mercoledì 29 dicembre 2021

Kazzentstein

 


Dopo un anno di recluso ermetismo e seriosi slanci trascendentali l’autore torna coi piedi per terra e ha deciso di chiudere l’anno, iniziando il nuovo, con un po’ di ironia, sesso esplicito e atmosfere malate, rivisitando alcune figure classiche dell’orrore in chiave pornoerotica condite  dal suo stile peculiarissimo e folle. Buona Lettura da un momentaneamente rinsavito Davide Giannicolo.


Victor era ormai fuori controllo, assumeva massicce quantità di laudano e lo si vedeva di notte nei cimiteri accompagnato da loschi e torvi manovali. Quando era da solo nel suo laboratorio non era mai in sé, sempre strafatto e allucinato all’ennesima potenza. Stava assemblando pezzi di cadavere, passatempo strano come direbbe qualcuno, ma ancora più strano era il fatto che all’essere umanoide cui stava dando forma il dottore aveva equipaggiato un fallo di proporzioni a dir poco fuori norma, quella mostruosità nera e asinina faceva contrasto col pallore del corpo dai toni cadaverici, la cucitura all’altezza del pube, inoltre, rendeva il membro equino ancora più inquietante. Il morto disseminato di punti di sutura, di statura imponente, se ne stava disteso sul tavolo anatomico da dissezione in una piovosa notte di novembre. Fuori imperversava la tempesta, i tuoni si schiantavano contro la grata in ferro del laboratorio come colpi di dissenso lanciati dal Creatore. 
Il dottore iniettò nel cuore putrefatto di quell’orrore innominabile un siero di sua creazione, un misto di ormoni, steroidi e anfetamina di proporzioni blasfeme, capace di far crepare di infarto il tossico più scafato o il culturista più esagitato. Immediatamente il corpo del cadavere si gonfiò mosso da un tremito innaturale, la prima cosa che si issò, svettante e minacciosa verso il soffitto fu quell’enorme cazzo nero attorcigliato in vene turgide da palestrato dopato; poi gli occhi del mostro si aprirono, rossi e striati di nero come il diaspro. 
Il colosso si alzò in piedi, maestoso, col membro puntato in avanti, duro come la roccia. Minaccioso in tutta la sua gigantesca statura avanzò verso il suo creatore, che allibito dall’orrore invece indietreggiava ad ogni passo del titanico cadavere riesumato.


La creatura parlò, non disse “padre” o “madre” né nulla del genere, le sue parole, aggressive e cavernose, esprimevano al tempo stesso un bisogno, un ordine e una minaccia:

-Kazzinzizzen- Egli disse avvicinandosi sempre più.

Victor non capiva, non ricordava bene dove avesse preso la testa e il cervello di quell’essere, in verità non sapeva neanche cosa cazzo intendesse fare con quel pupazzo di carne, non ci capiva molto in quel periodo di rincoglionimento drogato e letture necromantiche, poi ci si era messo pure il gas cadaverico emanato dalle tombe scoperchiate a fottergli il cervello del tutto.

-Io volere fottere-

Ecco adesso Victor aveva capito, aprì un baule e vi estrasse a fatica un cadavere, un bel cadavere di donna bionda dalle grosse tette, a parte il colorito giallastro era niente male, Victor estrasse la bambola di carne inerte dagli arti spenzolanti e inanimati dal baule facendole sbattere la testa molle sul pavimento.



-Ecco a te- disse sorridente il dottore alla sua angosciante creazione, omettendo il fatto che il cadavere era un po’ usato ed egli stesso ne aveva usufruito per tre giorni avendolo eletto a sua compagna. La solitudine è brutta anche per un luminare impazzito, ergo, la morta era già bella gonfia di sperma.

-Io volere fica viva, questa puzza-

Il mostro si stava incazzando, e quel fallo enorme non la smetteva di puntare contro Victor come una spada pronta a trafiggerlo.

-Tu dato me insaziabile fame di sesso e violenza, io non resistere-

Victor si portò una mano alla fronte in segno di disperazione.

-Iniziamo bene, già con i vizi, non ti ho neanche dato ancora un nome-

-Kazzinzizzen- 

Questa volta questo tetro motto si espresse in un ruggito e il mostro colpì il dottore con un manrovescio brutale che lo catapultò contro la parete facendogli perdere i sensi. Intanto qualche scarafaggio fuoriusciva dalla vulva grigia della donna cadavere.

-Io volere fottere donna viva-

Il mostro, nudo, col fallo dritto come una sbarra, sfondò la grata e si lanciò senza pensarci due volte nel buio della notte striata dal blu dei terrifici lampi. Libera, immonda creatura in piena caccia.



*

Quando Victor rinvenne e si accorse che l’essere da lui creato(senza il minimo criterio logico tra l’altro) era scappato ed ora era libero e incustodito nelle strade, fu preso da forte panico e ansia. Allora si sparò dritto nella carotide un altro dei sieri fluorescenti di sua invenzione e si sentì subito meglio. Nessuna donna poteva sopravvivere a uno stupro della creatura, neanche la più slabbrata delle prostitute. D’un tratto il dottore ebbe un idea, iniettò lo stesso siero che aveva dato la vita alla creatura nel corpo della cadaveressa che giaceva sul pavimento. Lo stesso gonfiore scosse quelle membra morte, poi una nidiata abbondante di blatte scappò dalla vagina nella quale gli immondi insetti avevano fatto il nido, fu una veloce, disgustosa macchia nera e zampettante che si dissolse in ogni angolo del laboratorio. 



La morta aprí gli occhi, lentamente si alzò in piedi, i seni grossi e grigiastri, le natiche statuarie d’un pallore mortifero, gli stessi occhi rossi di diaspro di suo fratello.

-Io volere fottere- Disse la bella risorta.

-Ecco, ci risiamo!- Pensò Victor e cominciò a denudarsi, visto che non trovava altra soluzione, e poi detto tra noi la morta, come ho già accennato, era veramente ben fatta.

Si accoppiarono, tutto andò bene durante i preliminari, una fellatio veemente, baci lussuriosi, succhi e risucchi da ambo le parti, la cadaveressa ci sapeva fare sul serio. Al momento della penetrazione però la morta si fermò, dopo qualche spinta convulsa provò a montare sopra, a cambiare orifizio schiaffeggiandosi l’ano col membro umido del dottore, ma niente, c’era qualcosa che non funzionava.

-Non andare bene così, io volere grande batacchio, io non sentire niente con tua piccola carotina!-

Che offesa, che smacco, rifiutato anche dalla morta!

Un lampo blu illuminò la stanza, seguito da un tuono che fece tremare le pareti, mentre Victor, nudo come un verme, si lasciava cadere afflitto, in ginocchio sul pavimento di pietra gotica.




