Sbilla, contadina modesta e di grazie delicate, era in preda
all’emozione più grande della sua vita, nonostante fosse notte fonda era
impossibile abbandonarsi al sonno, il giorno dopo avrebbe sposato il suo amato
Black, un matrimonio semplice ma appoggiato e salutato con festa da tutti gli
abitanti del villaggio. Il suo gracile petto di colomba era colmato da una
smaniosa trepidanza, tutto era pronto, persino la loro piccola casa attendeva che le stanze ora
vuote si riempissero della fragranza della loro prima notte d’amore.
Anche i suoi fratelli erano agitati, raccolti intorno al
padre comunicavano attraverso il silenzio la malinconia lieve che li
percorreva, Sibilla era la loro unica sorella, era doloroso il pensiero di non
poter più sentire la di lei virginale e gioiosa presenza tra le mura di casa.
Presto i primi raggi del sole si allungarono per toccare le
guance della promessa sposa,riscaldandole di un puro tepore.
Sua madre entrò poco dopo nella piccola stanza e nel
trovarla già desta sorrise comprendendo.
“Stai tranquilla, dopodomani già comincerai ad abituarti
all’idea di essere moglie.”
Sibilla pianse, in effetti sentiva l’emozione valicarla,
impadronirsi di lei, era piacevole quanto spiazzante, più si avvicinava il
momento e più sentiva l’ansia di un qualcosa d’ignoto che l’aggrediva di
sorpresa, mentre poco prima questo qualcosa se ne stava nascosto dietro il velo
dolce dell’attesa.
Bastò dire un po’ di sciocchezze e si tirò subito su, era
l’emozione che confonde anche le menti più lucide.
Con l’aiuto di sua madre in pochi minuti tutto fu pronto.
Nel suo modesto abito bianco Sibilla era splendida, le
chiome corvine le ricadevano radianti e lucidissime sulle piccole spalle, il
suo sorriso era largo e luminoso, naturale come la fonte che scolpisce la
roccia con il suo dolce incedere, la felicità regnava incontrastata in ogni
fibra della stupenda ragazza.
Taddinio, il suo piccolo cugino di sangue spalancò la porta,
Sibilla si voltò verso di lui e sorrise, quegli occhi emanavano un liquido
bagliore che abbagliava di lucori diafani, infatti il bambino sobbalzò tirando
un grosso sospiro, poi la sua faccia esterrefatta lasciò spazio ad un sorriso.
“Sei bellissima cugina mia!”
“Sei gentile Taddinio, ma è quasi ora, andiamo.”
Prese la mano del bambino e tutti e tre si incamminarono
discendendo le scale ove tutta la famiglia era riunita per ammirare Sibilla in
tutto il suo splendore.
Ognuno fece il suo commento tre risa gioiose e giulive
esultanze di sottofondo, poi i suoi due fratelli maggiori, impettiti e con il
portamento fiero le aprirono la porta, pronti ad accompagnarla all’altare della
piccola chiesa del villaggio.
Blanck era già lì ad attendere da tempo con il suo sorriso
bonario e i capelli arruffati.
Quando Sibilla giunse all’altare i due si scambiarono un
reciproco sguardo di amorevole contemplazione.
“E’ finalmente mia!” Pensò Blanck con orgoglio.
Presto il prete li raggiunse e la cerimonia ebbe inizio,
erano state appena pronunziate le parole
formali quando la porta della chiesa fu spalancata.
Tutti si voltarono verso l’entrata e videro un anziano
contadino massacrato da frecce cadere in ginocchio, il povero uomo ebbe solo il
tempo di dire poche parole prima di spirare:
“Sono i membri del culto oscuro, sono qui per la vergine.”
Nel frattempo una lancia penetrò il suo petto scagliata
dall’esterno.
*
Si diffuse il panico, Sibilla osservava Blanck preoccupata,
i suoi fratelli afferrarono i candelabri più alti e lo stesso fece il loro
padre, insieme attendevano oscurati dall’impellente disdetta.
Le selvagge grida esterne cessarono, il silenzio fu infranto
dal trotto di un enorme cavallo nero che maestoso e lento scheggiava coi suoi
zoccoli il marmo della chiesa incedendo.
Il cavaliere che cavalcava il destriero era altrettanto
enorme, un guerriero del culto oscuro con il volto dipinto coi colori della
morte, dalla sua bocca scorreva un rivolo di sangue, certo non suo, poiché i
guerrieri oscuri erano cannibali oltre che turpi individui votati al sadismo
più efferato.
I capelli unti e raveni del guerriero erano legati
disordinatamente, una pelliccia nera copriva le sue larghe spalle, se era di un
orso nero significava che costui era un generale, e sembrava proprio fosse così
data l’ampiezza di quel manto, i guerrieri razziatori di rango inferiore
potevano indossare solo pelli di lupo.
Una spallina di cuoio nero borchiato era la sua unica
protezione.
Presto le incisioni simili a tatuaggi che portava
sull’avambraccio, mostrate con fierezza, rivelarono il reale rango di quel
uomo, portava incise la luna e la madre dea che ricama col sangue la sapienza
degli astri, quello non poteva essere che Vorcle, il mangiatore di uomini, capo
supremo del culto oscuro.
“Consegnatemi la donna e vivrete, o farò di voi il nostro
trastullo.” Solo questo egli disse, in un sospiro malinconico che terminò in un
sorriso diabolico, anche i suoi denti erano impregnati di sangue.
I fratelli di Sibilla le si misero innanzi come fossero
scudi, erano troppo fieri e decisi per non provocare l’ilarità del guerriero.
Infatti Vorcle con gli occhi iniettati di sangue e follia
lanciò una risata sinistra fino a che una schiuma sanguigna gli colò dalla bocca, afferrò il piccolo
Taddinio per i capelli e lo scannò come un agnello, dinnanzi a questo atto così
cruento i due fratelli si scagliarono contro di lui, ma la spada e lo stiletto
di Vorcle trafissero i giovani petti vanamente sagaci.
Un cenno d’intesa bastò a scatenare la furia efferata delle
bestie senza dio che attendevano all’esterno della chiesa.
Blanck fu sodomizzato davanti ai lacrimanti occhi della
povera Sibilla.
“Guarda il tuo effeminato uomo come gode dei piaceri dei
miei forti uomini!” Gridava Vorcle divertito mentre flagellava il prete
inchiodato all’altare, gridava ancora parole blasfeme in preda ad un selvaggio
furore mentre il sangue del sant’uomo gli schizzava sulla faccia.
Piangeva Sibilla, impotente, mentre osservava attraverso una
nube di lacrime i suoi cari cadere uno dopo l’altro, torturati e scempiati da
quella turpitudine senza nome che era giunta a disgregare la sua felicità e a
segnare per sempre il suo animo.
L’ultima vittima viva era sua madre, che implorava pietà
mentre un nano, anche lui con il volto truccato, le azzannava ferocemente i
capezzoli, altri la tenevano ferma dopo averle lacerato le vesti. Vedere il
corpo di sua madre nudo, sanguinante, dibattersi tra le laide lascivie di un
nano aberrante e dei suoi compagni figli del diavolo, tutto ciò le gonfiò le
tempie fino a farla svenire dal dolore.
Sibilla fu legata saldamente e venne sollevata sul cavallo
di Vorcle, si risvegliò fra oscuri boschi osservando confusamente gli alberi
sfrecciare lungo la corsa a galoppo.
Aveva sentito leggende sul culto oscuro, dicerie sussurrate riguardo le
scorribande nei paesi vicini, pensava fossero solo cupe fiabe raccontate
accanto al fuoco, invece quella che stava vivendo era un orribile realtà, il
forte braccio di un sanguinario assassino la stringeva forte alla sella,
sentiva intorno il gruppo di circa venti scellerati bestemmiare e dedicarsi a
discorsi la cui depravazione violava l’umano.
Vorcle gridava nella foga della corsa sfrenata di avere nel
suo castello un fanciullo, narrava cose aberranti, lo costringeva a indossare
abiti da sposa e lo usava come sollazzo assoggettandolo alle più atroci
umiliazioni.
La cavalcata proseguiva mentre Sibilla veniva rosicchiata
dalla sua stessa paura resa inesorabile da quelle ignobili manifestazioni di
brutalità.
Trascorsero due giorni, due giorni di viaggio interrotti da
poche soste, durante quelle soste Sibilla ebbe modo di apprendere nuove,
agghiaccianti notizie riguardo la sua sorte.
Doveva essere
sacrificata sugli altari intrisi di sangue di una nera caverna ai quali i
guerrieri si riferivano come fosse il loro covo, gli scellerati avevano una
sorta di pretesto spirituale che giustificava le loro macabre azioni, ma
sembravano più che altro assoggettati da Vorcle; fosse stato per loro, Sibilla
lo sentiva, l’avrebbero stuprata e uccisa fin da subito, ma parlavano con
timore di Vorcle e del suo culto, non avrebbero mai osato violarne le regole.
Era loro diritto però possederla una volta consacrato il
rituale, e Tiran il nano già pregustava l’evento annunciando che sarebbe stato
il più crudele e fantasioso.
Sibilla fu anche testimone delle bestiali abitudini dei suoi
rapitori, mangiavano carne cruda, si accoppiavano con animali e spesso anche
tra di loro, costoro sembravano essere il parto più ignobile cresciuto in seno
al nero capro diabolico che domina i boschi, nulla si avvicinava a un demone
quanto un membro del culto oscuro.
