Guarda come risplendo
Nella luce del Kendo.
Con questo ligneo bastone
Ti darò una punizione.
Fatale contusione per ogni tua emozione.
Preparati smargiasso per la somma umiliazione.
Davide Giannicolo
Necromania e puro amore per decadenza e violenza, poesia oscura, lirismo licantropico, monumentali astrattismi sanguinari, danza di catene e rasoi al chiaro di luna, letteratura notturna, solinga, antintellettuale. Questo è il manifesto del porto dei misfatti, e i viandanti che vi entreranno sentiranno gelidi moncherini carezzare il loro volto, o sinuose sirene, il cui bacio sa di prostituzione e antichità.
Guarda come risplendo
Nella luce del Kendo.
Con questo ligneo bastone
Ti darò una punizione.
Fatale contusione per ogni tua emozione.
Preparati smargiasso per la somma umiliazione.
Davide Giannicolo
Quando uscì dalla porta la luce del sole si era fatta rossa e stava morendo lentamente dietro la fila di case sull’altro lato della via. Un cane attraversò la strada dimenando la coda. Lui si chinò, gli fece una carezza e pensò:
“Mi resta ancora una sola cosa da fare.”
Con un balzo improvviso il cane posò le sue grosse zampe sulle spalle massicce di lui, prese a leccargli la faccia in maniera festosa e invadente, lui sorrise, questo suo nuovo amico aveva dipinto di conforto il fosco tramonto che man mano assumeva le tinte scarlatte del sangue.
Improvvisamente un getto umido gli investì il volto, era stato tutto così confuso, cadde in terra e sulla faccia non aveva certo la saliva del cane, era qualcosa di più denso, dall’odore pregnante, una fragranza malvagia che lui conosceva benissimo, sangue; il cane aveva smesso infatti di leccare.
Aprì gli occhi e concepì con orrore la scena, la testa del cane non c’era più, il corpo del povero animale era ancora adagiato sul petto di lui, contorto in agghiaccianti spasmi nervosi, il collo reciso che vomitava abbondanti fiotti di sangue imbrattando la sua attonita faccia.
Restò immobile per qualche secondo, la violenza di quella scena lo aveva ibernato, proprio come si intrappolano nel ghiaccio le vergini adultere(dunque non più vergini) che vengono mutate in sculture immobili in onore del gran maestro Gilles kitch, presidente operoso del pianeta, della moda e del design .
Quando riuscì finalmente a muoversi, liberandosi dal peso spruzzante che gravava sul suo petto, si impegnò a tergere il sangue dalle proprie palpebre così da poter vedere con maggiore chiarezza. Intorno c’erano il cervello e la testa del cane, sparpagliati in truculenti pezzetti un po’ ovunque.
Dritto di fronte a lui imperava un “Controllore”, alto e maestoso, inguainato nella sua rigida divisa in lattice nero e metallo, con in mano il tipico manganello a scariche elettriche, lo osservava dall’alto mentre lui era in terra tra i resti dell’animale.
Era stato lui a far saltare la testa al cane, con una scarica così possente da poter uccidere un bue, solo un sadico è capace di un simile gesto; infatti se non eri sadico non potevi entrare nell’ordine dei controllori, lo diceva espressamente il regolamento, “si pregano le persone dal cuore tenero di astenersi dal reclutamento.”
Il grosso controllore fissava Chiodo che a sua volta ricambiava lo sguardo con aria perplessa, insanguinato e seduto sul bordo del marciapiede.
“Non lo sa che è proibito esternare manifestazioni d’affetto così carnali? Non sa che qui a Roma è proibito perfino stringere la mano ad uno sconosciuto senza l’ausilio di guanti in lattice? Figurarsi fare quello che lei stava facendo con quel cane! Lei deve essere proprio pazzo! Perché non è al palazzo del bondage? La baronessa del fetish sta tenendo un discorso!”
“Perché ha ucciso in maniera così barbara quella povera bestia? Era il primo cane che vedevo in strada da anni!”
“Le è proibito fare domande signore, lei ha tutta l’aria di essere un ribelle, venga con me!”
Il controllore estrasse le manette dentate, anch’esse munite di scariche elettriche, si chinò verso Chiodo per ammanettarlo ma già questi in uno scatto gli aveva piantato una larga lama in mezzo agli occhi.
“Bastardo! Questo è per il cane, porco deviato!”
