivere e respirare erano costretti a comprare l’ossigeno di notte, mentre di giorno veniva gentilmente e umanamente offerto dal gran maestro che lo distribuiva mediante le sue industrie globali.

Su ciascuna città giganteggiavano ciclopici i motori del maestro, chiunque volesse respirare non poteva fare altro che sottostare all’egemonia di Gilles e accettare in primis le sue folli leggi estetiche; infatti Roma, uno degli epicentri storici più sublimi dell’arte architettonica, si era tramutata in una pagliacciata kitch, i principali monumenti erano stati rasi al suolo e sostituiti da mostruose costruzioni in vetroresina. Il Colosseo era  rivestito di vergognosi pellicciotti rosa e lustrini, catene dorate reggevano giganteschi lampioni nei principali centri al fine di emanare luci e profumi plastificati, incensi fittizi di un mondo distorto.

Chi era troppo povero per pagarsi l’aria era costretto a rifugiarsi nei templi del bondage, palazzi in vetro scuro e decorati in oro rosa ove baronesse fetisch gestivano performance per la più alta elite del paese in decadenza.

In cambio di aria gli ospiti dovevano essere a completa disposizione degli spettatori paganti, si potevano dunque osservare in questi posti le più orribili nefandezze concepite dall’animo deviato; le persone non erano null’altro che oggetti, divenivano tavolini stuzzicati con aghi e suppellettili bollenti, sui quali era concesso spegnere sigari e sigarette, vomitare la sbronza, affondare la forchetta giusto per spezzare la tensione. Oppure potevi ritrovarti a essere un divano sul quale si stravaccavano grassi e nudi magnati o obesi culi fetidi di bovine baronesse.

Eri dunque una persona fortunata se ti capitava solo di essere frustato, legato o violentato.

Il padre di Chiodo era morto in uno di quei posti, e non c’era cosa che infatti Chiodo odiasse più di quel maledetto, plastificato mondo ideato da quel frocio del maestro kitch.

Tutto il mondo occidentale si era sottomesso alle multinazionali di quel figlio di puttana, solo il medio oriente aveva resistito al suo laido ricatto, il risultato fu che il medio oriente non esisteva più, milioni di corpi asfissiati hanno generato con la loro decomposizione la più immane e devastante pestilenza mai ricordata dal genere umano, trascinata in occidente sulle ali malevole di cavallette soprofaghe, che avevano divorato i corpi morti di quasi un intero continente.

Per questo bisognava stare attenti alle manifestazioni d’affetto, i baci erano divenuti merce di contrabbando, il maestro odiava l’espansività carnale e affettiva in ogni sua forma, e molto probabilmente, anche senza l’epidemia, si sarebbe attrezzato comunque per proibire tali “umane debolezze!”.

Il Dio del maestro era se stesso, la sua impotenza innalzata a icona e la plastica che lui chiamava estetica, ed il mondo gli voleva anche bene, a questo pagliaccio ridicolo, pingue figlio dell’avanguardia stilistica.

Questo era il mondo dove Chiodo era nato e cresciuto, non sapeva nemmeno chi fosse sua madre, non aveva mai visto il mare, né il cielo privo di nubi rossastre, limpido e azzurro come si diceva fosse stato un tempo, non riusciva proprio a immaginarselo il cielo privo di scorie, in effetti non era uno che poteva concedersi spesso alla fantasia, Chiodo era uno dei pochi oppositori del sistema, e stava rientrando da una spedizione molto difficile.

“Mi resta un'unica cosa da fare!” lo ripeté ancora nella sua mente mentre osservava il cadavere del controllore goffamente disteso nella sua ridicola e aderente tuta in lattice.

Lasciò lì il cadavere e cominciò a correre sentendo la carenza d’ossigeno nell’aria, dovuta allo spegnimento dei generatori avvenuto da circa un ora, l’aria accumulatasi si stava dunque disperdendo; aveva estratto il coltello dalla fronte del sadico perdente, e lo teneva stretto nella tasca del suo cappotto, proprio all’altezza del petto, come fosse un secondo cuore, un cuore d’acciaio.

Si insinuò in un dedalo di vicoli, era quello un quartiere antico, uno dei pochi a non aver subito il rinnovo fetish-kitch, questo perché era popolato da reietti, deformi e moribondi, ma il gran maestro non sapeva che era reputata una fortuna per loro la faccenda del rinnovo negato, dunque questo era l’unico quartiere dove non apparivano monumenti fallici in ceramica o statue di  suore seminude intente a leccare crocefissi di vetro, culi in cristallo violetto o uomini negri imbevuti nell’oro.

Il nostro Chiodo si fermò all’entrata di un decadente palazzo, diroccato e sporco sembrava stesse per crollargli addosso; bussò per cinque volte la porta, poi si guardò in giro, e bussò altre due.

“Non ci sono statue!” Una voce rispose alla bussata, proveniva direttamente da dietro la porta.

“Per fortuna!” Rispose Chiodo.

Era la parola d’ordine, infatti gli aprì la porta un bambino, piccolo e sporco, non aveva un occhio, probabilmente sottratto alla povera creatura innocente in un perverso gioco da bondage, in cambio di poche ore d’aria.

Chiodo carezzò la testa del piccolo affettuosamente, estrasse un manufatto, una specie di gioco e glie lo porse sorridendo:

“L’ho fatto ieri, penso sia una specie di albero, o almeno me lo sono immaginato così, nemmeno l’ho mai visto un albero.”

Il bambino sorrise, aveva veramente un’aria malinconica quel piccolo volto privo di occhio sinistro.