Sibilla piangeva ogni notte, e ogni notte, sin dall’inizio
Vorcle la fece sua violando la sua verginità e dunque rendendo inutile quella
vittima. Vorcle non era uomo da nascondere i suoi intenti e cominciò a
dominarla incurante degli altri sussurrando parole impensabili per una bestia
di tal fatta,
Sibilla era alienata in una dimensione di totale
estraniazione quando l’uomo la possedeva, esiliata nel suo dolore cercava di
non sentire la viscida serpe che si stava insinuando nel suo ventre.
“Non ti sacrificherò, verrai con me al mio castello, ti
rapirò poiché tu hai rapito il mio cuore.”
“Come puoi tu parlarmi d’amore, tu che hai sterminato la mia
famiglia, il mio sposo, e avevi intenzione di concedermi ai tuoi guerrieri come
hai fatto con mia madre.”
“Il mio è un cuore barbaro, ognuno ha il suo modo d’amare e
tu ti abituerai al mio, volente o nolente.”
Dicendo ciò Vorcle abbandonò Sibilla alle sue lacrime e nudo
s’addentrò fra gli alberi.
Il cuore feroce del guerriero era stato realmente domato
dalla bellezza pura della fanciulla, trascorreva malinconiche notti insonni da
solo, accanto ai ruscelli con il cupo sguardo immerso in tetre, silenti
meditazioni, Vorcle non fingeva, egli non sapeva fingere, per quanto fosse
pazzo e brutale egli non era mai stato falso, il mangiatore di uomini a suo
modo si era innamorato.
Ma il suo cuore che non aveva mai provato quella sensazione
non conosceva delicatezze, per amare la sua Sibilla usava l’unica maniera da
lui conosciuta, la strada della brutalità.
Sibilla riconosceva in lui, specie nei suoi occhi, quella
fiamma ardente che provava per lei, ma quell’uomo così crudele non meritava
nemmeno di pensare una cosa del genere, quello che aveva fatto era
imperdonabile.
*
Una notte, mentre Sibilla era immersa nei suoi pensieri, la
piccola figura di Tiran varcò la soglia della sua tenda, pronto a divertirsi e
a violare qualsiasi ordine pur di soddisfare la propria brama bestiale, il nano
offendeva la fanciulla con le più crudeli imprecazioni. Non appena la mano di
Tiran tentò di sfiorare Sibilla, Vorcle apparve dietro di lui, il colosso non
perse tempo e afferrò l’omuncolo rompendogli brutalmente il collo come fosse
uno stele.
Sibilla approfittò di quello stato di confusione, e con
determinazione e coraggio sgattaiolò dalla tenda e si dileguò protetta
dall’immensa oscurità dei boschi.
Presto in un iracondo frastuono Vorcle riunì il gruppo di
guerrieri, molti furono uccisi al fine di chetare la rabbia immensa che gli
pervadeva le membra a causa di quella stupida fuga.
“Siete degli idioti, giacete ubriachi senza nemmeno
sorvegliare un prigioniero, ma che razza di guerrieri siete? Se non la
riporterete indietro vi impalerò tutti e sono sicuro che nemmeno i corvi
vorranno toccare le vostre miserabili carni, avrei fatto meglio a portare con
me Tarantula, solo lui vale più di cento di voi stolti. Andate, cosa aspettate
andate MALEDETTI!!!!!”
Il gruppo si lanciò in un cieco inseguimento, nessuno sapeva
da che parte Sibilla fosse scappata, Vorcle con occhi folli era in testa alla
cavalcata e speronava a sangue il suo cavallo, determinato a recuperare colei
dalla quale aveva appreso l’amore.
Sibilla correva delirante, il cuore le tuonava nel petto
all’impazzata facendole credere di star per esplodere, sentiva le selvagge
grida dei suoi inseguitori vicinissime, ma nella sua folle corsa, d’un tratto
incontrò un ostacolo sulla sua strada, un qualcosa di duro come roccia, vi andò
a sbattere e rotolò all’indietro, quando alzò gli occhi in preda ad una febbrile
agitazione, vide dinnanzi a lei un cavaliere, la sua statura era simile a
quella di Vorcle, il suo corpo era completamente avvolto nelle scaglie d’una
rossa, fiammeggiante corazza, cupe e tenebrose dall’elmo serrato uscirono le
sue parole:
“Da cosa scappi fanciulla? Leggo una indomabile paura nei
tuoi occhi, non riceverai alcun male dalla mia spada, anzi, essa è al tuo
servizio.”
“Non siete voi colui che temo cavaliere, il culto oscuro
m’insegue, hanno ucciso la mia famiglia e Vorcle stesso vuol prendermi in
sposa.”
“Non temo il culto oscuro fanciulla.”
Intanto i guerrieri si annunciarono con violente grida, non
appena giunsero alla loro vista, il cavaliere si parò innanzi a Sibilla come un
muro ferrato, poi ruggendo si scagliò contro il gruppo.
In pochi istanti in sette caddero sotto i suoi poderosi
colpi mentre Vorcle li osservava con in volto un fiero sorriso, i due avevano
l’aria di conoscersi, anche il cavaliere, affannato lo attendeva con la spada
issata, immobile e possente.
Vorcle discese dal nero cavallo e ringhiò:
“Questa donna è mia e verrà con me!”
Il cavaliere non si mosse d’un centimetro, era ancora
innanzi a Sibilla.
“Non verrà se non lo vuole!” infine disse.
Vorcle sguainò la spada e si lanciò contro il fiero
cavaliere che lo emulò senza perder tempo.
L’impatto fu spettacolare, velocissimi colpi di spada
venivano scagliati con ugual foga, violenti fendenti parati e restituiti con
ferocia e indomabile forza da entrambi, Vorcle era guidato dalla furia
dell’amore, ma da dove proveniva la sofferenza che rendeva il cavaliere suo
rivale così determinato? Solo un dannato può lottare con quell’ardore. I due
erano troppo equilibrati, e al chiaro di luna continuarono a scambiarsi letali
colpi, mentre si affrontavano con furia sanguinaria,Sibilla indisturbata ne
approfittò per scappare ancora.
I guerrieri non badarono a lei, tanto furiosa era la loro
violenza che in un vibrante colpo le due spade si spezzarono, seguì uno scontro
a mani nude, gli alberi caddero sotto le loro spinte fino a che entrambi caddero
sfiniti in terra.
“La donna è lontana ormai!” Disse il cavaliere.
“La raggiungerò, ovunque essa sia.”
*
Sibilla scappava da cinque giorni nel fitto dei boschi, non
faceva altro che pensare al cavaliere dall’armatura rossa, l’aveva salvata con
disinteresse solo perché il suo cuore era nobile, forse era morto sotto i colpi
del mangiatore di uomini, forse aveva avuto la meglio, o probabilmente dato
l’equilibrio tra i due si erano ammazzati a vicenda.
Chissà quale magnifico volto si celava sotto quell’elmo, il
magnificente cavaliere poteva lenire il recente dolore della perdita di Blanck.
Si nutriva della immagine sbiadita di lui maestoso che si
scontrava contro il grande Vorcle furente d’amore per lei, la grande bestia, il
mangiatore di uomini incapace d’amare che infine aveva pianto per una ragazzina,
Sibilla vedeva in lui un uomo guidato dal destino, inconsapevole dell’atrocità
dei suoi gesti, in fondo provava pena per Vorcle.
Immersa nei suoi pensieri la bella Sibilla udì un rumore, si
voltò di scatto e si trovò di fronte il cavaliere dall’armatura rossa. La
ragazza sussultò, ma subito, nel riconoscerlo in lei si fece spazio un sorriso.
“Mia bella dama, Vorcle il sanguinario vuole farti sua, ti
troverà, stanne certa. Accetta la mia protezione e vieni con me alla mia umile
casa, te ne prego, se non vuoi farlo per il tuo bene allora fallo per il bene
della mia anima.”
“Perché hai tanto a cuore il destino di questa misera
sventurata? Ho imparato a non credere ai nobili fini.”
“Troppo tempo ho vissuto immerso nella mia malinconica
solitudine e un volto come il tuo è arte per il mio spirito, la tua voce è
dolce musica che m’allieta e mi fa sospirare, la tua sola presenza nella mia
dimora sarebbe raggio di splendente, sempiterno astro del mattino.”
“Verrò con te allora.” Disse Sibilla sorridente e maliziosa,
dentro se vi era un tripudio di sensazioni dirompenti e impetuose come lo
scorrere d’una fonte di delizie, le parole di quell’uomo erano così nobili,
così degne d’un poeta, la sua spada aveva pareggiato con quella di Vorcle,
cos’era costui se non la perfezione?
“Ma dimmi, qual è il tuo nome cavaliere?”
“Scarlatto mi chiamano i boscaioli oh mia signora.”
Cavalcarono dolcemente per circa venti minuti e giunsero
alla casa di Scarlatto, Sibilla si reggeva a lui incantata dalla sua fermezza a
cavallo, stettero in silenzio, ciascuno rapito da pensieri di cui l’altro
ignorava la matrice.
La casa era precaria, una capanna di tronchi con il tetto di
paglia, ma il paesaggio in cui era immersa era sconvolgente, fitti alberi
sorgevano maestosi intorno e un limpido ruscello scorreva dolce alla sinistra
della casa.
“Questa è la mia umile capanna mia bella Sibilla.” Disse
Scarlatto facendole strada.
L’interno era povero ma accogliente e l’unico letto di
paglia fu presto da Sibilla occupato.