Non c’era nessuno in strada a quell’ora, i motori dell’ossigeno stavano per essere spenti per la notte, dunque tutti erano già ad affollarsi nei templi del bondage o ai distributori automatici con le loro mascherine.
Chiodo viveva in un’epoca buia dov’era difficile incontrare un cane per strada, l’ossigeno era stato monopolizzato dal gran maestro Gilles Kitch già da vent’anni dopo la grande regressione del petrolio.
I combustibili avevano oppresso la terra consumandone ogni risorsa e avvelenando l’aria, gli uomini per vivere e respirare erano costretti a comprare l’ossigeno di notte, mentre di giorno veniva gentilmente e umanamente offerto dal gran maestro che lo distribuiva mediante le sue industrie globali.
Su ciascuna città giganteggiavano ciclopici i motori del maestro, chiunque volesse respirare non poteva fare altro che sottostare all’egemonia di Gilles e accettare in primis le sue folli leggi estetiche; infatti Roma, uno degli epicentri storici più sublimi dell’arte architettonica, si era tramutata in una pagliacciata kitch, i principali monumenti erano stati rasi al suolo e sostituiti da mostruose costruzioni in vetroresina. Il Colosseo era rivestito di vergognosi pellicciotti rosa e lustrini, catene dorate reggevano giganteschi lampioni nei principali centri al fine di emanare luci e profumi plastificati, incensi fittizi di un mondo distorto.
Chi era troppo povero per pagarsi l’aria era costretto a rifugiarsi nei templi del bondage, palazzi in vetro scuro e decorati in oro rosa ove baronesse fetisch gestivano performance per la più alta elite del paese in decadenza.
In cambio di aria gli ospiti dovevano essere a completa disposizione degli spettatori paganti, si potevano dunque osservare in questi posti le più orribili nefandezze concepite dall’animo deviato; le persone non erano null’altro che oggetti, divenivano tavolini stuzzicati con aghi e suppellettili bollenti, sui quali era concesso spegnere sigari e sigarette, vomitare la sbronza, affondare la forchetta giusto per spezzare la tensione. Oppure potevi ritrovarti a essere un divano sul quale si stravaccavano grassi e nudi magnati o obesi culi fetidi di bovine baronesse.
Eri dunque una persona fortunata se ti capitava solo di essere frustato, legato o violentato.
Il padre di Chiodo era morto in uno di quei posti, e non c’era cosa che infatti Chiodo odiasse più di quel maledetto, plastificato mondo ideato da quel frocio del maestro kitch.
Tutto il mondo occidentale si era sottomesso alle multinazionali di quel figlio di puttana, solo il medio oriente aveva resistito al suo laido ricatto, il risultato fu che il medio oriente non esisteva più, milioni di corpi asfissiati hanno generato con la loro decomposizione la più immane e devastante pestilenza mai ricordata dal genere umano, trascinata in occidente sulle ali malevole di cavallette soprofaghe, che avevano divorato i corpi morti di quasi un intero continente.
Per questo bisognava stare attenti alle manifestazioni d’affetto, i baci erano divenuti merce di contrabbando, il maestro odiava l’espansività carnale e affettiva in ogni sua forma, e molto probabilmente, anche senza l’epidemia, si sarebbe attrezzato comunque per proibire tali “umane debolezze!”.
Il Dio del maestro era se stesso, la sua impotenza innalzata a icona e la plastica che lui chiamava estetica, ed il mondo gli voleva anche bene, a questo pagliaccio ridicolo, pingue figlio dell’avanguardia stilistica.
Questo era il mondo dove Chiodo era nato e cresciuto, non sapeva nemmeno chi fosse sua madre, non aveva mai visto il mare, né il cielo privo di nubi rossastre, limpido e azzurro come si diceva fosse stato un tempo, non riusciva proprio a immaginarselo il cielo privo di scorie, in effetti non era uno che poteva concedersi spesso alla fantasia, Chiodo era uno dei pochi oppositori del sistema, e stava rientrando da una spedizione molto difficile.
“Mi resta un'unica cosa da fare!” lo ripeté ancora nella sua mente mentre osservava il cadavere del controllore goffamente disteso nella sua ridicola e aderente tuta in lattice.
Lasciò lì il cadavere e cominciò a correre sentendo la carenza d’ossigeno nell’aria, dovuta allo spegnimento dei generatori avvenuto da circa un ora, l’aria accumulatasi si stava dunque disperdendo; aveva estratto il coltello dalla fronte del sadico perdente, e lo teneva stretto nella tasca del suo cappotto, proprio all’altezza del petto, come fosse un secondo cuore, un cuore d’acciaio.
