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domenica 24 agosto 2025

Il Licantropo e la Studentessa

 


Lara stava giocherellando con il suo lecca lecca al limone e vi passava la lingua di sbieco come se volesse levigarlo in una stranissima, indefinita forma. Il crepuscolo uccideva ogni bagliore e la fatiscenza dei cassonetti dei rifiuti tentava di invadere le strade semideserte della città borghese.
La ragazza pensava in maniera sbarazzina a cose assurde e irrealizzabili, frivole ma quasi complesse nella loro incompiutezza.
“Pensa se fossi una Spice Girl, strafiga su tutte a dominare gli uomini tra feste d’ogni tipo, invece sai che palle papà a casa con la tele che mi aspetta e si masturba le cervella, l’autobus che non arriva e gli albanesi coi coltelli che sbucano dagli angoli.”
Effettivamente un Albanese fuoriuscì poco dopo da una piccola collina di rifiuti accatastati. Aveva pantaloni di pelle e maglietta nera unta e ricoperta di lattughe, cominciò a fissare Lara con insistenza da necrofilo.
“Ed eccolo manco a farlo a posta che sbuca l’albanese, cazzo fanno sempre più paura.”
Ma l’albanese in realtà si fermò in mezzo alla strada e vomitò un cerbiatto blu, poi ci si mise a cavallo e sgommò nella sera incombente.
Lara strizzò gli occhi, poi si mise a posto le mutandine, a sedici anni a volte ti vengono le traveggole se la tua sessualità è repressa.
Finalmente spuntò l’autobus all’orizzonte.
“159 Scordate poesia e cose profonde” vi era scritto sulla didascalia luminosa, ma Lara non vi badò.
Nel pullman vi era una vecchietta e una ragazza, erano le uniche persone oltre il conducente ed erano sedute l’una accanto all’altra.
Lara si divertiva a sentirle parlare come spesso faceva quando non aveva niente di meglio da fare.
“Cosa fai dunque bella principessina?”
“Studio igiene filosofica del sadomasochismo vaginale, ma in realtà vorrei fare la scrittrice, ho scritto già un libro, si chiama Socrate contro Dracula.”
Al che la vecchietta si alzò dal sedile e cominciò a vomitare addosso alla ragazza, poi si strappò con le unghia le carni di dosso, in una cruenta, sanguinolenta e violentissima esibizione scenica la vecchia si scuoiò aprendosi in due come avesse una cerniera dalla quale svettavano immani quantità di sangue maleodorante.
La ragazzina era tutta impastata di vomito e sangue e nè Socrate nè Dracula potevano spiegarle cosa stava succedendo.
La vecchietta aveva rivelato la sua vera identità, era un diabolico essere metà DeFilippi metà Costanzo con al posto dei genitali un enorme fucile da caccia a doppia canna.
Un colpo sfondò il fegato della fanciulla aspirante scrittrice che si spiaccicò sul finestrino alle sue spalle colando come un pomodoro marcio.
Lara era sconvolta mentre osservava la scena, e intanto però notava che nuovamente le mutandine erano bagnate, che strana storia, che cazzo era quel essere mezzo Maria mezzo Maurizio? E l’albanese sul cerbiatto blu?
L’essere mostruoso gettò in terra la sua prima, sanguinante pelle di vecchietta, si avvicinò a Lara con fare laido e lascivo da cui si intuivano propositi di sadismo e affilata penetrazione.
Ma d’un tratto l’autobus si arrestò di botto, il goffo essere fu catapultato e fece un capitombolo fino ai piedi dell’autista che ora s’era alzato in piedi.
Era un grosso Licantropo peloso e ringhiante, era talmente grosso che poteva strappare via le lamine del pullman con gli artigli, probabilmente era un Ursus Cimiterialis, uno dei più grossi lupi mannari sulla piazza.
Il grosso licantropo fece a pezzi l’essere diabolico e ne disseminò i pezzi lungo tutto l’autobus, lo sfracellò senza emettere nemmeno un ringhio.
Lara sussultò, e ancora le sue mutandine, e non solo, si rivelarono esser bagnate.
Il lupo la fissò e le disse:
“Posso penetrarti con il mio grosso membro peloso?”
Ed allora le mutandine di Lara furono inondate, letteralmente travolte da una diga affluente. Il mannaro le strinse le morbide carni nelle mani artigliate, la denudò ferocemente e le fece vivere il rapporto sessuale più brutale ed estatico della sua sedicenne vita, stare qui a raccontare i particolari sfocerebbe nel pornografico, insomma Lara fu penetrata ovunque e in ogni modo plausibile dalla licantropa foga.
Quando si risvegliò e capì che era tutto un sogno Ezio Greggio era sopra di lei e la fotteva a sangue con in testa un frontino con le corna da satanasso.
Lara aveva sedici anni, e avrebbe dato il culo per fare la velina.