La ragazza s’abbandonò ad un sonno profondo, erano accadute
tante disgrazie, ma finalmente si sentiva al sicuro, si addormentò con un
leggero sorriso sulle labbra mentre cupo Scarlatto vegliava il suo sonno
contemplando l’innocenza di quella immacolata bellezza.
Il cuore dell’uomo ardeva, l’amore lo logorava dall’attimo
stesso in l’aveva scorta per la prima volta durante la sua fuga, doveva
affondare la spada nel cuore di quella donna prima che si fosse impiccato dal
dolore, egli non poteva amare.
Una strana luce brillò dagli occhi di Scarlatto al di sotto
dell’elmo rosso sangue, era una lacrima.
*
Così trascorsero molti mesi, i due vivevano serenamente e
Sibilla pareva aver affievolito un po’ delle sue trascorse tragedie, anche se
di notte a volte madida si destava di soprassalto dopo aver sognato l’impetuoso
Vorcle cavalcare nella tempesta simile ad un demonio per giungere a portarla
via. Molte volte Sibilla aveva fantasticato sul volto di Scarlatto, ma mai egli
si era fatto scorgere. C’era qualcosa di profondamente poetico in questo, era
come se il cavaliere avesse paura d’una ignota forza. A volte i loro corpi
erano terribilmente vicini, come flussi magnetici i loro desideri si
attraevano, ma sempre vi era la corazza del cavaliere a frapporsi fra loro, e
allora lui scappava e cavalcava per ore da solo lasciandola immersa in tristi
pensieri.
Un giorno, destatasi di buon ora Sibilla trovò Scarlatto già
sveglio.
“Buon giorno lady Sibilla, spero che il modesto letto sia
stato degno del vostro sonno.”
“Il letto era perfetto, non so come ringraziarvi. Ma questa
mattina al mio risveglio un cupo pensiero mi ha assalita, siete sicuro che
Vorcle non verrà in questa valle?”
“Vorcle non può arrivare fin qui, gli è proibito, non mi
chieda il perché madamigella.”
L’uno di fronte all’altra i due si sfiorarono lievemente le
mani, la piccola Sibilla guardava dal basso, con venerazione il grosso
cavaliere, Scarlatto respirava profondamente, travolto da emozioni impetuose.
Restarono lungamente in uno stato di reciproca
contemplazione, fu un tuono improvviso a destarli dal sogno inebriante, seguitò
una pioggerella che presto mutò in temporale.
Si rifugiarono così velocemente nella capanna, anche se
Scarlatto avrebbe preferito congelare il tempo in quell’istante divino.
Sibilla era avvolta da una bianca veste ora fradicia, era
stupenda con il pallido volto contornato dal nerissimo crine gocciolante, ci fu
un momento di silenzioso imbarazzo, fino a che ella non scoppiò in una briosa
risata.
Scarlatto restò mesto, le si avvicinò lentamente e le posò
un dito alle labbra come per farla tacere, dolcemente, con la delicatezza d’una
piuma di cigno che si posa sul bianco ventre d’una vergine.
“Un fuoco violento e devastante arde dentro me Sibilla, io
ti amo e ti venero come una dea splendente che illumina la tenebra infinita del
mio cuore fin ad ora addormentato, fino a quando tu resterai qui io verserò
ogni notte lacrime di dolore infausto.”
“Parli come chi ha già ricevuto un fatale verdetto
cavaliere, ma anch’io sentii qualcosa sin dal principio, anch’io vorrei
perdermi adesso tra le tue braccia ma sono frenata da questa tua paura, cosa ti
affligge nobile uomo? Cosa ti impedisce di mostrare il tuo volto? Anch’io bramo
le tue labbra.”
Scarlatto si allontanò da lei impaurito, dopo un luttuoso
silenzio disse con tono greve e cupo:
“Non posso mostrarti il mio volto, scapperesti da me
impaurita, non posso amarti, la tua bellezza non si addice ad un abominio.”
“Non credo a tutto questo tuo terrore, il tuo animo è troppo
nobile e bello e non si può non amarlo, se tu ami dunque me come io ti sto
amando, ebbene non vedrò il tuo volto, il nostro sarà un platonico amore, mai
ci sfioreremo, il nostro amore sarà fatto di nobili gesti e dolci parole.”
“Come tu vuoi Sibilla, come tu vuoi!” Disse Scarlatto
tristemente e le prese delicatamente la mano.
Ancora più velocemente passarono i giorni dopo che entrambi
confessarono il loro amore che di giorno in giorno diveniva più forte,
nonostante la loro carne non si sfiorasse mai.
Passeggiavano al mattino lungo i ruscelli nel bosco,
coglievano fiori e si scambiavano dolci
parole d’amore, ma vi era sempre qualcosa di mesto e fatale negli atteggiamenti
di Scarlatto, qualcosa di cupo e inesorabile.
Di notte Sibilla era a volte assalita da strane visioni,
vedeva in sogno un abominio storpio e gobbo tendergli la mano, ma era troppo
ripugnante perché potesse toccarlo, si
svegliava di colpo e Scarlatto non c’era, fuori dalla finestra occhi rossi la
guardavano colmi di lacrime.
Al mattino parlava di quei sogni al suo amato, ma Scarlatto
sembrava incupirsi a quelle parole e cambiava discorso, lo stesso accadeva
quando lei gli chiedeva del suo passato.
L’uomo che Sibilla amava non era altri che uno sconosciuto,
una figura oscura e malinconica, ma il loro amore era troppo grande e non
poteva spezzarsi con tanta semplicità, anche se di tanto in tanto la ragazza ricordava
Blanck e si sentiva sacrilega per non averne rispettato degnamente la memoria
commemorandone il lutto, si era completamente dimenticata di lui, massacrato
sull’altare, e ora si rifugiava tra le braccia d’un uomo mascherato che
rifiutava di rivelarle il suo volto.
Ma a chetare il suo senso di colpa vi era la tangibile
verità, Scarlatto l’aveva salvata da una misera sorte, Vorcle e le sue barbarie
erano spariti dalla sua mente grazie a lui e se non fosse giunto in quella
notte, lei adesso vagherebbe in una valle di ombre e umiliazione.
Eppure Vorcle la toccava, pur non vivendo l’idillio che ora
erano i suoi giorni di poesia, ella era la sua preda ogni notte e nonostante
l’atrocità di quelle violenze Sibilla era attratta dal brutale piacere che provava
schiava delle rozze mani del cannibale.
A volte quando era presa dall’estasi del desiderio pensava
con colpa lasciva che avrebbe ripetuto quella esperienza proibita, avrebbe dato
qualunque cosa, accesa da una voluttuosa fiamma al ventre, affinché Vorcle apparisse in sella al suo destriero a
liberarla da quel fuoco, offendeva Scarlatto in preda a spasmi carnali e
irrefrenabili, pensava fosse un megalomane fanatico.
Ma una volta placati quegli attimi di febbrile delirio
mediante le sue dita affusolate si sentiva sporca, si chiedeva con vergogna e
orrore come aveva fatto a invocare l’arrivo di colui che aveva sterminato i
suoi cari e abusato di lei difendendosi dietro uno scudo che lui osava chiamare
amore.
Così in lacrime correva verso Scarlatto, lo stringeva forte,
affondando il volto delicato nel suo petto ferrato gli confessava per la
millesima volta il suo amore.
Immobile Scarlatto la stringeva a sé, irrorandole i
nerissimi capelli di bollenti lacrime a sua volta, simbolo dell’estremo
sacrificio e del dolore eterno.
“Percepisco il tuo dolore mia amata, tu vorresti stringere a
te carne calda piuttosto che freddo acciaio, sacrifichi la tua bellezza rimasta
inviolata dalle mie mani, ma credimi, è il mio sacrificio che ti tiene a me, se
non fosse così scapperesti impaurita dal tuo Scarlatto.”
“Dimmi che verranno giorni più felici! Io ti amo mio oscuro
cavaliere, dimmi solo che verranno giorni più gai!”
E Scarlatto non poteva far altro che annuire, anche se
sapeva che nulla sarebbe mutato, che il dolore era l’archetipo della sua
esistenza e lo stava marchiando a fuoco anche sulle carni superbe di quella
fanciulla, così la stringeva ancora più forte, e restavano così per ore.
Quale ignobile e malvagia entità aveva unito quelle due
creature in quella tragedia?
*
Una mattina, svegliatasi di soprassalto a causa di un
ennesimo incubo, Sibilla cercò conforto nel suo amato, ma Scarlatto non c’era,
forse andato a far legna si era allontanato per un po’ come spesso accadeva.
Così montò a cavallo e si diresse verso il bosco, si fermò
in riva al fiume e sedette ai piedi di una quercia, il silenzio circostante
cominciò a eccitarla nuovamente permeando le sue membra di istinti lascivi,
d’un tratto si accorse di non essere sola, poco distante un giovane dai capelli
d’oro e l’angelico volto dipingeva una tela.
Una fantasia morbosa assalì Sibilla che cominciò a far
scivolare con voluttà le mani lungo il corpo sinuoso. Il pittore la osservava
divertito mentre lei con occhi maliziosi perseverò nel suo gioco, poi fece
cenno al giovane d’avvicinarsi, la diabolica carne vinceva, a nulla era valsa
la nobiltà di Scarlatto, in preda ai suoi spasmi Sibilla si concedeva stanca
d’attendere a quel giovane di bel aspetto.
L’uomo non perse tempo, velocemente affondò il volto nei
seni di Sibilla.