Si insinuò in un dedalo di vicoli, era quello un quartiere antico, uno dei pochi a non aver subito il rinnovo fetish-kitch, questo perché era popolato da reietti, deformi e moribondi, ma il gran maestro non sapeva che era reputata una fortuna per loro la faccenda del rinnovo negato, dunque questo era l’unico quartiere dove non apparivano monumenti fallici in ceramica o statue di suore seminude intente a leccare crocefissi di vetro, culi in cristallo violetto o uomini negri imbevuti nell’oro.
Il nostro Chiodo si fermò all’entrata di un decadente palazzo, diroccato e sporco sembrava stesse per crollargli addosso; bussò per cinque volte la porta, poi si guardò in giro, e bussò altre due.
“Non ci sono statue!” Una voce rispose alla bussata, proveniva direttamente da dietro la porta.
“Per fortuna!” Rispose Chiodo.
Era la parola d’ordine, infatti gli aprì la porta un bambino, piccolo e sporco, non aveva un occhio, probabilmente sottratto alla povera creatura innocente in un perverso gioco da bondage, in cambio di poche ore d’aria.
Chiodo carezzò la testa del piccolo affettuosamente, estrasse un manufatto, una specie di gioco e glie lo porse sorridendo:
“L’ho fatto ieri, penso sia una specie di albero, o almeno me lo sono immaginato così, nemmeno l’ho mai visto un albero.”
Il bambino sorrise, aveva veramente un’aria malinconica quel piccolo volto privo di occhio sinistro.
Chiusero la porta e salirono la stretta e sudicia scala che portava agli appartamenti.
Orca, ovvero l’uomo dal quale stava andando Chiodo, era immerso in un laborioso esperimento innanzi a filtri e ampolle dalle figure surreali, nel vederlo accennò un sorriso, ma continuò con il suo lavoro:
“Hai piazzato le cariche?”
“Un gioco da ragazzi, mi è scappato più di un morto però, non c’è tempo da perdere, entro domani le scopriranno!”
Orca sorrise:
“Non ci sarà un domani!”
“Hai preparato quella cosa?”
“Ci sto lavorando proprio adesso, ma non credere che sia facile, è doloroso, forse non potrai sopportarlo!”
“Sono disposto a correre il rischio.”
“Come ti sei sentito quando le hai piazzate?”
“Ho pensato ad un acquario, al fatto che anche se forse ne sono ignari i pesci vivono una parodia della vita, una morte vivente, e la cosa giusta è liberarli, anche se questo significa morire!”
“Entro domani saremo tutti dei pesci boccheggianti senza ossigeno, questa pagliacciata finirà, i lerci, grassi generali esploderanno con la loro inerzia espellendo il male che hanno accumulato durante questi anni di ignavia, in tutto il mondo c’è uno dei nostri che ha piazzato una carica per ogni generatore, tutti ormai devono già aver compiuto l’opera e a quanto pare senza intoppi, non ci sarà più schiavitù, non ci sarà più perversione, questi bastardi pagheranno sulla loro pelle le loro mostruosità!”
Il bambino sorrise e guardò Chiodo intensamente con il suo unico occhio azzurro, anche lui, così piccolo, aveva aderito alla causa, anche lui preferiva la morte e l’annientamento dell’umanità a quella parodia di vita costruita su fondamenta di plastica.
“Io allora vado.” Disse Chiodo.
“Aspetta, non ho ancora finito!”
Orca stava preparando un complesso composto chimico, frutto di anni di studio, era una formula alternativa all’ossigeno, ma non aveva gli stessi risultati, era una sorta di droga che alterava tutti i valori del corpo, dopo mezz’ora di autonomia invadeva l’organismo creando conseguenze devastanti, i polmoni sarebbero bruciati, infiammati dall’interno.
Chiodo voleva iniettarsi quell’intruglio prima possibile, aveva un ultimo conto in sospeso prima dell’apocalisse, e se dopo il sabotaggio dei generatori lui non fosse ancora riuscito a compiere l’opera prefissa nella sua mente ormai da una vita, allora il composto letale lo avrebbe aiutato per un’ultima mezzora di morte; voleva assassinare il gran maestro, torturarlo con sadismo come era stato fatto con suo padre nei templi del bondage.