*

Fortunatamente la creatura maschio tornò all’ovile, inseguita da un orda di contadini incazzati armati di forconi e fucili a doppietta, il mostro era riuscito a chiuderli fuori dal laboratorio. 

Era tutto ricoperto di sangue, in paese aveva compiuto un evidente macello.

-Io preso giovane ragazza mentre dormiva, sventrato lei con mio grande bastone e sfondato anche letto, uscito molto sangue e lei morta, allora io provato con sua grassa madre culona, durato un po’ di più anche se lei paura dopo piaciuto e detto me ancora più spingere, ma appena spinto più a fondo fino a radice di mie palle gonfie sue budella scoppiate e uscito altro grande getto di sangue come fontana impazzita o tubo rotto, provato altre sei volte con donne di ogni taglia ed età, no bambine però, bambina non piace me, io tentato anche altri buchi, gole strozzate da mia enorme bestia, culi allargati a sangue, pance squarciate, tutte morte, io fatto strage, ora tutti morti, perché tu creato me così? Padre cattivo tu vuoi mio dolore, ora uomini arrabbiati con me, sparano e bruciano con fuoco, è colpa tua.-

La morta lo guardava estasiata, come se avesse visto l’amore della sua vita e forse così era.

-Lui, sì proprio lui, andare bene per me con grande clava nodosa, vieni gigante, vieni da me, io scoppio di voglia, entra dentro me con tuo enorme ariete!”

Il mostro non se lo fece ripetere, ignorò la sua tristezza e quei coglioni bifolchi di fuori. Si avvicinò alla bella cadaveressa con la bava alla bocca.

Fu un amplesso furioso, violento, senza precedenti, ogni posizione fu sperimentata, ogni appetito, anche il più sordido e inconfessabile fu saziato. Carne morta strisciava su carne morta, mani ruvide su seni e natiche grigi, salive verdi intrecciate e colanti, poi un urlo, un orgasmo disumano, si propagò in un onda sonora che pareva un’esplosione diabolica.

I contadini a quel suono scapparono senza guardarsi indietro, convinti che la porta dell’inferno si fosse appena spalancata liberando orde di demoni, invece quello non era altro che il grido d’estasi dei due mostri.

Victor intanto era già da tempo sgattaiolato dalla finestra senza essere visto, si allontanava, tutto nudo tranne che per il camice bianco, goffo e grottesco come un sorcio azzoppato, non aveva assolutamente intenzione di assumersi la responsabilità del casino che aveva combinato.

Davide Giannicolo

 



mercoledì 22 dicembre 2021

Illusione

 



Soave illusione è il sogno ad occhi aperti, 

consolazione effimera e fragile,

fino a che non sopraggiunge

il requiem straziante del disincanto.

Davide Giannicolo

lunedì 13 dicembre 2021

La cravatta di Nerval



 Non so perché associo sempre il kebab alla Muay Thai che ho praticato scelleratamente per un mese procurandomi odio, vendetta a venire e un occhio nero. Lo scrivo mentre un nero rissoso del Mali sbircia curioso sul mio foglio. Forse perché quando vado in questi posti per farmi un panino, anzi due perché uno non mi basta, in mezzo a questi brutti ceffi e vagabondi, mi viene sempre voglia di fare a botte, sarà l’afrore della carne e dei contorni, che ricorda gli spogliatoi di una sgangherata palestra arabo-francese.

Nessuno vuole servirsi della cravatta di Nerval, così diceva pressapoco Isidor Ducasse che però morí a vent’anni.

Impiccarsi di notte a un cancello nei bassifondi di Parigi.

Piccoli castelli di Boemia o ruderi abbandonati nei paesi vesuviani, che differenza fa?

Meduse di diaspro che braccano il solingo passante al crepuscolo autunnale di campagne brulle.

Sapore d’hashish sulla bocca sitibonda di vino rosso.

Nessuno vuole servirsi della cravatta di Nerval, eppure hai chiuso Mervyn in un sacco di tela e lo hai sbattuto tre volte contro il muro secolare di un ponte della Senna, regalando il fagotto a un macellaio, spacciandolo per un cane rognoso  da sopprimere.

Piccoli castelli di Boemia o spettri nella circumvesuviana che differenza fa?

Ragazzini dal pallore cadaverico dei collegi o delle manifatture, accorrete ad ammirare il vostro corsaro dai capelli d’oro prima che un angelo nero venga a rasare quei boccoli in un’ultima, definitiva metamorfosi.

Sarà davvero così o Maldoror continuerà a mutare facendosi beffa della morte?

Nessuno vuole servirsi della cravatta di Nerval, eppure ne ho visti tanti, morire a vent’anni, senza aver mai ammirato un piccolo castello di Boemia. 

Davide Giannicolo

domenica 21 novembre 2021

Scorpione

 


Scorpione obnubilato dalla tua stessa cuspide.

Ira malevola che avvelena l’anima.

T’attenderanno famelici attimi di tetro dolore smarrendoti nel giardino delle Esperidi, riconoscendo in Era scissa dal pianto il catasterismo di Ladone.

Del suicidio leccherai i frammenti di liscio opale, centellinando la bellezza e tramutandola in fortezza.

Cuore di scorpione, rosso, sul fondo delle acque calme e solinghe che la notte tramuta in stella riflessa.

Guerriero di Marte mai domo, silente, strategico ma non privo di coriacea armatura e attacco brutale.

Scorpione che bruci nel tuo stesso dolore, che dagli abissi di ogni passione oscura risali invitto, 

spaventi chi ti osserva, 

ma è impossibile non rimanere incantato dinnanzi al fascino della tua nera poesia,

fatta di specchi di sogno e chiarore lunare su acque tremule .

Davide Giannicolo




giovedì 21 ottobre 2021

Inchiostro

 

Vorrei che l’inchiostro dei miei scritti, 

vivo, 

come lo sputo del polpo dallo sguardo di seta di Lautrèamont, 

strisciasse nottetempo dalle pagine dimenticate,

così da attorcigliarsi furtivo intorno ai tuoi capezzoli,

 tappandoti la bocca improvvisamente desta, 

solleticando il tuo clitoride, 

scavando dentro te, 

facendo scoppiare nella tua testa una pioggia di diamanti.

Davide Giannicolo




domenica 17 ottobre 2021

Catasterismo

 


 
Mi innalzo al cielo dando fuoco alle scevre geometrie della realtà.

Catasterismo dell’eroe martirizzato che brucia su sé stesso fino a divenire astro fulgente.

Distacco, albagia, nuova vita che assurge a eterno splendore.