“Prendimi angelo, raffredda la mia carne bollente, per
troppo tempo mi nutrii di parole, ho bisogno di carezze adesso.”
Così il ragazzo la denudò completamente e si unirono tra gli
alberi mossi da una leggera brezza.
Una volta terminata la danza carnale i due si rivestirono,
nella mente di Sibilla regnava una gran confusione, il nobile Scarlatto o il
bel pittore? Da chi doveva andare adesso?
Ma i nitriti di un cavallo ridestarono Sibilla ed il suo
amante di nome Sils dalle loro fantasticherie.
“Scarlatto!” Pensò Sibilla sistemandosi in fretta, ma dai
cespugli sbucò una figura dal volto dipinto di bianco, no, non era Scarlatto,
era qualcosa di ben peggiore per lei, Vorcle il distruttore con il solito volto folle frustò il suo cavallo.
“Scappa via mio Sils, l’ho visto strappar occhi e mangiarli,
ed è follemente innamorato!”
Il giovane le disse dove trovarlo in futuro e scappò via,
era sua intenzione farlo anche prima delle parole dette da Sibilla, la vista di
Vorcle era inquietante ma certo il pittore non era di animo audace, non che
l’arte non combaci con il coraggio, artisti guerrieri come lo stesso Scarlatto,
che per diletto componeva versi, non avrebbero esitato a difendere la dama con
cui avevano avuto così intimi rapporti un attimo prima, ma Sils era anche vile
oltre che artista.
Vorcle rincorse Sibilla, ma una volta che ella ebbe varcato
i territori di Scarlatto egli si fermò e le gridò in contro:
“Torna da me! Imparerò ad amare, il mio cuore è tuo
maledetta, torna da me o giuro che violerò le leggi del culto,verrò a prenderti
e mi laverò nel sangue del tuo patetico Scarlatto.”
Come poteva tornare indietro? Temeva troppo l’ira di
quell’uomo. La confusione l’assaliva, il bellissimo Sils aveva marchiato la sua
anima, ma Scarlatto aveva fatto troppo per lei, ella ardeva d’amore per
quell’essere misterioso e se solo non avesse avuto l’ostinazione di nascondersi
dietro la sua armatura,il bisogno di consumare quel tradimento nel bosco non
sarebbe sorto. Al ricordo di quell’amplesso però Sibilla era presa da un
sentore celestiale, non era stato come con Vorcle, Sils era piacevole amante,
docile e ardito in ugual guisa.
Così lungo il sentiero Sibilla parlò al suo cuore:
“Vorcle ha infiammato il mio ventre di sentimenti perversi
di cui mi vergogno, quest’uomo invece, questo Sils mi illumina al solo
pensiero, nei confronti di Scarlatto invece io provo soltanto riconoscenza, no
stupida, non parlare così! Tu ami quell’uomo più della tua stessa vita.”
Immersa nei suoi quesiti tormentati Sibilla non si accorse
di essere alle spalle della capanna, zona severamente proibitagli da Scarlatto:
“Vi si fanno brutti incontri di notte là dietro!” Questo le
aveva detto il suo amato,imperativo e misterioso come al solito.
Lei che si fidava ciecamente di lui non aveva mai tastato
coi sottili piedi quel terreno, infatti ora che era ai suoi occhi quella zona
le appariva tetra e oscura, il vento soffiava forte su di un inquietante lago
sulle cui immote e torbide acque fluttuava una sinistra e spettrale nebbia,
tutt’intorno gli alberi erano morti e sibilavano oscuri poemi di silenzio.
Sulla riva del lago giaceva l’armatura di Scarlatto ma non
vi era traccia di lui.
Sibilla si avvicinò cauta, un veloce rumore acquatico la
fece sussultare.
Nascosta, tra gli alberi si intravedeva un ombra, Sibilla si
avvicinò spaventata, quale oscura forza muoveva le sue gambe?
Proveniente dalla tenebra la voce cavernosa di Scarlatto
gridò supplichevole:
“Non avvicinarti, non osare guardarmi!”
“Scarlatto? Sei tu? Perché mai dovrei andar via!? Finalmente
posso vederti, di certo non farai più spavento di questo luogo così lugubre, ma
perché vieni qui? Cosa c’è di bello in questa palude?”
“Và via!!!” Gridò Scarlatto in lacrime.
“No, non andrò via, se non uscirai fuori verrò io!”
“Ti prego amore mio, non farlo, non guardarmi!”
Ma la curiosità vinse sulle lacrime angosciate del
cavaliere, Sibilla avanzò e vide rannicchiato nell’oscurità un viscido essere
gobbo e dal volto distorto ben più temibile del mostro dei suoi incubi,
quell’essere non aveva nulla in comune con il nobile cavaliere, ma negli occhi
dell’abominevole creatura splendeva una luce che Sibilla ben conosceva, una
luce fiera, seppur quello sguardo fosse onusto di lacrime amare, colmo, oberato
e straripante smanioso dolore.
La bocca squamosa era curvata verso il basso, patetica e
travagliata, accovacciato l’essere tendeva una mano tentando di nascondersi e
allo stesso tempo di calmare la fanciulla inorridita.
“Tu non sei il mio cavaliere, empia creatura, tu non sei il
mio Scarlatto!”
“Ora che sai cosa sono non scappare, te ne prego, abbi pietà
e donami ancora il tuo amore, hai visto quanto orrore era celato sotto quella
corazza? Ma te ne prego, riconosci l’uomo che amavi, vinci la ripugnanza,
guarda dentro di me e non abbandonarmi.”
“Non posso credere d’aver avuto tra le braccia un simile
mostro, di averlo amato più di me stessa e di avere infranto il mio lutto,
torna nella tua armatura mostro ingannatore e non uscirne mai più! Sei una
offesa all’umanità tutta.”
Così dicendo Sibilla scappò via in lacrime, montò a cavallo
e si diresse verso la locanda di cui Sils le aveva indicato la strada, corse
sconvolta verso il suo pittore, i cui lineamenti erano certo diversi da quelli
di quella viscida creatura.
“SIBILLA!!!” Gridò il guerriero in preda al più atroce dei
dolori.
“Perché lodavi il mio animo ogni giorno maledetta! Ora mi
ripudi miseramente. Quale ignobile destino fu scritto per me, Scarlatto il
mostro maledetto e solingo.”
Afferrò la spada e appoggio la punta acuminata al suo petto
affannoso, pronto a trafiggere il suo già distrutto cuore, ma d’un tratto le
lacrime svanirono, un ghigno diabolico percorse il suo volto sfregiato.
“Mi tramuterò in vile, sarò come Vorcle e avrò quella sgualdrina
anche contro il suo volere, sento il tuo odore mia amata cagna, la caccia
comincia anche per Scarlatto!”
Affondò violentemente la spada nel fango e lanciò nella
notte una folle risata, l’amore conficca i suoi artigli nelle menti più lucide
annebbiandole della più feroce follia, intinta nel sangue degli uomini era
stata un tempo l’armatura del cavaliere condannato, nuovamente lo sarebbe stata
adesso nel nome dell’amore.
*
Sibilla s’era lanciata nella foresta senza guardarsi
indietro, aveva amato uno scherzo della natura, era ovvio che un simile essere
poteva affidarsi soltanto alla nobiltà d’animo e alla delicatezza d’un amore
cortese, pensando con odio a quello che lei giudicava un perfido inganno,
raggiunse il villaggio di boscaioli ove si trovava la locanda che dava alloggio
al pittore Sils, pronta a farsi consolare dalle sue mani di angelo e così
scacciare dalla mente l’immagine del deforme cavaliere.
Entrò nella locanda e chiese di Sils, gli ubriaconi la
guardavano con occhi famelici e spiritati nonostante il suo aspetto sconvolto
facesse credere che fosse una sorta di pazza mendicante, forse era proprio il
pensiero d’un facile adescamento che eccitava le menti annebbiate dei bifolchi
presenti.
Presto Sils discese dalla sua stanza e nel vederla coprì di baci la ragazza, ella si lasciò
andare a quegli slanci focosi come una nave travagliata dalla tempesta che
finalmente naviga in acque tranquille, troppo, troppo tempo aveva atteso. Un
effeminato giovane guardava intanto la coppia con gelosia, come se avesse già
spartito qualcosa in passato con il pittore.
“Vieni bella fanciulla, lasciamo questo rustico luogo ai
loro topi, saliamo nella mia camera.”
Così i due amanti raggiunsero la stanza al piano di sopra e
non persero un attimo, si denudarono abbandonandosi alle loro effusioni.
Quando l’ardente passione fu placata infinite volte, sfinita
Sibilla prese a riposare sul liscio e gracile petto del biondo pittore, i
capelli dorati di Sils si intrecciavano a quelli d’ebano di Sibilla come se
anche loro cercassero un contatto.
Così Sibilla decise chi era il vincitore del suo conflitto
interiore, il dolce e sottile artista ne era uscito totalmente trionfante, e
grazie alle sue sole doti fisiche aveva goduto di ciò che a Scarlatto era stato
negato miseramente non appena si era rivelato per ciò che era realmente.
Nessuno scelse mai la nobiltà d’animo scambiandola con la
bellezza, lo si vedeva in quella stanza, tra quelle mura, la più innocente
delle perseguitate era mutata in poche ore in lasciva meretrice grazie agli
insegnamenti della vera empia figura di questa storia tragica, ovvero il
viscido pittore sodomita che amava assumere la parte dell’uomo e della donna,
che oggi stringeva Sibilla e domani si sarebbe abbandonato ai baci di un
giovane.