“Ecco, è pronto! Anche se non so come farai a raggiungerlo quel bastardo, tanto domani sarà morto lo stesso!”
Orca disse ciò mentre ammirava il liquido verdazzurro che aveva concepito di sua mano.
“Voglio andare con lui Orca!” Il bambino, conscio della sua situazione di terrorista suicida, voleva spingersi oltre e aiutare l’azione di Chiodo, un indomabile rancore doveva agitarsi perpetuo nel suo piccolo petto, non poteva essere altrimenti.
“No Jacobin, è una cosa che voglio fare da solo!”
“Ma quell’infame non ha rovinato solo la tua di vita, non puoi essere così egoista!”
Orca strinse le mani intorno alle spalle del bambino e lo guardò con uno sguardo rassegnato:
“Potrebbe fallire, potrebbero fargli cose orribili, è meglio che stai qui Jacobin!”
Il bambino lacrimò, corse tra le braccia di Chiodo e lo strinse con forza nervosa.
“Spero che rivedremo gli alberi piccolo, spero che domani saremo in una verde pianura come era un tempo qui, spero Dio voglia farci un nuovo regalo.”
Così dicendo Chiodo prese la fialette che gli aveva preparato Orca, portò con se una siringa e una borsa nera contenente tutte le armi che era riuscito a racimolare.
“Allora io vado, mi resta un’ultima cosa da fare prima della grande libertà!”
“Sicuro che le cariche sono a posto?”
“Devi solo premere il tuo pulsantino Orca!”
“Bene, e ci sono stati tanti morti?”
“Tantissimi!”
“Speriamo che nessuno se ne accorga!”
“Speriamo!”
Chiodo chiuse la porta alle sue spalle e discese le scale con trepidazione infantile.
Attentare alla vita di Gilles Kitch non era cosa semplice, già il fatto di essere arrivati indenni e indisturbati ai generatori testimoniava la bravura e la caparbietà degli uomini dell’azione rivoltosa, ma una cosa erano i generatori(Gilles nella sua natura di uomo mediocre pensava che nessuno fosse così stupido da farli saltare in aria uccidendo se stesso e l’intera umanità.)cosa ben diversa era invece l’incolumità di quel pusillanime, Gilles era l’uomo più vile, codardo e ipocondriaco del mondo, era impossibile arrivare a lui a meno che tu non eri una bambina o uno spacciatore di cristalloanfetaminarosa; i bambini erano gli amanti preferiti del maestro, mentre con gli spacciatori-chimicoproduttori egli preferiva avere sempre un rapporto diretto.
Ma Chiodo non poteva simularsi chimicoproduttore, quei figli di puttana sono dei cervelloni, hanno un linguaggio tutto loro che pochi possono tentare di emulare.
Non gli restava che la strada dell’azione, la sua preferita del resto, entrare nel palazzo era impossibile, non aveva che una alternativa, spiazzarlo non appena fosse uscito per la predica pubblica al bondage della chimica al Colosseo, era uno spettacolo raccapricciante che si teneva ogni sera proprio al Colosseo, o almeno quello che ne restava, lì il maestro curava l’opinione pubblica e parlava ai suoi affiliati dei suoi folli propositi su come sarebbe andato il mondo in futuro, era una pazzia che tutta quella gente stesse lì a sentirlo, ad applaudire alle cazzate di un uomo vestito come una carota di cartapesta.
Chiodo raggiunse il palazzo, era pieno di controllori intorno, dunque non usò le strade usuali per raggiungerlo, percorse la rete fognaria avvalendosi di una cartina studiata da anni, si appostò sotto un tombino proprio vicino all’entrata, quante volte si era allenato su quel percorso, quante volte aveva pensato:
“Quando sarà il momento già sarà tutto scritto, il cuore mi sobbalzerà in gola mentre starò andando a torturare quel fantasma già morto!”
Non aveva sulla coscienza le sorti dell’umanità, chi si era piegato a Gilles aderendo al suo monopolio estetogerarchico meritava la morte, era gente che viveva con geishe artificiali, masturbatrici robotiche, manichini factotum, animali esotici manipolati geneticamente; non erano uomini, erano alieni mostruosi. Per quanto riguardava il resto della popolazione, quelli che subivano, quelli che si facevano massacrare nei templi del bondage, per loro sarebbe stata di sicuro una liberazione.
Attese qualche ora, erano quasi le dieci di sera, a mezzanotte sarebbero esplosi tutti i generatori del mondo esteticocivile, aveva dunque soltanto due ore.