Lontano il vile umano contempla la mia bellezza senza comprenderla, impotente anche nell’immaginarla, impaurito, estasiato dal mio fuoco azzurro che illumina le costellazioni lattee, non potrà mai sfiorarlo nemmeno in mille vite.

Glauca e silente la scia dell’ascensione segna il cielo notturno come cometa inversa affinché io lasci questa terra così da poter dimorare in eterno tra le stelle invitte.

Poema invisibile a occhio umano, adagiato sulla cuspide munifica della costellazione di scorpio.

Trascendo, muto, assurgo a pura luce accanto ad Antares, m’innalzo in uno strascico di pura luce, pioggia fluida di diamanti incandescenti che erompono.

Lascio questa terra, stella in catasterismo, per mai più ritornare.

Abbandono il fango, l’inezia, il vacuo parlare, divengo fuoco astrale, brillo di pura bellezza, per non far mai più ritorno.

Davide Giannicolo



sabato 2 ottobre 2021

Crescendo di Lame Capitolo Primo

Crescendo di lame

Di Davide Giannicolo

 

Atto I

 

Varcò la soglia della nobile casa con passo solido ma allo stesso tempo elegante, quasi femmineo.

Alla vita portava due spade, completamente nerovestito tranne che per gli spallacci argentei, lanciò il suo sguardo verso il signore della casa, che sedeva esterrefatto dinnanzi alla sua tetra, ritta figura.

“Sono Necro Delle Lacrime, giungo fin qui da remote terre unicamente al fine di uccidere le tue sei figlie!”

 

Il silenzio fu attraversato da un soffio di vento, fuori le foglie danzavano quiete.

Il padrone di casa si alzò di scatto, furente, rosso in volto:

“Come osi portare la follia tra le mura della mia casa? Sei solo un lurido pazzo!”

 

Necro sorrise, i suoi occhi riverberavano una strana luce, un lucore maligno, come quello che arde negli occhi delle bestie in procinto d’attaccare.

Silente si lanciò in avanti, durante la corsa estrasse la spada più corta che gli pendeva in vita, trascinando con sé un attimo dopo il corpo trafitto dell’uomo che aveva osato sbarrargli la strada.

 

Attirati dai rumori della lotta giunsero sei uomini, i mariti delle donne che Necro Delle Lacrime bramava assassinare.

Uno di loro, un giovane impavido, brandiva una spada larga, fronteggiava spavaldo il nero guerriero che di rimando lanciava folli sorrisi ai nuovi venuti.

“Qual è la genesi della tua strage? Perché vuoi immolare le sei nostre mogli?”

L’intruso dal volto pallido calò la spada corta all’altezza della coscia in una ingannevole e salda postura d’invito, la sua guardia era completamente scoperta, il suo gelido sorriso non mutò nemmeno per un istante:

“Se il passo non mi verrà ceduto, cadrete tutti come canne piegate dal vento, tutte le donne di questa contea devono morire, ed è solo l’inizio!”

 

Necro si lanciò contro l’uomo, abbattendo la spada sulla sua testa, come fosse una mazza di ferro che vibra in una leggiadra movenza; estrasse poi la seconda spada, lunga il doppio della prima, con entrambe le armi issate sopra la testa si scagliò contro i cinque restanti mutilandoli con sanguinaria furia omicida.

Presto si ritrovò ricoperto di sangue mentre in terra giacevano pezzi di cadaveri immoti.

Cercò lungo i corridoi della grande casa, presto trovò tutte e sei le donne, l’una raccolta nelle braccia dell’altra, inermi, spaventate colombe.

Ne afferrò una per le chiome nere e le recise la gola di netto, le sorelle liberarono un grido disperato, monotono, acuto, semplicemente agghiacciante.

Le maggiori tentavano di schermire coi propri corpi le minori, portando le braccia in avanti, implorando la fine di quel truculento rituale; ma impassibile il fantasma nero che aveva fatto irruzione nelle loro stanze penetrò le sue lame in quei morbidi ventri.

Quando furono tutte e sei morte, giacenti bianche e insanguinate ai suoi piedi, Necro slacciò i propri spallacci dalla giubba, poi si liberò anche di quella, mostrò un torso massiccio, solcato da centinaia di cicatrici, sfilò dallo stivale destro uno stiletto d’argento, con la punta di esso si praticò sei ferite sul petto, sì, portava sulla pelle il segno delle donne che aveva mietuto.



*

 Camminava lungo  le campagne desolate nottetempo, ricordava gli eventi del giorno, le donne urlanti, gli uomini mutilati, la cosa non appagava i suoi sensi, poiché era un oscuro fuoco quello che alimentava la sua follia omicida.

Ricordò una donna lontana, bella come un fiore bianco che rifulge nella notte.

La brezza notturna avvolse il pallido volto di Necro, avanzò nutrito dalla propria ossessione, una fantasmagoria che lo teneva in vita.

Poco distante dal sentiero, scorse una fanciulla cogliere fiori di campo.

“Che cosa singolare” pensò “A quest’ora dovrebbero incontrarsi solo spettri, demoni o lupi, e invece guarda chi mi manda la luna? Una ragazzina!”

 

Necro sorrise avvicinandosi alla ragazza:

 

“Vedo forse un fantasma?”

 

“No signore!”

 

“Hai sorelle?”

 

“No signore, perché me lo chiedete?”

 

“Nulla bambina, nulla…”

 

Necro aveva già sguainato la lunga spada, issandola sopra la propria testa, lo sguardo folle, acquoso, come rapito da una estatica trance, il ferro calò, abbattendosi sul fragile cranio ricoperto di biondo crine, la testa si spaccò immantinente facendo esplodere abbondanti schizzi di sangue al chiaro di luna.

L’aveva abbattuta così come si fa con una bestia al macello, e questo era pienamente nel suo stile.

 

“Sei un uccisore di donne? È per questo che brandisci due spade codardo?”

 

Necro ebbe solo il tempo di vedere un volto coperto, poi dovette indietreggiare al fine di parare un agile, ripetuto attacco mirato alla sua testa.

Seguì una lotta ardua, serrata, veloci fendenti parati e respinti non davano spazio al riposo, nessuna falla s’apriva nelle reciproche guardie.

Giunse l’alba, e Necro, intriso di sudore, riuscì a spappolare la carotide del suo nemico con un affondo di punta.

Affannando il tetro vincitore si chinò sul cadavere in armatura, slacciò l’elmo ammaccato dai suoi stessi colpi, lentamente lo tirò via dalla testa abbandonata nell’inerzia della morte.

Una chioma lucente, corvina, si distese soavemente sull’erba macchiata di sangue.

 

Si trattava di una donna, e il suo volto, stretto adesso tra le mani tremanti di Necro, appariva orribilmente familiare.