Chiusero la porta e salirono la stretta e sudicia scala che portava agli appartamenti.

Orca, ovvero l’uomo dal quale stava andando Chiodo, era immerso in un laborioso esperimento innanzi a filtri e ampolle dalle figure surreali, nel vederlo accennò un sorriso, ma continuò con il suo lavoro:

“Hai piazzato le cariche?”

“Un gioco da ragazzi, mi è scappato più di un morto però, non c’è tempo da perdere, entro domani le scopriranno!”

Orca sorrise:

“Non ci sarà un domani!”

“Hai preparato quella cosa?”

“Ci sto lavorando proprio adesso, ma non credere che sia facile, è doloroso, forse non potrai sopportarlo!”

“Sono disposto a correre il rischio.”

“Come ti sei sentito quando le hai piazzate?”

“Ho pensato ad un acquario, al fatto che anche se forse ne sono ignari i pesci vivono una parodia della vita, una morte vivente, e la cosa giusta è liberarli, anche se questo significa morire!”

“Entro domani saremo tutti dei pesci boccheggianti senza ossigeno, questa pagliacciata finirà, i lerci, grassi generali esploderanno con la loro inerzia espellendo il male che hanno accumulato durante questi anni di ignavia, in tutto il mondo c’è uno dei nostri che ha piazzato una carica per ogni generatore, tutti ormai devono già aver compiuto l’opera e a quanto pare senza intoppi, non ci sarà più schiavitù, non ci sarà più perversione, questi bastardi pagheranno sulla loro pelle le loro mostruosità!”

Il bambino sorrise e guardò Chiodo intensamente con il suo unico occhio azzurro, anche lui, così piccolo, aveva aderito alla causa, anche lui preferiva la morte e l’annientamento dell’umanità a quella parodia di vita costruita su fondamenta di plastica.

“Io allora vado.” Disse Chiodo.

“Aspetta, non ho ancora finito!”

Orca stava preparando un complesso composto chimico, frutto di anni di studio, era una formula alternativa all’ossigeno, ma non aveva gli stessi risultati, era una sorta di droga che alterava tutti i valori del corpo, dopo mezz’ora di autonomia invadeva l’organismo creando conseguenze devastanti, i polmoni sarebbero bruciati, infiammati dall’interno.

Chiodo voleva iniettarsi quell’intruglio prima possibile, aveva un ultimo conto in sospeso prima dell’apocalisse, e se dopo il sabotaggio dei generatori lui non fosse ancora riuscito a compiere l’opera prefissa nella sua mente ormai da una vita, allora il composto letale lo avrebbe aiutato per un’ultima mezzora di morte; voleva assassinare il gran maestro, torturarlo con sadismo come era stato fatto con suo padre nei templi del bondage.

“Ecco, è pronto! Anche se non so come farai a raggiungerlo quel bastardo, tanto domani sarà morto lo stesso!”

Orca disse ciò mentre ammirava il liquido verdazzurro che aveva concepito di sua mano.

“Voglio andare con lui Orca!” Il bambino, conscio della sua situazione di terrorista suicida, voleva spingersi oltre e aiutare l’azione di Chiodo, un indomabile rancore doveva agitarsi perpetuo nel suo piccolo petto, non poteva essere altrimenti.

“No Jacobin, è una cosa che voglio fare da solo!”

“Ma quell’infame non ha rovinato solo la tua di vita, non puoi essere così egoista!”

Orca strinse le mani intorno alle spalle del bambino e lo guardò con uno sguardo rassegnato:

“Potrebbe fallire, potrebbero fargli cose orribili, è meglio che stai qui Jacobin!”

Il bambino lacrimò, corse tra le braccia di Chiodo e lo strinse con forza nervosa.

“Spero che rivedremo gli alberi piccolo, spero che domani saremo in una verde pianura come era un tempo qui, spero Dio voglia farci un nuovo regalo.”

Così dicendo Chiodo prese la fialette che gli aveva preparato Orca, portò con se una siringa e una borsa nera contenente tutte le armi che era riuscito a racimolare.

“Allora io vado, mi resta un’ultima cosa da fare prima della grande libertà!”

“Sicuro che le cariche sono a posto?”

“Devi solo premere il tuo pulsantino Orca!”

“Bene, e ci sono stati tanti morti?”

“Tantissimi!”

“Speriamo che nessuno se ne accorga!”

“Speriamo!”

Chiodo chiuse la porta alle sue spalle e discese le scale con trepidazione infantile.

 

Attentare alla vita di Gilles Kitch non era cosa semplice, già il fatto di essere arrivati indenni e indisturbati ai generatori testimoniava la bravura e la caparbietà degli uomini dell’azione rivoltosa, ma una cosa erano i generatori(Gilles nella sua natura di uomo mediocre pensava che nessuno fosse così stupido da farli saltare in aria uccidendo se stesso e l’intera umanità.)cosa ben diversa era invece l’incolumità di quel pusillanime, Gilles era l’uomo più vile, codardo e ipocondriaco del mondo, era impossibile arrivare a lui a meno che tu non eri una bambina o uno spacciatore di cristalloanfetaminarosa; i bambini erano gli amanti preferiti del maestro, mentre con gli spacciatori-chimicoproduttori egli preferiva avere sempre un rapporto diretto.

Ma Chiodo non poteva simularsi chimicoproduttore, quei figli di puttana sono dei cervelloni, hanno un linguaggio tutto loro che pochi possono tentare di emulare.