Finalmente il ridicolo corteo del maestro varcò l’uscita del palazzo di vetro soffiato, era una carnevalata priva di decenza.
Donne imbellettate con cere simili a maschere precedevano la vettura di Gilles, piume di pavone variopinte ornavano i loro corpi transessuali, giocolieri forzati in tute argentate saltellavano qua e là.
Il maestro era seduto come un sultano su di una scultura titanica, una sorta di lavatrice oblunga dagli oblò laterali contenenti polveri dorate, probabilmente afrodisiaci attui a ingraziarsi gli spettatori persuadendoli all’orgia, dei tubi trasparenti dai colori eccentrici fuoriuscivano dal cuore della scultura e finivano direttamente nel naso e nella bocca del maestro, aria mista a droghe chimiche estasiava la sua parata.
La scultura-trono era sorretta a spalla da uomini muscolosissimi, pompati artificialmente e imbottiti di misture chimiche, mostri culturisti oleati come maiali imbevuti nella sugna, coperti da perizoma filiformi e nulla più, qualcuno di loro aveva qualche strano ornamento, tipo collari introno al minuscolo membro annegato nei muscoli artificiali, collari legati a catene dorate che terminavano direttamente nelle mani inanellate del maestro o delle sue padrone inguainate nel lattice lilla.
I controllori erano posizionati a schiera coprendo i due lati della parata, davanti e dietro vi erano altre file formando così un rettangolo di protezione.
Il maestro, vestito di un rigido cono dorato che si restringeva alle caviglie e coperto da un berretto immenso, simile ad un polipo di taffettà che allungava le sue immonde zampe, sorrideva strafatto e salutava la folla drogata, il suo trono forniva aria alla massa, aria truccata con scopi precisi.
Quando il trono fu abbastanza vicino Chiodo balzò fuori dal tombino, aveva dieci granate nella borsa, residuati bellici di un defunto passato, ne lanciò due avvalendosi di ciascuna mano, e l’esplosione disperse la folla di pagliacci, poi si fece avanti mitragliando senza togliere nemmeno per un istante il dito dal grilletto dell’enorme fucile d’assalto che aveva imbracciato.
Quelle raffiche falciarono gran parte dei controllori, parecchi culturisti si erano spappolati in seguito all’esplosione delle granate, altri erano caduti sotto la letale pioggia di colpi, era curioso vedere come il loro corpi gonfi quasi non sanguinassero, al posto del sangue dentro di loro era rimasta solo la chimica e il silicone.
La scultura-trono cadde di lato in un tonfo ciclopico, mentre Chiodo si faceva strada cercando di afferrare il maestro intontito.
Nessun controllore riusciva a colpire Chiodo, si faceva continuamente scudo con altri corpi, finalmente riuscì ad arrivare a Gilles, che ancora non poteva credere a un simile, arrogante affronto.
Appena Chiodo ebbe modo di toccarlo il sangue accelerò implacabilmente il proprio flusso, non seppe trattenersi, gli mollò un pugno dritto nei denti con lo sdegno di chi vuole causare molti danni.
Il maestro emise un gemito femmineo, mentre nella ressa e la confusione Chiodo lo portava via strattonandolo e sparando a chiunque, c’era troppa folla.
“Non ce la farò mai!”
Sparò al conducente di un pulmino elettrico e vi montò su con il maestro, dopo il monopolio dell’aria furono aboliti i mezzi a carburante, sostituiti da quelli a energia elettrica, lentissime schegge inutili.
Era frustrante correre a quella velocità vergognosa, lo avrebbero raggiunto in un secondo con mezzi volanti, così si gustò un bel po’ di pestaggio percuotendo il maestro con crudeltà inaudita, sbattendogli la testa conto il vetro ripetutamente. Era felice, il suo sogno di una vita era all’apice della sua realizzazione, stava pestando quel porco di Gilles vendicando il mondo, scaricando tutta l’energia negativa che aveva accumulato nel corso degli anni.
Il maestro piagnucolava, era proprio come se lo era immaginato, un frocio impaurito e castrato.
Chiodo estrasse un antico revolver, stupendo, argenteo, luccicante, sparò in un ginocchio del maestro, poi a uno stinco, infine nell’inguine.
“Voglio che tu muoia senza aria, come gli arabi, come li hai fatti schiattare tu! Voglio osservarti boccheggiare porco schifoso!”