Era il volto della donna che anni prima aveva sfigurato, ancora sublime nonostante l’orribile menomazione.

Folle di gelosia aveva compiuto il fatale gesto, poi partì per terre lontane giurandole:

 

“Ucciderò ogni donna, così che non soffrirai la tua bellezza perduta!”

 

Che folle proposito il suo, e adesso eccola, la sua amata, da sua stessa mano trucidata, colma di rancore verso di lui, pronta ad ucciderlo o suicidarsi nel tentativo.

 

Necro pianse su quel corpo esanime, ore dopo, straziato dal dolore, si decise a seppellire i resti, sotto le luci di un freddo sole rosso.

Lentamente, terminata la sepoltura, si inginocchiò accanto alla tomba, affondò con risolutezza la punta della spada nel proprio addome, dandosi così la morte, gorgogliando lentamente tra gli spasmi del dolore, che egli stesso più e più volte aveva inflitto ad altri senza indugio.....CONTINUA

 




lunedì 20 settembre 2021

Sortilegio



 Non fermiamoci, tiriamo dritto, verso l’idillio vissuto fino a ieri.

Era un sogno, un illusione dici?

Non è forse questo il sortilegio tagliente?

Non svoltiamo verso quel luogo popolato da fantasmagorie inanimate, ti prego, andiamo dritto verso lo zaffiro, lasciami accelerare.

Tutto è sogno, tutto è realtà, vai pure dritto, 

sarà l’autunno a decidere per noi e le sue foglie marce ci faranno slittare mortalmente fuori strada.

Non mi interessa, anche se sarà grigio.

Andiamo verso lo zaffiro, affondiamo nel glauco sortilegio;

lontano da quelle fantasmagorie inanimate.

Davide Giannicolo

domenica 12 settembre 2021

Vacanza Settembrina di un Poeta Oscuro

 



Le zoccole fanno il bagno in piscina nel tardopomeriggio, mentre io mi obnubilo di gin lemon in veranda.

La salsedine sulla pelle alimenta l’ossessione sessuale e qui è pieno in settembre di attempate piantagrane.

Carni irte di crateri molli consumati dal sole.

Brucia la corteccia cerebrale in questo bagno di gin al tenue tramonto.

Davide Giannicolo

martedì 31 agosto 2021

Il ratto di Proserpina

 


Apollo e Dafne,
Pan e Siringa, 
Amori sanguigni di maschi disperati
E femmine mutate in piante pur di sfuggirvi
Senza che questi smettessero di portarvi in eterno l’effige.

Diversamente Plutone 
Decise d’agire
Di sua mano propria
Affondandola saldamente nella morbida coscia di Proserpina, nonostante questa lo respingesse con veemenza graffiandogli il volto, strappando a ciuffi la barba sulfurea.
“Sei mesi sopra, sei mesi sotto, questo è il massimo compromesso che posso accettare!” Fu ciò che disse il Dio sotterraneo.
Semi di melograno che stregano il ventre,
Incantesimo rosso come il rubino,
Legame violento incatena la carne nelle possenti spire della passione.
Non più prigioniera la indifesa Proserpina che non volendo aveva offuscato il cuore di fuoco,
Alla presenza di cerbero non rimase che il silenzio,
Sei mesi sopra sei mesi sotto.
Davide Giannicolo

martedì 24 agosto 2021

Grandine di Fuoco

 


Cade in violenti scrosci la grandine dal cielo.
Non appena tocca l’erba del giardino questa prende fuoco in un chiaro, onirico paradosso.
Il rogo s’innalza in un crepitare apocalittico, un suono che non appartiene al mondo delle menti integre.
Tutto prende fuoco intorno a me mentre pesante
cade la grandine da un cielo irreale.
Le vampe seccano l’erba al contatto immediato, in una velocità inclemente e surreale.
Il fuoco raggiunge la mia finestra, dalla quale assisto incredulo a questo impossibile fenomeno.
Gli schizzi di ghiaccio rovente irrompono in casa, l’incendio si propaga irriverente anche sui muri.
Qualsiasi cosa tocchi questa grandine furiosa, viene avviluppata inesorabilmente dalle fiamme.
La mia psiche forse, 
ha bisogno di riposo.
Poiché subito dopo ho sognato sesso adultero e d’essere un boss pedante.
Tutto in una sola, breve notte, dal sonno discontinuo e irregolare 
in cui mi sono alzato anche per dissetarmi 
e poi pisciare.
Senza contare che ogni volta all’alba
Devo anche duramente lavorare.

Davide Giannicolo 


lunedì 9 agosto 2021

Desiderio e afrore nel primo pomeriggio d’agosto


Vorrei dardeggiare dentro te
Nascosto nella penombra delle due del pomeriggio
Che lenisce gli afrori d’agosto.
Invece sono un frutto sanguigno che marcisce al sole
Mentre leste le mosche del peccato 
Su ali foriere di fosco presagio
Giungono a finirmi.
Davide Giannicolo

domenica 20 giugno 2021

L’Oro di Dubai

 


In Sri Lanka la vita era dura, avevo un marito inetto senza voglia di lavorare, che non sapeva far altro che mettermi incinta. Credo che fu proprio lui a vendermi, non so, al tizio barbuto dagli anelli d’oro che mi portò a Dubai. Fui violentata immediatamente, da lui e altri due, quelle tozze dita inanellate mi fecero molto male, penetrando a forza nei miei buchi più delicati fino a farmi vomitare. Il giorno dopo venni condotta in un bordello del centro, la mia razza non è richiesta dai ricchi degli Emirati che prevalentemente preferiscono donne bionde o occidentali, ma comunque cominciai a guadagnare bene facendo cose assurde a gente poco raccomandabile. Da quel giorno divenni un oggetto passivo e inanimato privo di emozioni, qualsiasi cosa mi chiedevano la eseguivo muta e rassegnata, per questo cominciai a essere molto apprezzata nell’ambiente. Mandavo molti soldi a casa, la gente sapeva che a Dubai facevo la domestica, mio figlio, ingenuo e coglione quanto il padre, faceva la bella vita mentre a me degli arabi pazzi sfondavano il culo dalla mattina alla sera, comprava moto e oggetti di lusso, invidia dei suoi compagni cingalesi, ma non sapeva che i soldi che maneggiava erano il frutto delle violenze inferte sul mio corpo. Una volta in una festa privata mi costrinsero ad accoppiarmi con una scimmia tra le risate di tutti, fece molto male, sia all’anima che al corpo, mentre il mio unico maschio, sorridente diveniva sempre più insaziabile e assetato di denaro; non sapeva o non voleva sapere che sua madre era una schiava, il sospetto non sfiorava lontanamente quel cervello egoista e materialista; dato che erano ormai cinque anni che non ci vedevamo qualcosa in lui avrebbe dovuto accendersi, invece niente, solo richieste di denaro.