Non gli restava che la strada dell’azione, la sua preferita del resto, entrare nel palazzo era impossibile, non aveva che una alternativa, spiazzarlo non appena fosse uscito per la predica pubblica al bondage della chimica al Colosseo, era uno spettacolo raccapricciante che si teneva ogni sera proprio al Colosseo, o almeno quello che ne restava, lì il maestro curava l’opinione pubblica e parlava ai suoi affiliati dei suoi folli propositi su come sarebbe andato il mondo in futuro, era una pazzia che tutta quella gente stesse lì a sentirlo, ad applaudire alle cazzate di un uomo vestito come una carota di cartapesta.

Chiodo raggiunse il palazzo, era pieno di controllori intorno, dunque non usò le strade usuali per raggiungerlo, percorse la rete fognaria avvalendosi di una cartina studiata da anni, si appostò sotto un tombino proprio vicino all’entrata, quante volte si era allenato su quel percorso, quante volte aveva pensato:

“Quando sarà il momento già sarà tutto scritto, il cuore mi sobbalzerà in gola mentre starò andando a torturare quel fantasma già morto!”

Non aveva sulla coscienza le sorti dell’umanità, chi si era piegato a Gilles aderendo al suo monopolio estetogerarchico meritava la morte, era gente che viveva con geishe artificiali, masturbatrici robotiche, manichini factotum, animali esotici manipolati geneticamente; non erano uomini, erano alieni mostruosi. Per quanto riguardava il resto della popolazione, quelli che subivano, quelli che si facevano massacrare nei templi del bondage, per loro sarebbe stata di sicuro una liberazione.

Attese qualche ora, erano quasi le dieci di sera, a mezzanotte sarebbero esplosi tutti i generatori del mondo esteticocivile, aveva dunque soltanto due ore.

Finalmente il ridicolo corteo del maestro varcò l’uscita del palazzo di vetro soffiato, era una carnevalata priva di decenza.

Donne imbellettate con cere simili a maschere precedevano la vettura di Gilles, piume di pavone variopinte ornavano i loro corpi transessuali, giocolieri forzati in tute argentate saltellavano qua e là.

Il maestro era seduto come un sultano su di una scultura titanica, una sorta di lavatrice oblunga dagli oblò laterali contenenti polveri dorate, probabilmente afrodisiaci attui a ingraziarsi gli spettatori persuadendoli all’orgia, dei tubi trasparenti dai colori eccentrici fuoriuscivano dal cuore della scultura e finivano direttamente nel naso e nella bocca del maestro, aria mista a droghe chimiche estasiava la sua parata.

La scultura-trono era sorretta a spalla da uomini muscolosissimi, pompati artificialmente e imbottiti di misture chimiche, mostri culturisti oleati come maiali imbevuti nella sugna, coperti da perizoma filiformi e nulla più, qualcuno di loro aveva qualche strano ornamento, tipo collari introno al minuscolo membro annegato nei muscoli artificiali, collari legati a catene dorate che terminavano direttamente nelle mani inanellate del maestro o delle sue padrone inguainate nel lattice lilla.

I controllori erano posizionati a schiera coprendo i due lati della parata, davanti e dietro vi erano altre file formando così un rettangolo di protezione.

Il maestro, vestito di un rigido cono dorato che si restringeva alle caviglie e coperto da un berretto immenso, simile ad un polipo di taffettà che allungava le sue immonde zampe, sorrideva strafatto e salutava la folla drogata, il suo trono forniva aria alla massa, aria truccata con scopi precisi.

Quando il trono fu abbastanza vicino Chiodo balzò fuori dal tombino, aveva dieci granate nella borsa, residuati bellici di un defunto passato, ne lanciò due avvalendosi di ciascuna mano, e l’esplosione disperse la folla di pagliacci, poi si fece avanti mitragliando senza togliere nemmeno per un istante il dito dal grilletto dell’enorme fucile d’assalto che aveva imbracciato.

Quelle raffiche falciarono gran parte dei controllori, parecchi culturisti si erano spappolati in seguito all’esplosione delle granate, altri erano caduti sotto la letale pioggia di colpi, era curioso vedere come il loro corpi gonfi quasi non sanguinassero, al posto del sangue dentro di loro era rimasta solo la chimica e il silicone.

La scultura-trono cadde di lato in un tonfo ciclopico, mentre Chiodo si faceva strada cercando di afferrare il maestro intontito.

Nessun controllore riusciva a colpire Chiodo, si faceva continuamente scudo con altri corpi, finalmente riuscì ad arrivare a Gilles, che ancora non poteva credere a un simile, arrogante affronto.

Appena Chiodo ebbe modo di toccarlo il sangue accelerò implacabilmente il proprio flusso, non seppe trattenersi, gli mollò un pugno dritto nei denti con lo sdegno di chi vuole causare molti danni.

Il maestro emise un gemito femmineo, mentre nella ressa e la confusione Chiodo lo portava via strattonandolo e sparando a chiunque, c’era troppa folla.

“Non ce la farò mai!”

Sparò al conducente di un pulmino elettrico e vi montò su con il maestro, dopo il monopolio dell’aria furono aboliti i mezzi a carburante, sostituiti da quelli a energia elettrica, lentissime schegge inutili.

Era frustrante correre a quella velocità vergognosa, lo avrebbero raggiunto in un secondo con mezzi volanti, così si gustò un bel po’ di pestaggio percuotendo il maestro con crudeltà inaudita, sbattendogli la testa conto il vetro ripetutamente. Era felice, il suo sogno di una vita era all’apice della sua realizzazione, stava pestando quel porco di Gilles vendicando il mondo, scaricando tutta l’energia negativa che aveva accumulato nel corso degli anni.

