giovedì 9 febbraio 2023

Testa di Morto



 La vedova indugia dinnanzi alla lapide del marito, è un pomeriggio dal cielo terso, solleva la gonna e sposta di lato le mutandine di pizzo nero. È morto recentemente, poco più di un anno. 

La vedova, puttana triste vestita a lutto, svela una vulva dal pelo nero, allarga le grandi labbra con due dita a forbice, s’inarca mostruosamente.

Il rosso vivo della fessa sembra una bocca sanguinante nella pelliccia corvina del pube, espelle un getto veemente, dorato. Zampillo volgare di piscia imbratta la lapide, proprio sul ritratto del defunto.

Il mio cielo un tempo era terso, adesso sono pieno di perturbazioni, questa scena è una di quelle nuvole plumbee.

Nasce Testa di Morto, non senza travaglio e dolore.

Testa di Morto è nato, tremendamente assetato; non somiglia a nessun altro se non a sé stesso.

Giunge l’amante della vedova, incubo che cammina, poiché non sa in che guaio si sta infilando, perché é ovvio che qui di infilare si tratta.

Tra le mutandine di pizzo, la vulva nera di pelo tagliente tanto da provocare scosse al glande più calloso, viene riempita.

Il cielo terso improvvisamente s’oscura. 

Nevica.

Grigia bufera si staglia all’orizzonte, non c’è cosa che non muoia. 

Una mano sorge dal terreno in prossimità della lapide, afferra la fica, Testa di Morto sorge, l’amante viene sgozzato, mentre la vedova cavalcandolo impazzita ridiviene una corvina adolescente con le trecce.

Nevica.

Il candore della neve cela lentamente, lieve, il sangue e l’orina.

Testa di Morto è nato ed è già coperto di sangue. 



*

Spostiamo la scena in un appartamento. Degli uomini giocano a carte, una biondina, sola nel letto sonnecchia, si sente trascurata dal suo ragazzo che spesso ripete questa pratica fino a notte fonda. Percepisce qualcosa, o meglio qualcuno, strisciare sul suo letto, un uomo le accarezza lascivamente il corpo, le sfila le mutandine e ora fruga tra i peli del suo pube fulvo, è nudo e indossa una maschera di teschio il cui biancore rifulge nella penombra. La ragazza ansima, immobilizzata dal terrore, come il cadavere d’una giovane donna ricoperto da diafano sudario. Chi è costui? Uno degli amici si è infilato furtivamente nel suo letto dissacrando la lealtà del suo uomo? Profanando così, in questo modo esecrabile e infimo, la sua ospitalità tradendo il compagno?





Come se lo spettro lussurioso avesse udito i suoi pensieri ella sentì un sussurro roco, seppure ammaliante, provenire da sotto la maschera.

“Io sono Testa di Morto e questo è il mio turgido osso, spargerò su di te il mio seme, essenza di fiore bianco.”



Sentì di essere penetrata, non oppose resistenza, restò buona come se fosse minacciata da un’arma, una pistola alla tempia o un coltello alla gola che la costringevano ad assoggettarsi senza fiatare, cosa non vera, lo sconosciuto  non brandiva altro che le carni frementi di lei e la sua bocca veniva tappata, riempita, non da un ferro o da una mano inguantata, non dal fazzoletto imbevuto di cloroformio, ma alternativamente da una lingua sinuosa e un membro soffocante. Invadenti, irruenti tanto da spingersi fino alla trachea, costringendola a poppare, ipnotizzata da un incantesimo di lussuria inconfessabile e rassegnazione giustificante l’esplosiva eccitazione di quell’atto proibito che in realtà le ardeva nel ventre come un incendio, facendo lacrimare la sua vulva, fradicia come una spugna, di tumultuoso desiderio.



 La bionda passiva gemette lasciandosi scuotere da ritmici e sapienti colpi di reni, osò allungare una mano sulla schiena della Testa di Morto, un altra afferrò un gluteo, attirando a sé quel corpo massiccio come a voler contribuire alle sue spinte, rompendo la passività della stregoneria in atto, facendosi fottere sempre con più veemenza. La carne nelle sue mani era reale dunque, non si trattava né di sogno né di allucinazione, venne, facendo colare una pozza dalle cosce spalancate alle lenzuola. Il seme di Testa di Morto fu poi sparso sul ventre di lei, unguento che realmente portava con sé lezzo di fiori da cimitero, bollente, in quella fredda notte di gennaio, ardente come metallo fuso sulla carne infreddolita. Il pelo del pube fulvo ne era completamente imbrattato, impregnato come la punta di un pennello pronto per la tela.

L’uomo s’alzò dal corpo di lei, sfilandosi dalle gambe allargate e fradice di fluidi corporei, ella restava immobile, muta. Il Teschio dalla stazza colossale aprì la finestra, senza voltarsi.

Sparì lasciando nella camera da letto il gelo della notte. Nell’altra stanza si udivano ancora le voci degli uomini che se la spassavano.

Davide Giannicolo




Nessun commento:

Posta un commento