In quei cinque anni, in cui mi fecero qualsiasi cosa cominciai a sfiorire, più diventavo vecchia e brutta più le atrocità che ero costretta a subire aumentavano. Ben presto si cominciò a passare a vere e proprie torture, la gente si divertiva a massacrarmi tutti i giorni, ormai il mio corpo non era più in grado di reggere. Un giorno, mentre un pazzo ubriaco mi martoriava i capezzoli con dei lunghi spilloni, decise di infilarmene uno orizzontalmente nel clitoride e un altro nelle guance trapassandomi la bocca da parte a parte, allora svenni; non era la prima volta che perdevo conoscenza durante quei martirii, ma questa volta, dicono, ci misi un mese prima di risvegliarmi, però mi curarono, non mi lasciarono morire, mi diedero una bella cifra e mi vendettero a un vecchio gioielliere. Mio figlio era felicissimo in quel periodo, mi aveva chiesto una macchina e lo avevo accontentato inviandogli tutta la mia liquidazione.



Il vecchio era molto ricco, aveva una scimitarra d’oro sempre attaccata alla cintura e con quella puniva chiunque, era anche crudele e incontentabile, incuteva in tutti i suoi domestici puro terrore. In quella casa lussuosa eravamo tutti schiavi, nessuno poteva osare ribellarsi, si diceva che molti fossero morti tra quelle mura, ero probabilmente finita tra le mani del mio ultimo carnefice; forse non sarei mai più uscita viva da quella casa. Allora feci la cosa che mi riusciva meglio, ubbidii, con rassegnazione e accondiscendenza, mutismo e sottomissione. Il mio ruolo principale era semplice e bizzarro, seppur disgustoso. 

Io ero l’orinatoio e la sputacchiera del vecchio. Interamente ricoperto d’oro e gemme lui mi faceva un cenno storcendo il naso aquilino e crudele da dominatore del deserto, io andavo accanto a lui a passi svelti, dovevo precipitarmi come se avessi la morte alle calcagna e in effetti così era, dovevo inginocchiarmi con devozione e spalancare la bocca verso di lui, con la pietà e la fame di un uccellino che attende il verme che sarà il suo cibo. Lui mi scatarrava nella bocca, dei fiotti grumosi e gialli che inducevano al vomito, mi sputava dritto in gola con una potenza prodigiosa e io dovevo inghiottire tutto. Il gioielliere sputava spessissimo poiché masticava tabacco, cosa che rendeva il suo catarro ancora più disgustoso e crudele. Quando poi doveva pisciare urlava il mio nome, ovunque io fossi dovevo correre, costretta a stare tutto il giorno, anche di notte, con le orecchie tese; se non lo avessi sentito facendolo attendere o peggio ancora non presentandomi al suo cospetto, mi avrebbe uccisa con le sue mani, sparandomi in testa o trafiggendomi, erano parole sue queste, che mi ripeteva spesso. Al suo richiamo quindi mi inginocchiavo davanti a lui, con la solita bocca supplichevole e spalancata, e lui mi spruzzava nella gola la sua orina malefica, a getti abbondanti, innaffiando con prepotenza gialla e scintillante prima la mia ugola e poi le mie viscere. Beveva a posta prima di farlo grandi quantità di birra o champagne, voleva che il piscio fosse abbondante e copioso così da potermi inondare la trachea fino a farmi soffocare, voleva annegarmi, strozzarmi con la sua orina diabolica. E guai se avessi tossito o perso una sola goccia. Un giorno mentre si svuotava dopo un ubriacatura mi vennero dei conati di vomito e tossii, stavo affogando in quel mare di piscia putrida che straboccò tutta fuori sporcando i suoi preziosi tappeti, lui sguainò la scimitarra e me la premette alla gola mentre con l’altra mano mi stringeva i capelli costringendomi a guardarlo standomene in ginocchio, era forte nonostante la vecchiaia; voleva decapitarmi, aveva la veste alzata e mentre mi minacciava vidi che il suo pene era eretto e duro, gocciolante, pronto all’eiaculazione, quell’uomo godeva nel fare del male alla gente.

“Tu sei il mio pisciatoio, hai mai visto un gabinetto rigettare il contenuto? Significa che non funzioni bene e dovrò sostituirti!”

 Dicendo ciò mi intaccò la fronte con la lama, lentamente e con forza, nello stesso istante eiaculò sulla mia faccia imbrattandola con un fiotto abbondante ed energico. Non si era neanche toccato il pene poiché aveva le mani occupate con la scimitarra e nello strattonare i miei capelli; era stato un fiume naturale esploso con crudeltà dal suo ventre sadico.

“Vatti a ripulire non mi piacciono i cessi sporchi, non sei in una bettola, sono un uomo di una certa posizione io!”

Da quel giorno vivo nel puro terrore, porto ancora la profonda cicatrice della sua spada sulla fronte, mi sto ammalando a forza di bere orina, credo di avere l’epatite o qualcosa di simile, la mia pelle ha un colore strano, ho sempre nausea e malessere. 

Mio figlio intanto continua a chiedermi soldi ma mai di rivedermi e riabbracciare la propria madre generosa; mentre io inghiotto, sottomessa e assoggettata, fino alla morte che arriverà probabilmente a breve, l’oro maledetto, profondamente giallo e scintillante di Dubai.

Davide Giannicolo 

domenica 6 giugno 2021

La Spada e la Carne

 


Brivido sinuoso di serpe nato nel ventre del peccato: la violenza.

Carne fragile indurita dal corpo a corpo si lega all’acciaio nel sogno della morte.

Coppa di sangue centellinata nottetempo col favore d’una oscura ebbrezza.

E poi il sudore che forgia il corpo come lama, affilando le membra d’un vigore vibrante.

La spada e la carne, tetri fratelli, la carne e la spada privi di orpelli.

Spossatezza di lotta che concilia il sonno, lasciarsi andare a una tenera morte che dura poche ore; per poi risvegliarsi a bramar nuovamente divorati da una maliarda tentazione: 

La spada e la carne, tetri fratelli, la carne e la spada privi di orpelli.

Davide Giannicolo



domenica 30 maggio 2021

Luna un po’ puttana

 


Svanisce come appare la Luna un po’ puttana, i suoi tacchi risuonano tra i monumenti solitari della notte.

Sempre la stessa, a Vienna, Parigi e Roma; un po’ più modesta a San Sebastiano al Vesuvio.

La gente s’incanta, si prostra e fa sogni stregati al suo passaggio, ma tutto è silenzio attraverso gli occhi neri delle finestre vuote.

Tornerà domani, anche in campagna, nuda Luna un po’ puttana che sorride ammiccante.