Nulla di nobile vi era in quell’uomo, ma la ragazza non lo
sapeva, la bellezza è una lama tagliente e ogni cosa è vista attraverso veli di
sangue quando essa scorre lungo le nostre carni.
Mentre i due riposavano, strani rumori di lotta e un certo
frastuono cominciarono a farsi udire dalla locanda sottostante. Sils si alzò
dal letto cercando di origliare, ma la porta fu spalancata e il pittore
terrorizzato cadde all’indietro sul pavimento, nudo e magro come un verme.
Vorcle apparve sulla soglia, era in compagnia di un giovane
alto dai lineamenti severi, aveva un naso di falco e folte ciglia unite, lunghe
chiome corvine cascavano a riccioli sulla sua argentea armatura.
Il pittore si mise in ginocchio.
“Risparmia la mia vita mio signore, prendi pure questa
scialba fanciulla ma lascia vivo questo tuo umile servo.”
Vorcle prese a ridere beffardo, ma d’un tratto divenne
malinconico e con disprezzo disse:
“Mi fai vomitare patetico rifiuto, degno avversario
consideravo Scarlatto, ma questo essere dove l’hai trovato Sibilla? È un
vermiciattolo che non vale nemmeno la fatica e l’onore di essere schiacciato
dal tacco del mio stivale. Mia Sibilla, come cadesti in basso.”
“Prendila mio signore!” disse Sils in lacrime.
“NON HO BISOGNO DEL TUO PERMESSO ESSERE EFFEMINATO!” Gridò
Vorcle furente e gli mollo un manrovescio che lo catapultò nella parete, il
pittore piagnucolava patetico, rannicchiato in un angolino della stanza stava
quasi per orinarsi addosso.
Sibilla osservò il suo fragile uomo, provava ancora qualcosa
per lui, nonostante le dimostrazioni poco decorose che aveva dato di sé, ma non
si ribellò quando Vorcle mise le sue nodose mani su di lei e la caricò sulle
sue spalle come fosse un sacco.
Il silenzioso compagno di Vorcle lanciò uno sguardo al
povero Sils.
“Amavi quella donna ragazzo?”
“Si, ma sono costretto a lasciare spazio al più forte.”
“Menti, la tua è una volgare passione, l’avresti difesa coi
denti altrimenti.”
Con un certo distacco arrogante chiuse la porta alle sue
spalle lasciando Sils disperato e in lacrime.
Sibilla notò che insieme, Vorcle ed il suo misterioso
accompagnatore avevano sterminato tutti gli ospiti della locanda, cadaveri
mutilati giacevano ovunque e ogni cosa era stata travolta e distrutta dalla
loro furia disgregatrice.
Giunsero ai loro cavalli quando una figura satanica sbucò di
lontano in un galoppo sfrenato, ruggiva come il demonio, rossa come il fuoco
era la sua armatura, Sibilla sconvolta sussultò, e senza voltarsi gridò:
“Scarlatto!”
Ma Vorcle non rallentò il passo del suo destriero ormai
lanciato a temibile velocità, si voltò verso il giovane cavaliere:
“Tarantula, và da lui e portami il suo cuore!”
Il cavaliere non disse una parola, fiero e nobile fece
dietro front con il suo destriero e silenzioso come l’ombra della morte andò incontro
a Scarlatto.
“Lo mandi verso morte certa, ho visto Scarlatto trafiggere
più di venti uomini con la sua spada, frantumare querce con le mani, egli non è
umano, fuoco infernale arde dentro di lui, e mi ama più della sua stessa vita.”
Disse Sibilla sconvolta.
Vorcle sorrise e le cinse una mano possente intorno alle
generose natiche:
“Lo so benissimo, ma Tarantula è un grande guerriero, lo
intratterrà il tempo sufficiente per raggiungere il mio castello, e poi non
vantarti donna, anche Tarantula mi ama più della sua stessa vita.” Così dicendo
Vorcle si avventurò nel fitto boscoso della foresta.
Intanto Taratula aveva raggiunto Scarlatto, il rosso
guerriero con un colpo laterale di spada
sbalzò il giovane tenebroso dalla sella, ma questi tempestivamente s’avventò
sull’ avversario e insieme si ritrovarono in terra, seguì una feroce lotta, il
raffinato e calcolatore Tarantula non era però all’altezza dei ciechi e feroci
colpi dell’esperto Scarlatto, di lì a poco il giovane si ritrovò disarmato in
terra, sfinito ansimava guardando il suo avversario con cupa rassegnazione,
Scarlatto gli aveva puntato la spada alla gola.
“Servi un uomo che è innamorato della donna che venero, un
uomo che però non conosce l’amore.”
“Servo il mio cuore cavaliere, servo l’uomo che amo!” Disse
Tarantula con distacco sognante e disperazione, poi continuò:
“E adesso che ho fallito uccidimi! Odio la tua Sibilla che
ha sgretolato le mie già effimere speranze!”
“Tu ami ciò che non ti è concesso amare, ti sacrifichi per
il tuo inconfessabile amore, in questo un po’ mi somigli cavaliere, e i tuoi
occhi sono così limpidi e sinceri, ti concedo la clemenza della mia lama, non
posso fare altro per te.”
Dicendo ciò Scarlatto inguainò la sua spada.
“No! Poni fine alle mie misere pene, non posso confessare il
mio tormentoso amore nemmeno a me stesso, sono costretto a inabissarlo e a
celarlo nell’oscurità di introspettive latebre, affonda la tua spada nella mia
gola, Vorcle ama la tua Sibilla mentre prima compiva indicibili atrocità con il
bambino vestito da sposa e mille altre vittime, la sua mente perversa adesso ha
conosciuto l’amore, lo si vede da come medita, dalle ore che passa fissando la
fiamma del fuoco.”
Dicendo questo Tarantula non seppe trattenere lente lacrime.
Nel lirismo di questa scena suprema, due nobili guerrieri al
chiaro di luna che svelano le proprie colpe e i propri dolori, accadde qualcosa
di inaspettato, Sils il pittore, comparso dall’oscurità si scagliò contro
Scarlatto con in mano un pugnale, un veloce movimento e la spada del rosso
cavaliere fuoriuscì dalla schiena dell’artista che con la bocca lacrimante
sangue sibilò:
“Il vile non diverrà mai leone!” Poi cadde senza vita
riverso all’indietro una volta estratta la lama.
In quell’istante Tarantula con velocità da fiera si gettò
sulla spada di Scarlatto infilzandoci il petto.
“Dì a Vorcle che sono morto per lui”. Disse infine.
Quella notte era stata macchiata dal sangue, così Scarlatto
tra i cadaveri rossi come il porpora di un ciliegio, rubicondi come la sua
stessa corazza, petalo d’acciaio, irriso persino dai raggi della luna calante,
parlò a se stesso a voce alta, come fanno solo i folli, gli spettri e i
maledetti.
“Quest’uomo era nobile e puro, ma il suo amore impossibile
come il mio, grande amico sarebbe stato per me, invece il destino beffardo l’ha
posto sulla mia strada per farmi divenire il suo assassino, quanto valoroso è
stato, si è battuto come un leone, poteva colpirmi quando ero impegnato con
questo viscido verme che cercava redenzione alle parole di questo valoroso, è
facile cambiare idea all’ultimo quando si è vissuti come mosche.
Questo cavaliere si è sacrificato per il suo amore infausto,
il suo è l’estremo sacrificio, porterò dentro me il ricordo di costui per
sempre, riprenderò la mia donna e riferirò a Vorcle cosa ha mandato a morire,
la gemma più preziosa della terra, nata per sbaglio in un forte corpo di uomo.”
Scarlatto seppellì Tarantula, lo immaginava in un sinuoso
corpo femminile, bello e splendente, che finalmente felice gettava la spada che
era stato costretto ad impugnare per
amore.
Il sole intanto dopo aver germogliato flebilmente i suoi
tenui raggi, adesso ardeva alto nel cielo, violento, come in preda all’ira
dardeggiava con furia e splendeva
radioso mentre Scarlatto si dirigeva verso il nero castello di Vorcle.
*
Vorcle e Sibilla si fermarono in una locanda avviluppata
dalle montagne, la solitudine della montagna era impregnata in ogni cosa, nelle
fibre dei tavoli di abete, persino nella gente, un effluvio di bosco aleggiava
ovunque, era come se la foresta penetrasse all’interno mediante le finestre di
pietra.
Il cavallo era stremato dalla folle corsa, tra l’altro vi
era stato il peso di due passeggeri a fiaccare l’imponente animale nero come la
notte.
Erano bastati i colori dipinti sul volto del mangiatore di
uomini a sfollare la locanda dai già di per sé pochi, e tristi boscaioli.
Il locandiere, un uomo magrissimo e anziano, con le gote e
il naso rosso pizzicati dal vino li fissò inebetito.
La vista di Vorcle era condita da quella di Sibilla, sporca
di fango, con le vesti lacere e lo sguardo sottomesso.
Pochi istanti dopo il barbaro cominciò a tracannare boccali
di birra seduto sguaiatamente su di una panca, Sibilla gli sedeva di fronte,
confusa, tremante.
Vorcle cominciò a fissarla, i suoi occhi erano arrossati e
iniettati da striature di sangue, il suo sguardo era simile a quello di un lupo
impazzito, rabbioso, d’un tratto s’arrestò sui seni di lei, che convulsamente
si muovevano insieme al respiro, un respiro impaurito, il respiro della
gazzella tra gli artigli del leone, impotente dinnanzi alla seduzione obbligata
della morte.