 

Dedicato a coloro che vogliono circondarsi solo di stronzate, che non meritano poesia né sublime metafora, che forse non se ne accorgono, ma sono proprio dei coglioni.


Davide Giannicolo

mercoledì 5 giugno 2024

Profumo di Trauma


 Tra le scale del vecchio palazzo in un giorno senza luce aleggia profumo di trauma.

Deicidio striscia tra le natiche di ogni prescelta come il filo di un tanga, si impregna dei nasturzi del loro sfintere, gli afrori del loro sudore, ed esplode negli uteri in risplendente sfavillio di spore diamantine.

Tutta la vita è assoluto nichilismo abbellito dagli orpelli del desiderio.

Percorro la città deserta alla ricerca di una copertina e incontro il fantasma di una pittrice geniale, salgo le scale della sua casa silente, mi accolgono i suoi anziani genitori, così viene confezionato il gioiello del mio primo capolavoro. Poco più in là il surrealismo di una puttana ai margini della città nei più squallidi bassifondi.

Profumo di trauma tra le strade spettrali di una domenica morta nella mia automobile scassata, il poeta ha il suo poema.

Poi c’era la troia degli alberi bassi che si nascose nello scroto del dio ubriaco. Disio assassinato perso in un pessimo ritratto che fu ugualmente rilegato nell’opera.

Tutto svanì nel nichilismo degli astri, tutto è ancora lì, oltre il portale popolato dagli spettri del ricordo.

Una Napoli immota di primo pomeriggio, surreale come un quadro di De Chirico che per quello tanto mi impressiona, diede vita all’estetica del mio artifizio.

Inchiostro nero, sperma di seppia, che nottetempo s’erge come creatura mostruosa, e ancora oggi, e nei secoli, striscerà come il filo di un tanga, tra le natiche di ogni prescelta, in oscuro sacrificio.

Davide Giannicolo

martedì 24 agosto 2021

Grandine di Fuoco

 


Cade in violenti scrosci la grandine dal cielo.
Non appena tocca l’erba del giardino questa prende fuoco in un chiaro, onirico paradosso.
Il rogo s’innalza in un crepitare apocalittico, un suono che non appartiene al mondo delle menti integre.
Tutto prende fuoco intorno a me mentre pesante
cade la grandine da un cielo irreale.
Le vampe seccano l’erba al contatto immediato, in una velocità inclemente e surreale.
Il fuoco raggiunge la mia finestra, dalla quale assisto incredulo a questo impossibile fenomeno.
Gli schizzi di ghiaccio rovente irrompono in casa, l’incendio si propaga irriverente anche sui muri.
Qualsiasi cosa tocchi questa grandine furiosa, viene avviluppata inesorabilmente dalle fiamme.
La mia psiche forse, 
ha bisogno di riposo.
Poiché subito dopo ho sognato sesso adultero e d’essere un boss pedante.
Tutto in una sola, breve notte, dal sonno discontinuo e irregolare 
in cui mi sono alzato anche per dissetarmi 
e poi pisciare.
Senza contare che ogni volta all’alba
Devo anche duramente lavorare.

Davide Giannicolo 


sabato 16 giugno 2018

Sogno




Il sogno
è la discarica della memoria,
una plaga dismessa,
cimitero abbandonato;
ove di tanto in tanto
s'inscenano cupe,
inquiete scenette
recitate in mal modo
da spettri grottechi
privi di vita e sapore.

Non scalda,
il sole del sogno,
né disseta la sua acqua.

Tutto è inganno 
in quel regno nefasto,
triste tentativo della morte
d'aggrapparsi alla vita.

L'inverso del battito d'ali
d'una farfalla nivea
che si posa su un teschio, 
spargendovi soavemente
una pioggia di spore dorate.