Il maestro piangeva, singhiozzava come un bambino bastardo che viene sgridato e piagnucola non per pentimento, ma unicamente per uscire indenne dalla sporca situazione.
Intanto la confusione regnava in ogni strada, tutte le autorità si erano mobilitate e inseguivano il terrorista che aveva rapito il capo dello stato, non riuscivano a bloccarlo poiché Chiodo si lanciava contro i posti di blocco come se avesse voluto sfondarli, e la prima cosa da salvare per le autorità era l’incolumità di Gilles.
Quasi mezzanotte, doveva resistere ancora un po’.
Fu una corsa sfrenata, dove a tratti Chiodo perdeva la sua coscienza, immergendosi in pensieri ieratici, stava per finire tutto, l’umanità cancellata da se stessa, e nessuno sapeva niente, anzi pensavano a salvare il colpevole principale di quell’aborto.
Il pulmino continuava la sua folle marcia senza meta, fino a quando non scoccò la mezzanotte, e il cielo si ghermì di imponenti fuochi d’artificio, esplosioni ovunque fecero tremare e crollare le sciocche, effimere costruzioni di vetro erette dai porci dell’umanità, e questo stava accadendo in tutto il mondo.
Il cuore di Chiodo si riempì di gioia, gioia feconda, galvanizzante.
“E’ l’ora, è l’ora cazzo, boccheggerai bastardo, boccheggerai come hanno fatto in tanti!”
Il cielo ormai era una nube di fuoco, ovunque ragnava il caos e nessuno tranne i membri reazionari sapevano cosa stava succedendo, la gente ignorava che di li a poco il genere umano sarebbe morto in una straziante agonia priva di ossigeno.
Chiodo guidò per un po’ tra fumo e vampate infuocate, voleva raggiungere il deserto fuori città.
“Guarda maestro del cazzo, osserva il tuo impero crollare! Pazienta, siamo quasi arrivati.”
Si fermò in mezzo al deserto scarlatto, già si percepiva nell’atmosfera la mancanza d’ossigeno, la testa cominciava a farsi pesante sotto una indicibile pressione.
“Hai capito finalmente stronzone cosa abbiamo fatto?”
E gli mollò un tremendo calcio in bocca, a Gilles mancava l’aria e cominciava a capire, osservava Chiodo con patetici, attoniti occhi. Anche Chiodo avvertiva la mancanza d’ossigeno e percepiva l’aria infuocata proveniente dalla città avvicinarsi.
Estrasse la siringa dalla borsa, con essa tirò su il liquido contenuto nella fiala e con decisione se lo iniettò nella vena del braccio, Gilles continuava a fissarlo, con il volto gonfio dalle percosse:
“Ti chiedi cosa faccio maiale? Uno come te non può immaginare cosa si farebbe per la vendetta, uno del tuo stampo non può provare sentimenti tanto forti, questo liquido mi brucerà i polmoni, ma mi consentirà di vederti schiattare contorto dall’asfissia, morirò in preda a dolori inimmaginabili, ma è un prezzo che sono disposto a pagare, non penso che tu possa capire, non me lo aspetto di certo, non temo il dolore nè la morte, no, non li temo perché oggi è il giorno più bello della mia vita.”
Il liquido cominciava a fare effetto, gli infondeva sensazioni di onnipotenza e strani stadi di delirio, intanto il mondo stava morendo, badando al dolore delle contrazioni polmonari e non alla riacquistata libertà che Gilles aveva avvolto in prigioni di plexiglas.
Chiodo si sedette comodamente osservando il maestro agonizzare, boccheggiava rosso in volto proprio come se l’era immaginato, strisciava sulle scorie polverose del deserto di metallo mentre si contorceva nei suoi ultimi spasmi di vita, finalmente morì e Chiodo spappolò quel corpo esanime crivellandolo di proiettili, poi felice volse lo sguardo verso la città in fiamme:
“Liberi, tutti liberi finalmente!”
Sorrise e cominciò a sentire il bruciore previsto, i suoi polmoni stavano prendendo fuoco incendiando il suo interno, si, stava prendendo fuoco proprio in quel momento e lo strazio lancinante glie lo faceva avvertire con chiarezza, diede un ultimo sguardo al corpo martoriato di Gilles e urlò per le fitte insopportabili.
“Ne è proprio valsa la pena!”
Pensò l’ultimo uomo della terra mentre bruciava.
Davide Giannicolo