“Hai paura?” Chiese Vorcle divertito e stordito dal bere.
Sibilla non parlò, abbassò lo sguardo, ma ne aveva tanta,
sapeva che quelle mani sanguinarie la bramavano, ma non sapeva cosa ne sarebbe
stato di lei.
D’un tratto il guerriero s’alzò dalla panca, andò verso
Sibilla, naturalmente ella sussultò, l’avrebbe sfregiata? Umiliata? Il cuore cominciò a stordirle le tempie.
Una volta giunto vicinissimo a lei, Vorcle compì un gesto
che non aveva mai osato concedere, quella mano che si muoveva solo per causare
dolore carezzò delicatamente il volto di Sibilla, che a quel tocco fu scossa da
un brivido che le si attanagliò lungo le membra di colomba come un serpente
dalle spire d’acciaio, un brivido oscuro che la poneva su di un precipizio di
ignota ma allo stesso tempo orribilmente seducente paura.
Seguì il silenzio, d’un tratto Vorcle disse con voce cupa:
“Andiamo via, manca poco al castello, mia madre ci attende!”
Il tragitto fu breve, in cima ad una rupe ammantata dai
boschi sorgeva il castello di Vorcle: una costruzione tetra e imponente, a
picco su un dirupo, tutto intorno solo
il canto delle montagne, lupi e civette erano messaggeri di quell’arcano
idioma.
Sibilla non conosceva ancora il suo destino, se sposa oscura
o donna forzata a vivere con un mostro.
Così i due uscirono dal bosco e presero lo stretto sentiero
che saliva fino al maniero,un muto silenzio regnava posato sulle pietre.
Finalmente giunsero al ponte levatoio già aperto per loro, enormi mastini grigi
accolsero Vorcle guaendo impazziti.
Sulla soglia ad attenderli vi era una donna bellissima,
sorrise a Vorcle ed era magnetica e irradiante incantesimi di fascino oscuro.
L’esile figura era avvolta da una lunga veste di nero
broccato, una provocatoria scollatura a ventagli ricamati metteva in risalto i
seni più prosperi e candidi che il mondo aveva partorito, un petto bianco e
armonioso sormontato da un collo di cigno. Il volto della donna era
particolarmente pallido, d’un biancore violento, quasi cadaverico, il suo naso
era affilato, gli occhi verdi e rapaci. Lunghe chiome corvine le ricadevano
lungo il corpo come un manto.
Nonostante il sorriso affettuoso, la donna aveva lineamenti
severi e inquietanti.
Accanto a lei un fanciullo dai riccioli d’oro fissava
Sibilla, indossava un abito da sposa, sorrideva come ignaro del suo crudele
ruolo.
Alla vista di quel ragazzino Sibilla provò nuovo disgusto
nei confronti di quell’uomo ignobile, ben ricordava i racconti di Vorcle, a
cavallo con i suoi uomini, riguardanti le sevizie fatte a quel fanciullo,
costretto ad essere il triste accompagnatore del sadico guerriero in notti di
violenta e turpe passione.
Vorcle discese dal destriero e baciò le mani alla donna.
“Rubina, madre mia. Questa è la mia sposa.”
La donna guardò Sibilla con liquidi, eleganti occhi di
giada, maliziosamente disse:
“Davvero spettacolare, spero che farai gemere lei come
facevi con me, e spero che inviterai ai tuoi giochi anche la tua dolce madre.”
“Oh madre, quali nebbie perverse offuscano la vostra mente?”
Dicendo ciò il figlio affondò allegramente il volto nei seni
della donna, che stringendolo a se prese
a ridere sguaiatamente.
Si intuiva in Vorcle il desiderio impellente e spasmodico di
possederla al più presto, lì tra le colonne del portone, sentimento che la
madre non chetava, bensì lo alimentava strusciandosi sinuosa sul corpo
dell’uomo.
Sibilla restò immobile dinnanzi a quella scena, era dunque
quello il regno di Vorcle, e quella era sua madre, una donna perversa eppure
giovanissima e stupenda.
Sibilla cominciava a capire, solo un simile luogo, una
simile guida, avevano potuto forgiare un uomo come Vorcle.
Infine madre e figlio condussero la novella sposa lungo i
tetri corridoi del castello, Rubina continuava a concedersi discorsi tanto
lascivi da sfiorare l’indecoroso.
Ma d’un tratto Vorcle divenne serio e la interruppe brusco:
“Scarlatto sta venendo qui, anch’egli brama la mia Sibilla!”
Anche Rubina divenne mesta improvvisamente.
“Dunque quello storpio rivendica i suoi diritti?” Disse
pensierosa.
“Non temere madre, ti donerò la sua testa.”
Sibilla spezzò il suo stato di profondo silenzio parlando:
“Egli è valoroso, tu stesso lo temi, non sei forse scappato
da lui?”
“Sei una stupida bambina e dovrei farti mangiare le braci di
quella stufa, ho solo testato le capacità di Tarantula che tra l’altro
cominciava a stancarmi, è poi perché privare mia madre di una vista così
sublime come quella del suo storpio cadavere divorato dai miei mastini?”
Sibilla tacque, sapeva che i due guerrieri erano di uguale
valore, non poteva aggiungere altre provocazioni che avrebbero solo reso Vorcle
più impavido.
“Và con le mie ancelle dolce Sibilla, cospargeranno il tuo
corpo di spezie e sarai più bella di quanto già sei.” Disse Rubina carezzandole
la schiena e fissandola con due occhi di giada, simili a quelli di una tigre,
librati nel buio d’una selva nottetempo, bellissimi e selvaggi, che in qualche
modo riempiono l’anima. Quella donna possedeva un potere magnetico, una sorta
di effluvio che offuscava le percezioni era emanato dal nitore delle sue membra
e s’innalzava ad ogni sua impercettibile, frusciante movenza. Un fascino arcano
che scosse nuovamente Sibilla, qualcosa d’inumano, appunto una tigre o un lupo,
le alitava sul collo dalla tenebra quando quegli occhi si fissavano su di lei.
Cosa le stava accadendo? Da semplice contadina ora veniva
sedotta da nobildonne oscure?
*
Scarlatto saettava al galoppo nella foresta, infuriava un
temporale violentissimo, gli alberi si piegavano in una lotta titanica contro
gli elementi, le ombre si schiantavano lungo il passo implacabile del cavaliere
che fendeva l’aria con la sua corsa
furiosa e inesorabile.
“Che lo voglia o no Sibilla imparerà ad amarmi!”
Solo queste parole rimbombavano nella sua mente riducendola
ad un ossessivo delirio, un unico scopo si era preposto nella sua miserevole
vita, e cavalcava verso di esso.
Scarlatto sembrava uno spettro, una figura dannata che
squarciava la tenebra della notte profonda con il rosso vivido della sua
corazza, una lanterna funebre, come quelle che portano con loro gli spettri che
nottetempo vagano nei boschi, solo che la luce accecante anziché flebile di
questa lanterna viaggiava a passo spedito attraverso gli alberi.
Nulla poteva fermare quello tormentato fantasma di vendetta
e passione, nemmeno la notte poteva sedurlo a cedere o ad arretrare il passo.
Sibilla intanto era stata lavata e ripulita, riposava su
soffici cuscini di stoffa orientale mentre i profumi esotici le inebriavano le
tempie inducendola ad un languido torpore.
Dopo un rozzo congedo le ancelle l’avevano lasciata sola con
i suoi pensieri, era però stanca, troppo stanca per non sentire il bisogno di
lasciarsi andare al morbido richiamo dei cuscini di seta, fino a che non
distese le sue membra perfette e chiuse i divini occhi.
Quando li riaprì gli sembrò fosse trascorso un breve attimo,
ma tutto intorno a lei era più strano, le cose sembravano avvolte da una
diafana luce soffusa, si sentiva languida come fosse in un sogno, ebbe infatti
qualche dubbio, forse stava realmente
sognando.
Avvolta dall’ombra intravide una vaga e sinuosa figura di
donna accanto alla porta, la donna si avvicinò fino a che il riverbero del
camino illuminò il volto superbo della stupenda Rubina, ogni movenza di costei
appariva lento, ammaliante.
La donna sorrise e lasciò allo stesso tempo cadere in terra
il nero velo sottile che le copriva il corpo, quale magnificente splendore era
celato dal velo! Quanta immensità restava immobile dinnanzi a Sibilla come una
statua di marmo, icona di dea irradiante sacrilega luce irresistibile, un
lucore simile al chiaro di luna emanava la sua carne bianchissima.
Ancora Sibilla fu stregata dalla malia di quegli occhi,
nemmeno il più feroce dei guerrieri avrebbe potuto resistervi, uno sguardo
ipnotico, raffinato e selvaggio a cui nessuno poteva sottrarsi.
Quando Rubina parlò Sibilla fu certa di essere in sogno,
poiché nessuna voce umana mai sarebbe capace d’imitare quel suono d’arpa,
un’arpa affilata e mortale.
Rubina si avvicinò, strusciando sui cuscini come un sinuoso
serpente, s’innalzava il fruscio della seta rara che a contatto con la pelle
nuda seduceva le membra tessendo brividi stregati.
Le gemme di quegli occhi si avvicinavano sempre più,
inesorabili, imperativi gioielli.