                                                Davide Giannicolo



lunedì 4 settembre 2017

L'eloquenza d'un tapiro appena sveglio



L’eloquenza d’un tapiro appena sveglio


1
La vita è un lento suicidio a modo tuo



L’aria era irrespirabile, pesante come una mano armata di cloroformio che preme sul muso attonito di un passante. Di tanto in tanto il cielo oppresso dal grigiore d’un estate malata sputacchiava qualche goccia di pioggia, allora l’acqua si mescolava alla polvere, generando un olezzo di tetra siccità.
Naturalmente le strade asfaltate della città erano deserte, una plaga delle illusioni infrante che si estendeva a perdita d’occhio.
Il respiro era timido, asfissiante, non si addiceva a quello di un eroe; lo sapeva bene il tapiro, scelto suo malgrado da una voce incombente che non aveva neanche avuto l’educazione di mostrargli il suo fautore.
“Non voglio andare!” Disse il Tapiro. “Non credo di averne le forze!”
“Invece devi! Dovrai pur nutrirti!” Disse la voce.
Tutto era silente solitudine, l’aria pesante attanagliava la testa del tapiro, era come se le vene del cervello poco avvezzo al pensiero stessero per esplodere facendosi strada attraverso i bulbi oculari, le pareti del cranio resistevano invece alla veemente pressione interna, provocando lancinanti fitte di dolore. Parlare attraverso la bocca anestetizzata e riarsa dalla sete mortale era cosa quasi impensabile, ma il tapiro lo fece, in un languido sussurro, mosso da una macabra disperazione.
“Nutrirmi? Non ne ho le forze ti ho detto, non voglio!”
“Morirai allora.”
La voce era appollaiata sugli occhietti socchiusi e doloranti del tapiro.
“Va bene, lo accetto, così sia, morirò volentieri, non ho nessuna intenzione di incamminarmi verso nessun cazzo di castello al fine di nutrirmi, comunque vada mi ucciderà prima questo deserto infuocato.”

2
Tutto osare e nulla temere

Per un breve istante regnò il silenzio, il sangue pulsava nei timpani del tapiro coprendo ogni esterno sentore. Improvvisamente una mano inguantata sollevò l’ansimante animale, i piccoli occhi si dischiusero lentamente sfuggendo al sonno fatale dell’agonia.
Una maschera da scherma nera copriva un volto impossibile da scrutare, era già difficile respirare in quella plaga desolata, figurarsi come doveva essere farlo attraverso i minuscoli spiragli della rete scurissima su cui era dipinta una scarlatta Croce di Malta.
“Con me c’era un seguace di Hans Talhoffer!”
La voce dello schermidore non era certo quella di poco prima, che ora taceva come a non volersi svelare.
“Il poveraccio è morto sotto il peso della sua arrugginita armatura, fa troppo caldo qui per un seguace di Talhoffer, ovvio!”
Il tapiro capiva a malapena le parole criptiche del masochista innanzi a lui.
“Sarai tu il mio nuovo compagno di viaggio, verrai con me al Castello del Dolore dove recupererò il mio onore perduto!”
“Ma io non voglio, l’ho già detto alla voce di prima, adesso ti ci metti anche tu? Non conosco neanche le vostre facce!”
Le proteste sembrarono non essere ascoltate, il tapiro finì in una grossa borsa di pelle di gufo e si ritrovò sul sedile di una potente, aggressiva automobile dalle linee ultramoderne.
“Sorpreso? Pensavi che andassimo a piedi? Non temere, al Castello del Dolore i soldi non mancano, dovrai però barattarli col tuo onore, quotidianamente, è così che mi hanno fottuto.”
“Io non voglio una potente macchina aggressiva, tantomeno una maschera da scherma nera, sono un tapiro io, non so se si vede, vorrei solo starmene tranquillo!”
“Tu dunque non hai onore da vendere o barattare?”

Era troppo tardi, una frotta di zombie incedeva all’orizzonte, presto la folla affamata circondò la nera vettura che scintillava al sole.

“Ci condurranno bendati al castello, io ci sono già stato, risucchieranno ogni tua fibra, in compenso però potrai bere e mangiare, magari ti avanzerà pure qualcosa, in fondo la vita è un lento suicidio amico mio, camminiamo tutti inesorabilmente verso la morte come il seguace di Talhoffer che è schiattato poco fa.”

Il tapiro era affranto, non capiva perché quel folle spadaccino lo avesse condotto lì dove voleva la voce persuasiva a cui s’era opposto. Che differenza c’era tra il morire nel posto in cui era prima o in quell’austero castello delle angosce?