Il maestro piagnucolava, era proprio come se lo era immaginato, un frocio impaurito e castrato.

Chiodo estrasse un antico revolver, stupendo, argenteo, luccicante, sparò in un ginocchio del maestro, poi a uno stinco, infine nell’inguine.

“Voglio che tu muoia senza aria, come gli arabi, come li hai fatti schiattare tu! Voglio osservarti boccheggiare porco schifoso!”

Il maestro piangeva, singhiozzava come un bambino bastardo che viene sgridato e piagnucola non per pentimento, ma unicamente per uscire indenne dalla sporca situazione.

Intanto la confusione regnava in ogni strada, tutte le autorità si erano mobilitate e inseguivano il terrorista che aveva rapito il capo dello stato, non riuscivano a bloccarlo poiché Chiodo si lanciava contro i posti di blocco come se avesse voluto sfondarli, e la prima cosa da salvare per le autorità era l’incolumità di Gilles.

Quasi mezzanotte, doveva resistere ancora un po’.

Fu una corsa sfrenata, dove a tratti Chiodo perdeva la sua coscienza, immergendosi in pensieri ieratici, stava per finire tutto, l’umanità cancellata da se stessa, e nessuno sapeva niente, anzi pensavano a salvare il colpevole principale di quell’aborto.

Il pulmino continuava la sua folle marcia senza meta, fino a quando non scoccò la mezzanotte, e il cielo si ghermì di imponenti fuochi d’artificio, esplosioni ovunque fecero tremare e crollare le sciocche, effimere costruzioni di vetro erette dai porci dell’umanità, e questo stava accadendo in tutto il mondo.

Il cuore di Chiodo si riempì di gioia, gioia feconda, galvanizzante.

“E’ l’ora, è l’ora cazzo, boccheggerai bastardo, boccheggerai come hanno fatto in tanti!”

Il cielo ormai era una nube di fuoco, ovunque ragnava il caos e nessuno tranne i membri reazionari sapevano cosa stava succedendo, la gente ignorava che di li a poco il genere umano sarebbe morto in una straziante agonia priva di ossigeno.

Chiodo guidò per un po’ tra fumo e vampate infuocate, voleva raggiungere il deserto fuori città.

“Guarda maestro del cazzo, osserva il tuo impero crollare! Pazienta, siamo quasi arrivati.”

Si fermò in mezzo al deserto scarlatto, già si percepiva nell’atmosfera la mancanza d’ossigeno, la testa cominciava a farsi pesante sotto una indicibile pressione.

“Hai capito finalmente stronzone cosa abbiamo fatto?”

E gli mollò un tremendo calcio in bocca, a Gilles mancava l’aria e cominciava a capire, osservava Chiodo con patetici, attoniti occhi. Anche Chiodo avvertiva la mancanza d’ossigeno e percepiva l’aria infuocata proveniente dalla città avvicinarsi.

Estrasse la siringa dalla borsa, con essa tirò su il liquido contenuto nella fiala e con decisione se lo iniettò nella vena del braccio, Gilles continuava a fissarlo, con il volto gonfio dalle percosse:

“Ti chiedi cosa faccio maiale? Uno come te non può immaginare cosa si farebbe per la vendetta, uno del tuo stampo non può provare sentimenti tanto forti, questo liquido mi brucerà i polmoni, ma mi consentirà di vederti schiattare contorto dall’asfissia, morirò in preda a dolori inimmaginabili, ma è un prezzo che sono disposto a pagare, non penso che tu possa capire, non me lo aspetto di certo, non temo il dolore nè la morte, no, non li temo perché oggi è il giorno più bello della mia vita.”

Il liquido cominciava a fare effetto, gli infondeva sensazioni di onnipotenza e strani stadi di delirio, intanto il mondo stava morendo, badando al dolore delle contrazioni polmonari e non alla riacquistata libertà che Gilles aveva avvolto in prigioni di plexiglas.

Chiodo si sedette comodamente osservando il maestro agonizzare, boccheggiava rosso in volto proprio come se l’era immaginato, strisciava sulle scorie polverose del deserto di metallo mentre si contorceva nei suoi ultimi spasmi di vita, finalmente morì e Chiodo spappolò quel corpo esanime crivellandolo di proiettili, poi felice volse lo sguardo verso la città in fiamme:

“Liberi, tutti liberi finalmente!”

Sorrise e cominciò a sentire il bruciore previsto, i suoi polmoni stavano prendendo fuoco incendiando il suo interno, si, stava prendendo fuoco proprio in quel momento e lo strazio lancinante glie lo faceva avvertire con chiarezza, diede un ultimo sguardo al corpo martoriato di Gilles e urlò per le fitte insopportabili.

“Ne è proprio valsa la pena!”

Pensò l’ultimo uomo della terra mentre bruciava.

 

Davide Giannicolo    

mercoledì 19 luglio 2023

Culo Smargiasso

 


Era un rovente mezzogiorno di Luglio e lei usciva dall’atelier Gardenia, sito in via Principe dei Liguori. Percorse a piedi la strada che la conduceva all’autolavaggio sgangherato dove soleva lasciare l’auto due volte a settimana. L’afa, nonostante il breve tragitto, la opprimeva, il sole ardeva implacabile, per questo aveva deciso di smettere con l’abito da sposa che stava preparando. Voleva andare in piscina, era lunedì, sicuramente non vi avrebbe trovato che qualche sfaccendato studente. Il suo era sicuramente un bisogno di quiete, relax, tutt’altro che folla e schiamazzi, in più il luogo a cui aveva pensato era abbastanza costoso ed elitario, sperava proprio di essere sola o quasi un volta arrivata. In quella stagione teneva sempre un costume da bagno in atelier, lo aveva già indosso sotto l’abito bianco attillato, un minuscolo bikini giallo mimosa con tanga filiforme, voleva un abbronzatura invidiabile prima di andare in vacanza, anche se in quella giornata afosa priva d’ombra in via Principe dei Liguori, le vacanze parevano vicine e allo stesso tempo lontane come un miraggio nel deserto.