“E’un sogno”. Pensò Sibilla, “Sento una pressione violenta
alla testa, sembra che stia accadendo tutto in una bolla.”
Poi Rubina parlò di nuovo, in un sussurro letale, arpa
suonata dal vento generato da ali notturne.
Di ghiaccio era l’alito della donna, gelido come il vento
che soffia da nord, congelava le vene di Sibilla assalendola di violento
desiderio, un fuoco nel ventre giunse presto però a sciogliere quel ghiaccio.
“Abbandonati a me, imparerai i piaceri a cui Saffo, poetessa
di Lesbo, mi iniziò quand’ero fanciulla. A me erano dedicati i suoi più toccanti
versi.”
Sibilla si liberò della tunica con la quale l’avevano
vestita le ancelle, lo fece in un unico gesto, era come se fosse in ansia
spasmodica.
Nude le donne si ritrovarono in ginocchio l’una di fronte
all’altra, quando Rubina afferrò la ragazza nel suo abbraccio bollente Sibilla
capì di non essere in sogno, poiché quel violento piacere che sentiva era reale
come il sangue che ribolliva sotto le carni ondeggianti.
Quelle mani affusolate che percorrevano le sue membra
accendevano il divampante fuoco della sua anima, quelle unghie che affilate scorrevano dolorosamente lungo la
sua schiena estasiata risvegliarono nuovi inni di gloria in onore di Saffo.
Rubina continuò la sua danza baciando con labbra rubizze il
collo, le spalle, e i seni di Sibilla che ormai era completamente
nell’abbandono dei sensi, fragranze sconosciute le inebriavano le carni e la
rendevano cosciente, come mai lo era stata, della sua perversione e delle
immani, umide proporzioni del suo desiderio, fiore di carne madido di rugiada.
Rubina le strisciò lentamente alle spalle, come un’animale
carnale che fruscia sulla seta, gelida e allo stesso tempo infuocata la sua
lingua affondò nei graffi che le aveva provocato sulla schiena di piccola fata.
E ancora solo il lene crepitio della seta, unito ai gemiti e
ai profondi sospiri facevano da sottofondo al peccaminoso, vorace amplesso,
mentre la flebile luce delle candele irradiava sulla poesia dei nudi corpi
spasmodicamente intrecciati tra loro.
Sibilla aveva concesso il suo sesso ricoperto di magica
brina alle labbra di Rubina che prese a divorarlo dolcemente insieme alle
gambe, le caviglie, i piedi.
Ebbra Sibilla palpitava e ben presto cominciò a muoversi
convulsa, innalzando grida d’amore che infransero il silenzio.
Poi le amanti si scambiarono i ruoli, e toccò a Sibilla
assaggiare le sfoglie della passione proibita che lasciavano impregnato
l’effluvio d’una oscura fragranza sulle morbide labbra.
Labbra che Sibilla usò anche per carezzare i grossi seni di
Rubina, labbra che si unirono fino a sfinirsi, fautrici di gemiti trionfanti e
singhiozzi di serafico o demoniaco piacere.
Sfinite le due donne caddero in un sonno profondo,
abbracciate nella divina poesia della bellezza, nodo di carne, stupendamente
rilassate Sibilla e Rubina giacevano strette l’un l’altra, nude, artistiche nel
loro soave riposo di angeli senz’ali.
Si destarono ancora strette l’una nelle braccia sottili
dell’altra, notarono che il fanciullo vestito da sposa era al bordo del
giaciglio e le osservava dormire, o forse osservava silente le loro nudità più
che il loro sonno di soave peccato.
Sibilla si coprì vergognosa, mentre Rubina, priva di pudore,
completamente nuda s’alzò e si diresse verso di lui, le carni delle sue natiche
ondeggiavano come un magnificente mare di carne.
Sollevò una bianchissima, tornita gamba e l’appoggiò su una
panca, poi con occhi folli ordinò al fanciullo:
“Avanti Pif!”
Il ragazzo si cimentò in una cerimonia che sembrava
conoscere bene, leccava il sesso di Rubina come un gattino mansueto, poi la
donna perversa, sorridendo orinò in quella piccola bocca, costringendo il
bambino a bere l’orrido liquido.
Sibilla fu disgustata dal quadro lascivo, Rubina aveva
perduto tutta la sua seduzione, era un pezzo di carne piegato su di una panca,
un sudato, volgare pezzo di carne che non avrebbe mai potuto eguagliare il
nitore d’un petalo.
“Lui è come un cane Sibilla, abituatici, apprendi le delizie
della crudeltà!”
Così dicendo colpì con la pianta del seducente piede ignudo
il viso del ragazzino sottomesso, il piccolo vacillò e cadde all’indietro con
il naso grondante sangue.
Sibilla provava una immensa pena per quel fanciullo, ma d’un
tratto fu presa da una nuova forza, la stessa sensazione di quando tradì
Scarlatto con Sils nel bosco e di quando ripudiò il rosso cavaliere.
Balzò sul fanciullo con il ventre in fiamme ed il sesso
bagnato, cominciò a tempestarlo di colpi al volto, rapita da un’estasi arcana,
poi si fermò, con i seni nudi e candidi macchiati di caldo sangue.
Rubina era appoggiata al muro e sorrideva soddisfatta.
D’un tratto Sibilla le si rivolse con uno sguardo che non
aveva mai posseduto, uno sguardo maturo, penetranti occhi di donna anziché di
bambina com’erano stati poco prima.
“Raccontami di Scarlatto, com’ è divenuto così?”
Rubina sorrise, si sedette mentre il fanciullo strisciava
via in chissà quale buia latebra.
“Scarlatto nacque così come tu l’hai visto, nacque da questo
ventre!” Dicendo ciò carezzo con la mano sottile il bianco ventre perfetto,
carnale, che sembrava attuo solo a sedurre e a far l’amore.
“Sei stupita Sibilla? Ebbene, Scarlatto è mio figlio,
fratello gemello di Vorcle.”
“Ecco perché sembravano conoscersi.” Disse Sibilla
sconvolta.
“Giunsi tanti anni fa in questo castello ed ero ridotta
peggio di te ieri, stanca, trasandata e con le vesti lacere, ero stata quasi
uccisa, in paesi lontani a causa della mia stirpe. Fu cosa semplicissima però
sedurre in pochi giorni il Re di questi luoghi, gli rubai il senno con il mio
corpo e la mia malia, lo costrinsi ad assassinare la sua consorte, cosa che
fece per godere solo e soltanto di me.
Così da quel padre nacquero Vorcle e Scarlatto, il primo
sano e forte, il secondo deforme come tu sai. Il loro padre volle che Scarlatto
fosse relegato nelle segrete senza nemmeno dargli un nome. In età adolescente
però la gente del castello cominciò a temerlo come uno spettro dannato,
dicevano di udirne i lamenti, forse un giorno avrebbe trovato un passaggio e
avrebbe sgozzato tutti nel sonno, tutti cominciarono ad avere paura, parlando
di lui come di una fiaba oscura, cercando di udire il suo passo felpato o il
tintinnio delle sue catene, prima che giungesse a reclamare la sua vendetta.
Quando Scarlatto divenne adolescente, udendo ancora i suoi
tormentosi, spettrali lamenti nottetempo il Re decise di farlo esiliare nella
foresta.
Accadde di notte, fu abbandonato a se stesso e Vorcle stesso
presenziava ignaro di essere suo fratello.
Così il mio deforme figlio crebbe con l’odio nel sangue, si
nutrì di solitudine e rancore fino a divenire un uomo.
Intanto Vorcle, poco più che adolescente tagliò la gola di
suo padre per essere il solo a godere delle mie delizie.
Il bambino che hai visto è il frutto degenero del nostro
incesto, Vorcle è suo padre, e approfitta di lui da quando aveva tre anni, non
può farci nulla il povero gigante, la sua mente è attraversata da turbamenti
ignoti, è tipico della mia stirpe, o la deformità o la follia accompagnano i
nascituri della mia casta, coloro che portano il nostro sangue nelle vene.
In seguito anche Scarlatto ebbe un figlio da me, prima
ancora che il marmocchio vestito da sposa nascesse, molti anni prima, mi recai
nella foresta io stessa, mi era difficile dimenticare la mia progenie rinnegata
capisci? Ogni notte i suoi lamenti perseguitavano il mio sonno, c’era molto di
buono in Scarlatto, e volevo che il suo seme guerriero tornasse al mio ventre
così come io dal mio ventre l’avevo generato, avevo ansia di creare una nuova
stirpe, una grandiosa progenie.
Così lo sedussi sotto la luna, e penso di essere l’unica
donna che l’abbia mai sfiorato, cos’era per me donargli quegli istanti d’oblio?
Cosa mi costava sfiorare quelle fattezze distorte? Non l’avevo forse tenuto nel
mio grembo perfetto?
Quasi come estrema beffa nei confronti di Scarlatto, suo
figlio nacque sano, e crebbe forte e bello, lo chiamai Tarantula, era un prode
guerriero ma sin da quando era poco più che fanciullo capii che in lui
nascondeva una donna, la teneva celata con cupa mestizia, con oscuri
comportamenti, ma se lo guardavi fisso negli occhi la potevi scorgere la fanciulla
che lui teneva prigioniera negli antri del suo cuore, fioriva delicata come un
edera sinuosa.
Crescendo il ragazzo nutrì dei sentimenti nei confronti di
Vorcle, in lui scorgeva forse ciò che lui non poteva divenire, un essere
brutale che brandisce la vita senza timore di scottarsi le mani.