Non morire, tornerà, e se lo farai, morire intendo, verrà ticchettando con un maiale al guinzaglio anche sulla tua tomba.

Davide Giannicolo

lunedì 24 maggio 2021

Sumo Private Room Part 2

 


Il mio è il sogno infranto di un aspirante Yokozuna. 

Vengo retrocesso mio malgrado se vengo scoperto a divertirmi nei bassifondi.

Solo dolore nella mia solitaria cella nottetempo, solo fatica e rantoli di lotta.

Davide Giannicolo

sabato 8 maggio 2021

Passeggeri

 



Siamo passeggeri di un treno che sferraglia inesorabile.

Intorno a noi si muovono fantasmi silenziosi.

Fuori dal finestrino vediamo passare paesaggi diversi, fatti di attimi, che vorremmo fermare dentro di noi, o quantomeno indugiare a riflettere su essi.

Ma i fantasmi intorno a noi ridono di questa nostra vaga sete.

Ci dicono coi gesti, poiché spesso sono muti e non per loro colpa, che è meglio lasciar correre il pensiero cedendo spazio all’azione.

Non vi è sosta su quel treno, meglio spaccare il vetro del finestrino con le nude mani, a rischio di rompersi le ossa e saltare giù da quella folle corsa.

Allora scoprirai che forse quel paesaggio che scorreva velocemente innanzi i tuoi occhi ipnotizzati dalla monotonia del viaggio probabilmente non esiste, così come i passivi fantasmi ospiti di quel treno da cui sei appena uscito.

Unicamente il sangue, la carne e il dolore sono reali, il resto è solo un inganno.


Davide Giannicolo

sabato 1 maggio 2021

Bustuaria Moecha: Bustuarius

 



Morto il Magister molti Bustuarius, gladiatori pagati al fine di combattere ai funerali, così da irrorare col proprio sangue la terra dei defunti in un tributo sacrificale, si ritrovarono senza lavoro né guida. Inutile dire che questa era gente dallo stile di vita estrema:

“Strozzerò Noctilla con le mie palle pelose di gladiatore, lo giuro su Ecate!”

A dire queste aspre parole fu Milos, tetro Mirmillone dal corpo interamente cosparso di cicatrici mortali, nessuno sapeva i motivi per cui fosse sopravvissuto a quei colpi inferti dal ferro avversario. Intanto flagellava con robuste sferzate la moglie di un senatore che lo aveva pagato a posta per farlo. A simile posizione si era ridotto il gladiatore per mancanza di ingaggi al cimitero e la consorte del senatore gli stava giusto spiegando il motivo mentre lui la scorticava. Naturalmente anche se perpretati in una situazione fuorviante, quegli atti appartenevano alla normalità della vita quotidiana della padrona di casa e per lei quelle non erano nulla più che confessioni di letto o da terme. La donna non sapeva di star accendendo un fuoco nero nell’anima rosa dal rancore del gladiatore disoccupato. 

Quella stessa notte tutti i Bustuarius fedeli al Magister defunto si misero alla ricerca di Noctilla la traditrice. Armature nere, teschi ad orpello, trucco mortuario come maschera di morte, questo era il loro aspetto conturbante.



Ma Noctilla non si trovava, era svanita come uno spettro tra le tombe, forse portata con sé da Ade, come qualcuno sussurrava a bassa voce.

“Va tutto allo sfacelo in questo cimitero, nemmeno le stelle e la pallida luna sembrano più guidarci!”

Si lamentava Sciacallo Nero, il folle retiarius che collezionava teschi umani nei quali spesso eiaculava.

Erano tutti riuniti al cimitero dopo la fallimentare ronda notturna. Poi improvvisamente giunse Noctilla, accompagnata da quattro guardie del corpo, alte due volte più di lei, incappucciate, con in mano tibie umane al posto di mazze, uomini enormi o apparentemente tali, nel senso di uomini in carne e ossa, dato che i volti erano celati e le mani inguantate. Noctilla avanzò, era cinta da un lungo mantello, verticalmente teneva scoperta una striscia di corpo nudo, pallida pelle luminosa fino al pube nero, ferino, come il manto di un lupo affamato.

“È tutta nuda sotto quel mantello la puttana, facciamola a pezzi, lei e i suoi guardaspalle, in fondo sono solo quattro”.

Disse ciò Milos infervorando i suoi compagni e sguainando il gladio che tanti corpi aveva trafitto. Il gruppo lo seguì, gladiatori allenati a combattere, dai corpi muscolosi e la mentalità assassina, personaggi pronti a mangiare il cuore crudo di Noctilla e di chiunque altro, soggetti senza regole né morale pregni di odio e violenza. Si scagliarono con le armi in pugno contro i quattro campioni di Noctilla. Tutto si svolse in un lampo, i testimoni sopravvissuti riuscirono a vedere poco, ossa rotte, teste spaccate come zucche marce, orbite strappate, testicoli spappolati, estirpati e gettati lontano dai corpi dei loro ex possessori, sangue a dissetare la terra, grida a violare il silenzio sacro della notte cimiteriale.

Milos strisciava in terra impaurito, il suo trucco da morto ora appariva ridicolo più che minaccioso.

Noctilla gli si avvicinò, seminuda, il suo seno perlaceo illuminato dal chiaro di luna poiché aveva allargato le braccia in maniera solenne, la sua minuta figura troneggiava ora sul tozzo gladiatore annaspante.

“Sono io la signora di tutti i cimiteri di Roma e delle sue sperdute province, voi tutti se volete, da oggi potrete lavorare sotto il mio comando.”

Milos annuì osservando il cranio spaccato di Sciacallo Nero che giaceva accanto a lui.

I quattro incappucciati si strinsero intorno a Noctilla, come fossero un muro impenetrabile la scortarono nella notte, fino a che tutti e cinque, tra le livide nebbie dell’alba impellente, non furono più visibili.

Davide Giannicolo

venerdì 16 aprile 2021

Presagio di Morte





Presagio di Morte,

sussurro tra le stanze vuote.

Muto rintocco, 

frinire d’insetti in cerca di carne putrefatta.

Sogno gelato dagli istanti perduti,

luce che muore tra tende impolverate.

Solo un momento.

Solo un suono

leggero

che svanisce.