Poco prima di entrare nell’auto lavaggio fu invasa da un tanfo nauseabondo, per terra, ai piedi dell’alto muro di cinta di un giardino, vide la carcassa putrescente di un gatto, la decomposizione in piena estate era agli estremi, il sole macerava il cadavere mentre mosche fuoriuscivano dalla sua bocca e un groviglio di larve si agitava pulsante nel ventre squartato del povero animale. 

La donna si tappò la bocca per evitare i conati di vomito e proteggersi dalla puzza orribile, si affrettò a raggiungere la propria auto scintillante, appena lavata, il profumo degli interni che esalava dai finestrini aperti la protesse da quella marcia immagine di poco prima, mentre il vecchio dai capelli argentei padrone del lavaggio prendeva i suoi soldi e le fissava con insistenza il culo. Non riuscì a resistere e le allungò una manata stringendo una natica con forza come fosse impasto di pizza. Il candore del vestito bianco fu striato da ditate nere di olio motore, era un immagine terribile, come un gabbiano insozzato dal petrolio o una colomba insanguinata. Lei si divincolò e montò in macchina sgommando verso la piscina di lusso che la attendeva, non sapeva di avere cinque dita nere stampate all’altezza del culo.

Aveva appena abbandonato il fantasma di una bellezza mai esistita, marcescente in via Principe dei Liguori, come il fiore di un dramma medievale che si sfalda divorato dagli afidi. 

Guidò per circa mezz’ora scegliendo strade tranquille verso il Vesuvio, zona residenziale, villette e poche macchine, musica elettronica rilassante, aria condizionata, occhiali da sole costosissimi. Un uomo in divisa da ufficiale nazista, col lungo giaccone di pelle nera e tutti i fregi le sbarrò la strada sotto il sole di luglio senza sudare minimamente, si trovavano in un viale alberato, deserto, gli alberi erano in fiore, le cicale cantavano una nenia ipnotica, maligna ed insistente simile al poema della pazzia. Estrasse una pastiglia di Pervitin dalla classica, accattivante confezione lunga e sottile anni 40 coi colori e il design della pepsi cola. Il Pervitin era una droga nazista, praticamente anfetamina, attua a rendere più feroci e intrepidi i soldati oltre che a sopportare ogni estenuante fatica, nel dopoguerra praticamente gran parte della Germania ne era dipendente. 



Naturalmente lei non sapeva niente di tutto questo, suonava il clacson coprendo il drammatico frinire delle cicale sotto il sole della controra, dove ogni genere di spettri, soprattutto nelle zone silvane, si manifesta peggio che a mezzanotte.

L’ufficiale rideva in maniera inquietante completamente fatto di Pervitin, si calò le braghe e cominciò a masturbarsi con forza e velocità in maniera quasi autolesionista, come a volersi scorticare il fallo.

“Culo smargiasso, fammi eiaculare tutta la mia putredine!”

Lei non resistette, in quel silenzioso viale alberato, deserto, ingranò la prima, accelerò più che potè e lo investì facendolo rotolare sul cofano, lo guardò rialzarsi dallo specchietto retrovisore, ancora coi pantaloni della divisa calati le inveiva contro con fare goffo e allo stesso tempo maligno, come creatura non appartenente a questo mondo.

“L’avrò anche investito, avrà anche preso la targa, ma questa è legittima difesa, quel pazzo voleva molestarmi! Ma che succede oggi?”

Finalmente raggiunse a San Sebastiano al Vesuvio l’esclusivo club, resort con sauna, massaggi e piscina  “Proserpina” dove era tesserata da qualche anno passandovi ore spensierate.

Il club era deserto, non vide neanche nessun membro del personale, si cambiò negli spogliatoi e raggiunse la parte all’aperto, spaccata a metà da un tanga suggestivo si aggirava intorno al bordo piscina ove non c’era anima viva. Un fiore bianco fluttuò posandosi sull’acqua, ancora lo spettro della bellezza e della morte si manifestava al suo cospetto.


Si tuffò in acqua rinfrescando finalmente il proprio corpo rovente, la luce del sole di luglio intanto, nel primo pomeriggio, giocava attraverso l’acqua trasparente con riflessi dorati, raggiungendo il fondale mediante dardi trasversali in luccichii sovrannaturali. Il silenzio subacqueo unito al frinire ipnotico delle cicale all’esterno, l’assenza di voci umane, di suoni che non fossero sciabordio oppure ondeggiare di foglie nell’aria immota, facevano galleggiare il suo corpo bruno e vezzoso nella bolla di un sogno. Uscì dall’acqua e già i raggi del sole le scottarono la fronte, si distese su uno dei tanti lettini che circondavano la piscina. 