3
Il Castello del Dolore

Fu tutto molto semplice e veloce:
Immatricolazione, assegnamento mansione e obliterazione.
Col tapiro c’erano un bradipo, un’antilope, un grosso orso orbo, due porci e un volpone.
Dovevano lavorare, continuamente, fino allo sfinimento, per farlo venivano imbottiti di droghe e frastornati mediante inibitori auditivi, spettri subliminali che fottevano a sangue il cervello.
Fortunatamente lo schermidore fu immediatamente riconosciuto, risparmiando al tapiro ulteriori fatiche.
“Tu sei quello che cerca il suo onore!” Disse il volpone.
“Chiama gli zombie, chiama i mannari!” Fece eco l’antilope.
“A che serve una vacanza col tempo che c’è fuori? Io adoro questo posto!” Aggiunse l’orso orbo in piena, schiumante crisi produttiva.
Arrivarono gli zombie armati di grattugia, le usavano soprattutto sulle tempie per impedirti di pensare.
“Sarò breve, altrimenti mi rivelerò impubblicabile, è ignobile ciò che accade in questo luogo, non ho il tempo che aveva Kafka per il suo Castello!” Disse lo schermidore tuffandosi tra i non morti.
“Questa è una spada a una mano e questo un brocchiere!” E via una testa, via una mascella.
“Questa invece è una mano sinistra rinascimentale!” Via pezzi di carotide e velocissimi colpi di punta.
Non fuoriusciva sangue da quei corpi, solo sabbia, polvere e sudore legnoso.
Lo spadaccino se la cavava molto bene:
“Dov’è nascosto il mio onore?”
“Ma qui avrai gloria!” Disse uno dei maiali “Nella produzione massima sarai premiato settimana dopo settimana, a cosa ti serve l’onore? Noi abbiamo il plauso sempiterno di chi lavora sodo e provvede a se stesso.”
Una daga lanciata si conficcò in mezzo agli occhi porcini.
“Lavora, lavora e stai zitto!” borbottava il bradipo.
“Lavora, lavora, lavora, lavora, non giunge l’aurora, lo senti il ticchettio della morte? Lavora, lavora, lavora che è ora, vedi lontano lo spettro del mare?”
Tutti gli zombie erano a terra, il tapiro si strinse forte alle caviglie dello spadaccino, giunsero i mannari, si udivano di lontano i ringhi soffocati dalla bava omicida, il digrignare delle zanne ingiallite dai cadaveri masticati, il suono spavaldo degli artigli che cozzavano tra loro.
“Resta in piedi schermidore, voglio andare via di qui!” Sussurrò il tapiro.
I mannari però erano troppo forti, travolsero l’uomo mascherato, lo trascinarono in un turbine di percosse, ora il sangue scorreva imbrattando i muri ed apparteneva tutto allo spadaccino.
“Non sei un eroe! Non sei niente! Niente!”
Le ossa vennero spezzate con cupa brutalità, ormai il corpo senza vita pareva quello di un pupazzo di pezza, venne issato e gettato in un complesso macchinario, le carni e lo scheletro triturati divennero un frigobar.



4
Rassegnazione e disincanto

Ancora il tapiro udiva il suono scrocchiante della infernale macellazione, le spalle dello spadaccino triturate, il bacino spremuto come fosse un pompelmo croccante.
Un ragno enorme poi, rosso come il rubino, discese lentamente dal soffitto.
“Questo è il mio castello, specchio del mio essere, e qui si fa come dico io! Non temere a te non accadrà ciò che è successo allo schermidore, tu sei un tapiro, mansueto per natura e fortunatamente non hai una minima idea di cosa sia l’onore.”
Il ragno non ammise repliche, risalì la tela svanendo nel soffitto.
L’orso orbo diede una pacca sulla spalla al tapiro sconsolato:
“Stai tranquillo, qui si sta bene, meglio che fuori, almeno qui sarai nutrito e potrai comprarti scarpe e occhiali da sole.”
Così il tapiro venne introdotto alla sua nuova vita, mentre guardava con occhi assenti verso la finestra minuscola incrostata dallo sporco di secoli e secoli.
Era ancora giorno, grigio ma pur sempre illuminato, non sapeva il tapiro, che nel Castello del Dolore erano sempre le nove, le nove di un eterno, nefasto mattino.
Il tapiro lacrimò lentamente pensando:
“Che cazzo se ne fa un orso orbo di scarpe e occhiali da sole?”


Davide Giannicolo