Davide Giannicolo 




domenica 21 marzo 2021

Bustuaria Moecha: Magister

 


Le Bustuariae avevano abbandonato la cripta, era notte fonda volgente all’alba e le adepte vagavano fra le tombe dissipandosi come nebbia. Solo Noctilla, la prediletta delle tenebre era rimasta nel soffocante luogo sotterraneo in compagnia del Magister dalla maschera di teschio, colui che l’aveva posseduta per prima iniziandola alla professione di prostituita frequentatrice di cimiteri. Il magister proteggeva le sue donne e ne traeva profitto, scovava quelle più avvezze alle perversioni notturne e le faceva sue, allevandole nel ventre del cimitero tra teschi e tumuli di ossa, truccandole coi colori pallidi della morte, come piaceva alle anime irrequiete che frequentavano i sepolcri. Quelle iene lascive che amavano la tomba e ne facevano giaciglio di tetre passioni. Roma e le sue province abbondavano di simili personaggi, questo era il motivo per cui il Magister quella notte aveva intrattenuto Noctilla congedando anzi tempo le altre Bustuariae.

“Hai stretto rapporti importanti con la vedova Tullia ultimamente, ho bisogno di piazzare alcuni uomini nella sua casa e qualche gladiatore nella scuola del suo fratello lanista, sai che ho sempre bisogno di nuovi Bustuarius da far combattere ai funerali.”

Noctilla si avvicinò all’uomo bizzarramente vestito.

“Avevo sette anni quando ho sognato Ade cinto di serpi proclamare il mio destino, m’ha fatta signora delle tombe e padrona dei fuochi fatui che illuminano i cimiteri nottetempo, allora lo chiamavo Magister, come ora i tuoi idioti chiamano te, ora, dopo anni di servigi, sacrifici e amplessi nella terra della morte io lo chimo padre, sì Ade, dio del sottosuolo è il mio unico padre, ed è molto meglio un padre, come tu ben sai, che cento Maestri.”

Il Magister si innervosì e afferrò una mazza di ferro arrugginito piena di punte atte a sfregio e contusione, pronto a punire la sua impudente allieva. Ma presto la sua mano si immobilizzò, una voce profonda, maestosa rimbombò nella cripta in un malefico eco che paralizzava le membra:

“Noi siamo i figli dell’Oltretomba e la luce ci fiacca le membra, noi conosciamo il rovescio e la lapide dal sotto. Noi siamo invulnerabili, né la vita né la morte ci toccano più. Noi ridiamo della brezza, del frastuono, delle melense, umane moine. Noi non andiamo né veniamo, ci adagiamo sui secoli, attendendo il rogo delle stelle.”

Noctilla sorrise a queste parole, fiera fissò negli occhi il Magister impaurito. Un uomo imponente irruppe nella cripta, il volto di teschio, questa volta reale e non una maschera, un morto vivente alto due metri con in mano un gladio affilato.

La testa del Magister fu tranciata dal collo in un colpo brutale, il sangue imbrattò le pareti secolari del sotterraneo. 

“Vieni figlia mia, non temerai mai più...”

Noctilla si avvicinò al gigante dal volto di teschio, lo abbracciò posando il capo sul suo petto possente sentendosi protetta.

“Mai ho temuto padre mio Ade, mio unico Magister.”

“Non chiamarmi più così, avevi ragione poc’anzi, chiamami padre, io che ho mille è un solo volto decomposto dalla morte posso dirti, che è molto meglio un padre che cento maestri.”

Noctilla da quella notte fu padrona di se stessa, continuò ad aggirarsi per cimiteri nottetempo, a partecipare a intrighi e interagire con sicari e cospiratori, senza però mai dimenticare la sua stirpe e il suo sacro lignaggio.

Davide Giannicolo

domenica 14 marzo 2021

Bustuaria Moecha: Noctilla

 


Le lucciole danzavano intorno alle tombe mentre lei incedeva lentamente, cinta da un bianco sudario, i piedi nudi fasciati da sandali. Lui attendeva la morta vivente, voleva che bevesse il suo sangue e macchiarne il sudario trasparente che lasciava intravedere le forme. Il silenzio regnava invitto mentre pipistrelli e uccelli nottivaghi di tanto in tanto intonavano tetre melodie per gli insoliti amanti. 

Muta, Noctilla la Bustuaria si avvicinò a lui che pareva sognare, entrambi si denudarono consumando un focoso ma lento amplesso sulla bara che gli faceva da alcova. La luna sfumava gelida lasciando spazio a una livida Alba, qualche uccello mattutino iniziava a cantare nel cimitero. La donna si allontanò rivestendosi, con il pube incrostato di sperma secco, lui invece ritornò nella bara, dove dormiva ogni notte, l’unico che poteva permettersi il corpo della prostituta del cimitero senza pagare le usuali due monete d’oro. Morto o vivo che sia costui non ci è dato sapere, si sa solo che Noctilla, la superba amante notturna bramata da molti lo chiamava Maestro.

Davide Giannicolo

sabato 20 febbraio 2021

Bustuaria Moecha



Era stato a un funerale e non aveva saputo resistere, il modo in cui quella praefica piangeva il morto, disperandosi come fosse suo marito, intonando litanie struggenti dai toni sovrannaturali, e poi lo sguardo lascivo che gli aveva lanciato di sbieco, sicuramente a volerlo adescare, gli aveva sciolto il ventre. Prese appuntamento con lei per quella notte stessa, al cimitero, nei pressi di quella tomba fresca. Le Bustuariae facevano così, di giorno piangevano i morti e di notte vendevano il proprio corpo tra le tombe, nocticule falene dai movimenti lenti e sensuali. Non attiravano solo aspiranti necrofili alle prime armi, ma anche soggetti con la mania del potere che volevano assecondare la fantasia di possedere una vedova sulla tomba del marito appena morto. Caio, colui che prese appuntamento con Noctilla, la più famosa tra le Bustiariae Romane, era uno di quelli; era stato proprio lui a uccidere Lucio, l’uomo del funerale mattutino a cui aveva assistito impassibile.

La notte primaverile era mite ma il cimitero nottetempo appariva ugualmente tetro. Noctilla lo attendeva, distesa sulla bara, seminuda, pareva morta. Caio non aveva mai posseduto una donna inerte, la cosa lo eccitò, le sue fantasie necrofile si fecero spazio dissipando il suo primo desiderio. Si chinò sulla finta morta come un avvoltoio che sovrasta una carcassa, le posò sugli occhi le due monete d’oro, un gran prezzo, che erano il pagamento per una professionista del rango e della fama di Noctilla; le monete di Caronte che avrebbero reso più realistico il sordido, blasfemo amplesso con la morta. Ma un colpo di daga fece scoppiare le viscere nel fianco di Caio, poi un altro è un altro ancora. Il corpo crivellato dalle coltellate s’abbandonò privo di vita sulla Bustuaria adescatrice che lo attendeva a gambe aperte. Il sangue irrorava quel corpo abbondantemente, colorando il pallore di spettro della puttana notturna mentre la luna di primavera illuminava la fossa di argentee striature. Noctilla stava per soffocare sotto il peso del novello cadavere, a liberarla furono i due assassini che lo avevano pugnalato alle spalle. Tullia, la moglie di Lucio, vendicato il marito, pagò i sicari e li congedò nella notte stellata. A Noctilla spettò il doppio del suo compenso di puttana cimiteriale, oltre alle monete cedute dal porco morto che gli giaceva accanto. Una notte grassa, poi Tullia si denudò, candida come il latte che stilla dalla fonte del chiaro di luna, si distese nella bara con Noctilla, sua storica amante, insieme consumarono un amplesso lento e sinuoso accanto al morto ucciso di fresco lordandosi lascive del suo sangue caldo.