“Il presidente l’attende nella grande sala interna signorina, quella riservata ai clienti più prestigiosi della nostra struttura.”
Non vedeva in volto l’ennesimo fantasma che le si era fatto avanti in quel deserto artificiale, a causa del sole accecante, che l’abbagliava dietro a quell’alta e snella figura di uomo adulto. Lo seguì all’interno, attraverso un’entrata scorrevole a vetri, dentro era fresco e confortevole, il tizio la condusse verso una porta enorme di legno massiccio, rossiccia come le foglie d’autunno, la spalancò e poi sparì lateralmente senza farsi mai vedere in volto. Al centro della stanza c’era un uomo completamente nudo, dal fisico potente, il volto coperto da una maschera da kendo, con le membra madide e scintillanti si esercitava con un Bokken, una spada di legno giapponese, i suoi movimenti erano lenti ma decisi, ripetitivi, quasi ritualistici, il sudore lo ricopriva fino ai genitali colando in gocce marziali sul pavimento. A troneggiare su questa figura, appeso alla parete, vi era un immenso quadro di Fortunato Depero, un dipinto Futurista intitolato “Nitrito in Velocità”. Ma anche questo lei non lo sapeva affatto, si limitava al batticuore di quella immagine suggestiva in tutto il suo insieme.


Il nudo schermidore ripose la propria spada di legno d’acero su di un tavolino di vetro dal design liberty dei primi del novecento, anche lì, accanto al simulacro d’allenamento, lei notò un astuccio di Pervitin, uguale a quello che aveva visto in mano al nazista contenente pillole dal dubbio effetto.
L’uomo le si avvicinò, con la maschera da kendo e i genitali pendenti, completamente sudato.

“Vorrei che il suo atelier Gardenia, perla splendente nel degrado di Via Principe dei Liguori in San Giorgio a Cremano, disegnasse, confezionasse e distribuisse in larga scala, le divise del nuovo Impero, dai soldati semplici agli ufficiali, fino a me, supremo generale, tutti dobbiamo essere vestiti con lo stile e la maestria delle sue mani affusolate.”


..Continua…

Davide Giannicolo


giovedì 6 luglio 2023

Frantumare il dolore

  



Carnivoro e carnale, il sogno mattutino di un’aggressione.

Corteo di Disciplinanti dai volti incappucciati, niveo, eburneo candore, maculato da zampilli di sangue scarlatto.

Indugiano sul crinale d’un talismano infranto, tra la luce delle fiaccole ed il tetro silenzio, supplizio auto inferto, sangue che gronda in rivoli lenti.

Solo la violenza può frantumare il dolore; seppellirlo nella carne, come fosse anima nascosta.

Davide Giannicolo



sabato 24 giugno 2023

Petricore




 Il petricore m’assoggetta a dolci malinconie.

Giardini di rose dalla terra secca.

La finestra d’un castello.

Davide Giannicolo

venerdì 19 maggio 2023

Braci

 


Parlo le mille lingue del sortilegio.

Assiso sulle braci ove dimora la vendetta.

Davide Giannicolo

mercoledì 3 maggio 2023

Morire a Mostaganem

 



Morire a Mostaganem, come Pètrus Borel, lasciandosi andare al sole, circondato dall’ambiguità di maligne bellezze, mentre lontano ridonda il mare col roboante affanno delle onde.

No, se fossi lì preferirei una rissa algerina, con coltelli, denti spezzati e cocci di bottiglie ad affondar nelle carni.

Morire in via Alveo Farina, dove non mi sono mai addentrato, se non fino al ponte, sempre quel dannato ponte, ove scorrevano le auto dei viandanti, per andare chissà dove, mentre io restavo fermo, come un animale spaventato dai fari.

Forse lì sono già morto, e vi aleggia il mio fantasma, su e giù dal ponte al club mediterraneo, alla cabina telefonica a cui strappai la cornetta e che probabilmente non esiste più.

Solo che vorrei proseguire, non temendo Pellellera, anzi andandoci a braccetto, in un pomeriggio di sole.

Poiché sotto l’alveo Borbonico detto miseramente Lagno, scorre la fonte che scende direttamente dal Vesuvio, sotterranea, ha per forza infuso in me parte di essa, ed è per questo che ne sono così attratto. 

Una volta giunto alla Benedetto Cozzolino tornerei indietro, porgendo un mazzo di fiori gialli e selvatici a Pellellera, restituendo tutto alla realtà, insieme al suicidio temporaneo del mio testamento di Poeta.

Poi partirei, forse, per Mostaganem, sperando un giorno, di poter tornare, magari con qualche cicatrice in più.

Davide Giannicolo

A San Giorgio a Cremano e Pètrus Borel.



giovedì 23 marzo 2023

Vendetta

 


La vendetta sopraggiunge come un lupo affamato che gratta alla tua porta in pieno inverno.

Ti morde le viscere e sa dove sei. 

Sempre.

Davide Giannicolo 

domenica 26 febbraio 2023

Sangue e Violenza nella Cattedrale

 


Capitolo Primo: 

“Caroline-Louise-Victorine Courrière”


Erano passati due mesi dal massacro compiuto nei bassifondi da Gran Garrota alla Vigilia di Natale. Il canonico Dagger non aveva potuto coprire quell’atto folle, visti i suoi continui tentativi di mantenere la setta satanica e le sue attività illecite nell’anonimato. Gli aveva dunque voltato le spalle insieme a Fravaglio di Triglia e gli altri. L’unica persona disposta ad aiutarlo, dandogli rifugio alla sua villa isolata, era Victorine, una francese infognata nell’esoterismo, praticante di sesso necrofilo e succubato, ex membro della setta del prete scomunicato e anche sua ex amante.

