Alle prime luci dell’alba
Eravamo fuori, come al solito del resto, l’alcool unito alla coca pulsava nelle nostre teste morse dalla follia; albeggiava ma noi non eravamo ancora stanchi, nonostante gli occhi gonfi e le tempie devastate.
Lei era ferma in un sordido angolo, ci aspettava, nera, succintamente vestita allo scopo di eccitare i passanti; dieci euro, economica e sporca, il giusto premio per degli sciacalli notturni come noi.
Solo quando la caricammo capimmo che le tette non erano le sue, aveva il reggiseno imbottito da sudici stracci, peccato, l’ennesima beffa della droga, ci aspettavamo dei grossi seni d’ebano da stringere nelle mani, invece lei aveva solo i capezzoli, o poco più.
Io non capivo nulla, volevo solo prolungare il mio stato d’ebbrezza scemante, come si fa soffiando su di una fievole brace ormai inghiottita dalla cenere.
Ero davanti col guidatore, dietro c’erano due amici che non l’avrebbero scopata ma che comunque la toccavano rimpiangendo la negativa decisione.
Giungemmo nel losco dedalo di vicoli dove ancora regnava la notte morente, lì vi erano delle squallide camerette a piano terra, un letto e un bagno, nulla più; fuori attendevano i protettori, non provavano nemmeno a nascondersi, gestivano le stanze ed erano pronti a bussare prepotentemente alla porta se ci mettevi troppo, non era la prima volta che ci avevo a che fare.
Quando fui dentro mi pentii come ogni volta della mia scelta, il pavimento era cosparso di sperma, imperava un nauseabondo olezzo di orina.
Lei si denudò parzialmente, il mio amico, che conoscevo da bambino(eravamo compagni di banco alle elementari) si spogliò completamente e iniziò a frugare tra le cosce di lei.
Pensai a quando eravamo bambini, coi grembiulini blu, innocenti, paffuti, adesso ce ne stavamo completamente nudi a spartirci una puttana di colore in una sordida stanzetta col pavimento scivoloso a causa delle molteplici, precedenti eiaculazioni di sconosciuti; che fine aveva fatto la nostra purezza? Era già perita o la stavamo uccidendo in quel momento?
Lì dentro la malattia imperava ovunque, incombente come un animale scabbioso, ci osservava: il morbo venereo vomitato da un pene coperto di croste appartenente a chissà quale figlio di puttana che l’aveva dolorosamente spruzzato poco prima.
Il mio amico, dal corpo bello e atletico, scopava la puttana in posizione tradizionale, lui sopra e lei sotto a gambe aperte che fingeva di godere.
Era una scena interessante, non avevo mai visto qualcuno scopare, come guardare un porno dal vivo.
Il mio membro non voleva saperne però di rizzarsi, la cocaina lo strozzava, se ne stava lì rannicchiato, timido come un mignolo senz’osso.
Anche il mio amico divenne presto fiacco, lei iniziò a protestare, ci metteva troppo, lui si difendeva dicendo che non era un bambino, che lui le donne le scopava per ore.
La donna era ancor più scoraggiata dal mio cazzetto inerte, avrebbe dovuto compiere un indicibile fatica allo scopo di tirarlo su.
Drogati, alcolizzati, decadenti di merda, che figura ci faceva l’uomo bianco in quella stanzetta?
L’africana era stata sicuramente scopata da membri mostruosi e brutali fra le fronde della foresta.
Cosa pensava quella troia riguardo quel ciccione dal cazzo moscio che se lo menava senza successo mentre il suo amichetto la scopava vanamente?
A giudicare dalla sua espressione sicuramente aveva pena di me, non manifestava scherno però, poiché una che fa quel mestiere, nelle peggiori condizioni, coi tossici e le persone della peggior specie, per dieci euro, nella sporcizia e il sudiciume, sa che gli impotenti sono la razza peggiore, i più pazzi, frustrati, di conseguenza sadici, suscettibili e violenti.
Ma io non ero e non sono impotente, ero semplicemente fuori di me dalle droghe e dal bere.
“Sei qui per giocare!” Dissi a me stesso.
“Prendila come un gioco allora! Stai guardando un porno!”
Sicuramente De Sade si sarebbe comportato meglio, ma lui aveva i suoi confetti afrodisiaci, nell’elegante astuccio di cristallo coi bordi d’oro, la sua bomboniera magica; ne avrebbe mangiati in quantità eccessiva, come gli si addiceva, e avrebbe punito la negra con un arnese gonfio e prorompente grazie all’artifizio.
Io invece non avevo null’altro che la testa gonfia di cocaina cattiva e a buon mercato tagliata con chissà cosa.
Pensai fortemente a De Sade che frustava le sue mendicanti, adesso il corpo nudo e sudato del mio amico iniziava a infastidirmi e suscitare in me un certo ribrezzo, non ce l’avrebbe mai fatta a venire.
Mi stancai, presi la donna e l’invitai a succhiarmelo, contrariato il mio amico iniziò a spararsi una sega:
“Io non sono un bambino, i bambini vengono subito!” Brontolava menandoselo.
Il mio pene non reagiva, e i calzini neri a contatto col pavimento umidiccio non mi aiutavano.
Non ricordo precisamente come successe ma venni col cazzo moscio, spruzzando debolmente il mio sperma che si unì a quello già presente sul lercio pavimento, l’arazzo di sborra tessuto dal popolo dei bassifondi, ricamato pazientemente da quella ragazza proveniente da un paese lontano con l’animo colmo di speranze, ma che non aveva trovato null’altro che squallida, sordida decadenza: percosse e amanti sdentati, il peso di corpi affannosi e sudati, prepotenti, sudici, indegni.
Tutto il marciume della società moderna aveva gravato su quel corpo, tutte le più empie frustrazioni, la tristezza di una eiaculazione solitaria, malata, oscena nella sua urbana, carnale menzogna.
Andammo via un po’angosciati, gli altri due ci aspettavano in macchina, era ora di chiudere la gelida saracinesca di quella notte febbrile, unta come un moncherino che carezza i boccoli dorati di una vergine.
“Ma tu guarda un po’dove devo mettere l’uccello!”
Disse il mio amico pensando a quanto successo poco prima, poi mise in moto l’automobile e ci allontanammo nei vicoli percorsi dal gelido chiarore dell’alba.
Davide Giannicolo
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