Davide Giannicolo


mercoledì 6 gennaio 2021

Il secondo fine del Protettore

 


Era un posto strano quello, ci lavoravano gli scarti della società. Tossici, violenti, alcolizzati, giocatori d’azzardo; gente con un passato turbolento che aveva avuto problemi con la legge. Oppure disperati, c’erano anche quelli, persone con terribili debiti o disposte a tutto pur di guadagnare qualcosa e sbarcare il lunario. Lui era uno di quelli, indifeso, timido, sporco, sarebbe sicuramente piaciuto a Lautreamont. Il lavoro era duro e nessuno aveva pietà per lui, lo calpestavano, umiliavano e minacciavano. Circondato da enormi corpi muscolosi di scaricatori sudati lui abbassava lo sguardo, accettava tutto, anche le spinte e gli schiaffi. Sopportava la fatica e le angherie e guadagnava, anche se poco, il pane per lui e la sua compagna. Di solito quelli gracili come lui si pagavano il pranzo facendo marchette ai più grossi. Aveva spesso visto sporchi e malvestiti ragazzetti pelle e ossa succhiarlo a un panzone per un panino dietro la discarica della fabbrica, anche questi rapporti erano squallidi e umilianti, nonché molto violenti. Non solo dovevi succhiare con passione cazzi sudici e odorosi di pesce marcio, ma prenderti anche gli sputi in faccia e gli schiaffi, così si eccitavano quegli erculei giganti ubriachi di sadismo e senso di onnipotenza, frustrati dal lavoro massacrante. 

Ultimamente lo stavano prendendo di mira, qualcuno lo toccava in parti dove non avrebbe dovuto, e lo faceva con una luce lubrica e invasata negli occhi degna di quell’inferno. Lui non cedeva né reagiva, andava avanti aspettando il giorno di paga. Qualche volta andava a prenderlo sua moglie e lo aspettava fuori dai cancelli, lei era grassa, sporca come lui, per niente attraente. Un giorno mentre la raggiungeva notò che uno degli scaricatori che di solito se ne stava in disparte ed evitava di tormentarlo, forse il più grosso e pericoloso di tutti, stava fissando insistentemente sua moglie. La cosa si ripeté ogni volta che lei tornò, il bestione guardandoli insieme insisteva ancora nel fissarli strofinandosi le parti basse con vigore e sorridendo. 

Allora proibì alla donna di raggiungerlo a lavoro, trascorse  circa un mese da quel divieto e la cosa peggiorò sempre di più. Un giorno fu accerchiato, spintonato, sbeffeggiato; uno di loro estrasse un coltello arrugginito mentre già un altro si slacciava la cintura dei calzoni. 

Due vennero atterrati subito da colpi di asse di legno che si frantumò in due punti sui loro volti, gli altri fuggirono immediatamente. A salvarlo era stato l’omone che faceva il filo a sua moglie. Troneggiava su di lui, imponente, monumento di paura e violenza, con l’asse spezzata tra le mani, mentre il poveraccio strisciava per terra cercando di rialzarsi. Il gigante gli tese la mano, questi accettò e la strinse facendosi aiutare a rimettersi in piedi.

“Grazie!”

“Ti aiuterò io con questi figli di puttana, non ti daranno più fastidio!”

“Ti ringrazio ancora, non so cosa dire!”

“Dire? Non me ne frega un cazzo delle tue parole, per sdebitarti dovrai fare, non proprio tu ma qualcun altro...”

Il sangue dell’ometto sudicio gli si gelò nelle vene.

“Non capisco...”

“La grassona simile a una scrofa che ti viene a prendere con quella macchina scassata è tua moglie?”

“Si” disse lui abbassando lo sguardo.

“Bene, la cosa mi arrapa ancora di più, stasera mi inviterai a cena, porterò io vino e cibo, stai tranquillo mangerai bene, poi glie lo infilerò tutto in quelle carni grasse, me la inculerò davanti a te o la sentirai urlare e godere da un altra stanza, decidi tu, domani è festa, starò da te tutta la notte, vedrai che sarà contenta, le piacerà mangiare a sbafo e farsi strozzare dal mio cazzone, intesi?”

I suoi occhi erano fiammeggianti come quelli di Satana, era già eccitato e non avrebbe accettato diniego. Il piccoletto annuì tacendo.

Tornò casa e parlò dell’accaduto con la premurosa donnona, soffrì tanto quando capì che sua moglie era anche un po’ lusingata da quelle attenzioni criminali, non si credeva affatto attraente ed essere desiderata le provocava qualcosa di strano. 

“Mi chiedo se non sia il caso di farsi inculare da quel branco di sodomiti piuttosto che distruggere il mio onore e fare il cornuto!”

“Qualsiasi cosa tu deciderai io ti aiuterò marito mio!”

Suonò il campanello, arrivò l’uomo, già metteva le mani sui seni a sua moglie, le baciava le guance, si comportava come se stesse a casa sua.

“Non c’è un altra soluzione signore?” Disse sottomessa la donna.

“No, non ce la farà mai da solo, e sapete cosa voglio io, quei tizi non si fermeranno finché non si licenzierà, io sono la vostra unica salvezza, e adesso vieni qui grassona che voglio infilarti la lingua nella gola.”

E lo fece, le scavò nella bocca con la lingua, poi la possedette davanti a lui lungamente.



Mentre il gigante nottetempo dormiva nudo sul corpo di sua moglie, stanco dai reiterati, violentissimi atti sessuali dalla estenuante ferocia, l’ometto pensò a quanto è vile a volte colui che protegge, mascherato da benefattore saccheggia in modo peggiore del dichiarato razziatore. Si chiese se non era forse il suicidio la degna fine a quella squallida vita di soprusi e soprattuto, la domanda che più si ripeteva nel cervello era: 

“Quella scrofa che non toccavo da mesi, che adesso ronfa di la nuda con quell’altro avrà goduto?”

Io credo di sì, anche perché nessuno in fabbrica toccò mai più l’omuncolo sudicio, e il bestione tornò ogni venerdì sera ospite a cena.

Davide Giannicolo