Se ne stava sul divano del salotto circondata da opere d’arte moderna dal dubbio gusto e la difficile comprensione, astratti dai colori isterici sparsi su tele gigantesche e sculture dalle geometrie non comuni. Era nuda, con la vulva ancora impastata dal seme di Gran Garrota, sotto di lei uno strato di ostie consacrate che faceva rubare a posta nelle chiese vicine dalla sua domestica, gli piaceva farsi possedere così, tra le ostie, calpestarle col suo corpo sudato dissacrando in questo modo blasfemo, coi suoi fluidi organici e la lussuria immonda, la santità della comunione e con essa il metaforico corpo di Cristo.

Entrò suo marito, noto cornuto consenziente, non badò affatto a Gran Garrota, anche lui nudo, colossale, che si puliva il glande tra i capelli biondi di Victorine, moglie malata di mente da lui appoggiata in tutto.

“Vado in centro cara, hai bisogno di qualcosa?”

Disse il cornuto, la donna non rispose, mentre giocava con lo scroto di Gran Garrota massaggiandogli le enormi palle pelose.

“Sono stanco di starmene qui nascosto!” Asserì il gigante ignorando il marito della sua protettrice che lasciava il salotto con rassegnazione.

“Lo sai che fai veramente schifo Victorine? Con queste ostie tutte appiccicate addosso insieme alla mia sborra? E quel cornuto mi fa più schifo di te!”

“Me lo hanno detto spesso e in tanti!” Disse la donna ridendo, prendendo entrambi i testicoli in bocca in un sol boccone, era matta da legare, lo si vedeva nell’abisso malato dei suoi occhi. Risputò le palle sorridendo come una ragazzina pazza:

“Devi startene qui buono, dopo tutto il casino che hai combinato alla vigilia, mezzo quartiere ha dato una tua dettagliata descrizione, hai lasciato il tuo lavoro di copertura in fabbrica destando ancora più sospetti, ma d’altronde non potevi fare altro; quelli della setta, di cui tra l’altro non eri membro ma solo un manovale assassino e rapitore, ti hanno chiuso tutte le porte, ti resto solo io dunque mio caro, solo la tua Victorine e quel cornuto di suo marito. Sono il tuo unico rifugio, Ti svuoterò queste palle come fa una vampira col sangue, questa notte ti mostrerò come faccio a fare sesso coi fantasmi tramite il succubato, al quale mi ha iniziata lo stesso Canonico Dagger quando eravamo amanti.”

Gran Garrota sospirò strozzando momentaneamente Victorine con la propria verga ritornata dritta e liscia grazie alle manovre di quella pazza, lo stava spompando da mesi con ninfomania irrefrenabile. Era proprio nella merda nelle sue mani, prigioniero in quella villa, malediceva la Monaca grassa della setta, quella che aveva abbandonato l’abito condotta sulla cattiva strada dal Canonico Dagger, era stata proprio lei a presentargli la folle e insaziabile Victorine.

...continua

Davide Giannicolo



domenica 19 febbraio 2023

Antares

 


Oh Antares

Rosso cuore dello Scorpione

Che arde impetuoso nelle sue turbolenze fiammeggianti.

Stella fulgente, magnifica, luminosa più di tutte.

Scorpio non nasconde il suo cuore, gioiello di fiamma e ardore.

Solo tu conosci i segreti della mia anima.

Tu e nessun altro ne rispecchi il tumulto nell’alto degli astri.

Brucia oh Antares, come fiammeggia il mio cuore impetuoso.

Eterna, bellissima, nelle lontananze siderali del cosmo.

Rosso, sanguinante cuore dello Scorpione.

Sole dell’anima senza eguali, 

Fuoco sospeso nell’oscurità.


Davide Giannicolo



giovedì 9 febbraio 2023

Testa di Morto



 La vedova indugia dinnanzi alla lapide del marito, è un pomeriggio dal cielo terso, solleva la gonna e sposta di lato le mutandine di pizzo nero. È morto recentemente, poco più di un anno. 

La vedova, puttana triste vestita a lutto, svela una vulva dal pelo nero, allarga le grandi labbra con due dita a forbice, s’inarca mostruosamente.

Il rosso vivo della fessa sembra una bocca sanguinante nella pelliccia corvina del pube, espelle un getto veemente, dorato. Zampillo volgare di piscia imbratta la lapide, proprio sul ritratto del defunto.

Il mio cielo un tempo era terso, adesso sono pieno di perturbazioni, questa scena è una di quelle nuvole plumbee.

Nasce Testa di Morto, non senza travaglio e dolore.

Testa di Morto è nato, tremendamente assetato; non somiglia a nessun altro se non a sé stesso.

Giunge l’amante della vedova, incubo che cammina, poiché non sa in che guaio si sta infilando, perché é ovvio che qui di infilare si tratta.

Tra le mutandine di pizzo, la vulva nera di pelo tagliente tanto da provocare scosse al glande più calloso, viene riempita.

Il cielo terso improvvisamente s’oscura. 

Nevica.

Grigia bufera si staglia all’orizzonte, non c’è cosa che non muoia. 

Una mano sorge dal terreno in prossimità della lapide, afferra la fica, Testa di Morto sorge, l’amante viene sgozzato, mentre la vedova cavalcandolo impazzita ridiviene una corvina adolescente con le trecce.

Nevica.

Il candore della neve cela lentamente, lieve, il sangue e l’orina.

Testa di Morto è nato ed è già coperto di sangue. 



*

Spostiamo la scena in un appartamento. Degli uomini giocano a carte, una biondina, sola nel letto sonnecchia, si sente trascurata dal suo ragazzo che spesso ripete questa pratica fino a notte fonda. Percepisce qualcosa, o meglio qualcuno, strisciare sul suo letto, un uomo le accarezza lascivamente il corpo, le sfila le mutandine e ora fruga tra i peli del suo pube fulvo, è nudo e indossa una maschera di teschio il cui biancore rifulge nella penombra. La ragazza ansima, immobilizzata dal terrore, come il cadavere d’una giovane donna ricoperto da diafano sudario. Chi è costui? Uno degli amici si è infilato furtivamente nel suo letto dissacrando la lealtà del suo uomo? Profanando così, in questo modo esecrabile e infimo, la sua ospitalità tradendo il compagno?





Come se lo spettro lussurioso avesse udito i suoi pensieri ella sentì un sussurro roco, seppure ammaliante, provenire da sotto la maschera.

“Io sono Testa di Morto e questo è il mio turgido osso, spargerò su di te il mio seme, essenza di fiore bianco.”



Sentì di essere penetrata, non oppose resistenza, restò buona come se fosse minacciata da un’arma, una pistola alla tempia o un coltello alla gola che la costringevano ad assoggettarsi senza fiatare, cosa non vera, lo sconosciuto  non brandiva altro che le carni frementi di lei e la sua bocca veniva tappata, riempita, non da un ferro o da una mano inguantata, non dal fazzoletto imbevuto di cloroformio, ma alternativamente da una lingua sinuosa e un membro soffocante. Invadenti, irruenti tanto da spingersi fino alla trachea, costringendola a poppare, ipnotizzata da un incantesimo di lussuria inconfessabile e rassegnazione giustificante l’esplosiva eccitazione di quell’atto proibito che in realtà le ardeva nel ventre come un incendio, facendo lacrimare la sua vulva, fradicia come una spugna, di tumultuoso desiderio.



 La bionda passiva gemette lasciandosi scuotere da ritmici e sapienti colpi di reni, osò allungare una mano sulla schiena della Testa di Morto, un altra afferrò un gluteo, attirando a sé quel corpo massiccio come a voler contribuire alle sue spinte, rompendo la passività della stregoneria in atto, facendosi fottere sempre con più veemenza. La carne nelle sue mani era reale dunque, non si trattava né di sogno né di allucinazione, venne, facendo colare una pozza dalle cosce spalancate alle lenzuola. Il seme di Testa di Morto fu poi sparso sul ventre di lei, unguento che realmente portava con sé lezzo di fiori da cimitero, bollente, in quella fredda notte di gennaio, ardente come metallo fuso sulla carne infreddolita. Il pelo del pube fulvo ne era completamente imbrattato, impregnato come la punta di un pennello pronto per la tela.

L’uomo s’alzò dal corpo di lei, sfilandosi dalle gambe allargate e fradice di fluidi corporei, ella restava immobile, muta. Il Teschio dalla stazza colossale aprì la finestra, senza voltarsi.

Sparì lasciando nella camera da letto il gelo della notte. Nell’altra stanza si udivano ancora le voci degli uomini che se la spassavano.

Davide Giannicolo




venerdì 3 febbraio 2023

Foglia d’acero



Una foglia d’acero sul dorso dello scorpione.

Una carezza, un’illusione.

Scroscio di pioggia d’autunno che muore.

Un filo di ragno ove danza l’ossessione.

Fantasmi di sogno accoltellano la veglia, megere d’avorio, polipi di diaspro.

Una foglia d’acero, fradicia, che muore.

Carezza viscosa, brivido, illusione.

Lo scorpione divora il ragno d’ogni ossessione.

Davide Giannicolo 

venerdì 27 gennaio 2023

Picnic (Sogno di Luna Rossa)



 Qualcuno ti ha sottratta al nano ambrato,

Marito Bengalese, 

In questa umida notte di luna rossa.

Sulle ali di un sogno agitato ti porta a un picnic in pieno sole, su un prato verde.



D’un tratto il cielo s’annuvola e diviene scuro.

Verghe, ibridi tra funghi, fiori e cazzi sorgono lentamente dai ciuffi d’erba in una danza sinuosa.

Frugano nelle tue mutandine,

Rovistano nella tua fica rossa e aperta  come una ferita, 

depongono spore nella tua bocca, 

si strusciano sulle tue mani,

 irrompono dentro te.



L’organista irrequieto ed inetto più in là sanguina chiuso nel tempio funesto dell’ipocrisia.

Piove

Su di un lago di sperma che cela mostruosità indicibili.

Ti risvegli madida

E sospiri.


Davide Giannicolo



sabato 14 gennaio 2023

Dungeon Villain

 



Facciamo del Trash Talking oppure un po’ di Stalking?

Ti penetro

Nel feretro

Mi sento un po’ sul baratro.

Teschio di Diamante 

Magico e potente

Te lo mette in culo 

immediatamente.

Il pomo della spada

Fa una stregoneria

Brucia le tue viscere 

ti manda in agonia.



Ci sono ricchioncelli in stile Dungeon Synth.

Meglio non li veda il Capitano Flint.

Il nano nella torre 

Sa che il sangue scorre.

Ho borchie e pelle nera

Per l’elfa della sera

pallida ed altera

Come una bomboniera

Le rompo la cerniera.



Scheletro in armatura di te non ha premura,

Spada maledetta tagliamene una fetta.

Il Goblin nella grotta

Ti stupra e ti ricatta,

Di viscida pozione poi t’imbratta.



Teschio di Diamante

Magico e potente

Ti farà del male

Reiteratamente. 

Ci sono ricchioncelli in stile Dungeon Synth.

Meglio non li veda il Capitano Flint.

Davide Giannicolo