Tarantula invece era nobile, uguale a suo padre, egli non
disdegnava il pianto, la sensibilità floreale, un certo gusto artistico,
l’amore per la solitudine.
Non osò mai confessare il suo amore, solo a me, dopo lunghi
anni ha sussurrato qualcosa in delirio nel sonno, ma adesso egli è morto,
ucciso dalla mano furiosa d’amore del suo stesso padre, ignaro del fatto che la
suo furia si stava abbattendo su suo figlio, è certo che è andata così, Vorcle
aveva capito e lo trattava malissimo, di certo Tarantula ha accolto quella
morte con grande orgoglio, come solo chi mi è figlio può fare.
Ecco adesso sai tutto mia bella Sibilla, Scarlatto presto
sarà qui, lui e Vorcle, entrambi folli d’amore e troppo equilibrati si
uccideranno a vicenda, una volta morti io e te vivremo indisturbate l’oblio del
piacere nell’ozio di soporiferi festini.”
Sibilla aveva ascoltato perplessa ogni singola parola, non
poteva credere a quanto aveva udito, non aveva mai sentito parlare di cose
tanto assurde, mai in tutta la sua vita.
Tornava e ritornava sulle cose che Rubina le aveva detto,
analizzandole con cura per poi cadere sempre in una profonda, angosciante
incredulità, quando tutto le fu finalmente chiaro, dopo che ebbe riorganizzato
per bene le idee domandò alla sua nuda interlocutrice:
“ Una sola cosa non mi è molto chiara mia signora, come hai
fatto a mantenerti così fresca e giovane durante tutti questi anni?”
“E’ semplice mia dolce Sibilla, io mi nutro del sangue dei
miei guerrieri, io sono una immortale creatura figlia della luna e della notte,
sono eterna e splendida e mi bagno nel sangue degli uomini.
Vorcle ha preso da me ed è anch’egli un cacciatore, di notte
vaga nei cimiteri in cerca della sua coscienza, Scarlatto invece è un
mezzosangue, per questo è nato così suppongo, Tarantula invece era
completamente mortale anche se incline al delirio e all’omicidio, infine c’è
quel piccolo stupido, il bambino è un vampiro si, ma sa nutrirsi soltanto di
topi e di cani randagi.”
*
Il bambino vestito da sposa correva goffo come un pollo
senza testa lungo i cupi corridoi del castello, arrivò ad una grande sala buia
illuminata unicamente dagli argentei bagliori della luna piena.
Armi d’ogni tipo, provenienti da ogni parte del mondo erano state
poste alle pareti come maestoso ornamento.
Uno dei mastini di Vorcle giunse dalla porta opposta a
quella dalla quale proveniva il ragazzo, con passo lento il cane fuoriuscì
dalla tenebra e fu illuminato dai raggi lunari.
Era enorme, goffo e
pesante, con sguardo schivo fissò il bambino per un attimo, infine si accucciò
dinnanzi alla camino che sembrava spento,
ma in realtà fievoli braci sotto la cenere avevano attratto il grosso
cane pigro con il loro calore.
Gli occhi del fanciullo dai boccoli d’oro s’illuminarono
d’una luce folle, dalla piccola bocca emise un gridolino inumano e s’avventò
contro il cane, affondò i dentini nella carnosa giogaia dell’animale e la
lacerò coprendo di sangue i suoi abiti nuziali.
Quando il cane cadde in terra senza vita il bimbo si nutrì
dei suoi resti con foga bestiale, ma d’un tratto fu distratto da pesanti passi
che provenivano dal corridoio.
Guardò verso la porta impaurito, con il volto lordo di
sangue, sulla soglia, al buio, vi era Vorcle con un orribile espressione di
furia a percorrergli il volto.
Rimase immobile per qualche istante, poi a grandi passi
raggiunse il fanciullo rannicchiato e tremante sulla carcassa del cane al
centro della stanza.
“Piccolo bastardo, hai ucciso Domino.”
Afferrò il bambino per la gola e lo gettò con disinvoltura
nel camino, il piccolo riuscì a rotolare fuori e a scemare la fiamma che era
avvampata strusciandosi sul pavimento, ma il folle Vorcle lo colpì al volto con
inaudita violenza, il poveretto andò a sbattere dall’altra parte della stanza,
folle di paura restava immobile con gli occhi supplichevoli.
Così Vorcle cominciò a prenderlo a calci, gli maciullò la
bocca con selvatica crudeltà per lungo tempo, poi lo afferrò per i capelli e
brandito un pugnale dalla parete tagliò al fanciullo la gola di netto, non
contento lo gettò giù dalla finestra, un tonfo e poi il silenzio.
Vorcle sorrideva
soddisfatto, ma il suo sorriso mutò quando udì lo scalpitio frenetico di
zoccoli di cavallo, nella stanza in penombra il fuoco stava cominciando ad
aizzarsi ancora, alimentato dalle vesti del bambino.
Fatali giunsero quei
rumori sinistri nella notte, il mangiatore di uomini andò alla finestra, un
cavaliere si stava avvicinando veloce come un demone, una scintillante armatura
rossa brillava nella notte nera, Scarlatto, suo fratello di sangue, giungeva a
riprendere il suo amore perduto.
*
Sibilla dormiva con le morbide guance posate sui nudi seni
di Rubina quando la porta si spalancò, Vorcle aveva gridato prima di vedere la
scena:
“Madre, Scarlatto è qui!”
Poi vide la donne che amava tra le braccia della sua folle
madre, il sangue fluì veloce al cervello sussurrando sentori animosi, le vene
alle tempie si ingrossarono violentemente, sguainò la spada e gridò con voce
stridula, rotta dal dolore:
“ Tu, puttana maledetta, hai sedotto la mia sposa come una
bieca, volgare meretrice. Per mano di tuo figlio, che non mancasti di ospitare
nel tuo letto, morirai. Ecco il pegno che ti offro in dono come segno di
ringraziamento per aver dato la vita a quest’essere!” Così dicendo si colpì con
un pugno sul petto in maniera plateale e drammatica, quasi come se stesse per
piangere indicandosi con quel colpo, poi continuò.
“Volevi che fossi incapace di amare, che come te fossi privo
di sentimenti, ma io sono diverso da te baldracca, io sono Vorcle, duca della
sofferenza, signore dei mastini, re del culto oscuro, mangiatore di uomini.
Ecco, la tua opera è compiuta, sarò anche colui che ha ucciso sua madre, così
sarò perfetto, con questo matricidio i tuoi desideri saranno esauditi e la
mattina che presto verrà vedrà un nuovo uomo, Vorcle l’uomo felice e mondato
dalla follia che tu gli hai insegnato, colui che renderà Sibilla, ora frutto
nero del tuo gioco perverso, una donna pura e felice.”
Sibilla si rannicchiò impaurita, mentre Vorcle balzò sui
cuscini e affondò la spada nel cuore di sua madre, zampilli purpurei inondarono
la seta e il pavimento, solo trafiggendole il cuore quella donna poteva morire.
“Addio figlio mio, hai trucidato tua madre travolto dalla
passione del tuo cuore impetuoso, ma ricorda che la tua bontà, l’amore che
tanto brami, saranno l’inizio della tua patetica fine.”
Così Rubina spirò, poeticamente distesa sul tappeto con la
spada di suo figlio conficcata nel petto, lentamente Sibilla le si avvicinò
chiudendole le palpebre che custodivano quei magnificenti occhi verdi ormai
spenti e privi della consueta magia, soavemente la ragazza si chinò e le
carezzò le rosse labbra tinte di sangue.
Poi Scarlatto sfondò la porta della sala accanto, era intriso del sangue di coloro che avevano
provato a bloccare il suo passo, tutte le canaglie del culto oscuro erano
perite tentando invano di fermarlo.
Erano l’uno di fronte all’altro i due fratelli rivali,
sorridente Vorcle sguainò la sua seconda spada, uno spadone a due mani enorme,
si diceva che con quella lama il mangiatore di uomini avesse trafitto un drago
per mangiarne il cuore e da esso attingere eterno vigore.
Immobili i guerrieri restarono in posizione d’attesa,
finalmente le spade avrebbero stabilito chi era il migliore tra i due.
Scarlatto notò il freddo cadavere di Rubina riverso sul
pavimento, era seducente persino nel gelo della morte quella donna.
“Hai ucciso nostra madre fratello, eppure ella non ti
abbandonò nella foresta come fu fatto con me.”
“Ha osato toccare con le sue adunche mani perverse la donna
che entrambi amiamo, ma non pensarci fratello, in guardia. Aspetta, hai lottato
finora e sei stanco, mentre io sono fresco nonostante il mio trucco di guerra
sia macchiato da amare lacrime.”
Come risposta Scarlatto si lanciò all’attacco ruggendo,
Vorcle si scagliò in avanti con gli occhi del diavolo e le due spade
s’incrociarono, un tuono allo stesso tempo rimbombò nella stanza.
Il premio del duello giaceva in un angolo e gridava:
“Basta guerrieri, non verrò mai con nessuno di voi!”
Ma quelle parole non servirono a fermare quella lotta
sfrenata, il sangue che scorreva nelle membra dei due era fuoco, fuoco che divampava travolgendo
qualsiasi forma di raziocinio.
Le lame scalfivano le carni e il duello si protrasse per
lunghissimo tempo, il sangue di due fratelli veniva versato barbaramente sul
pavimento della loro casa natale, fendenti brutali straziavano la carne ma il
corpo come in preda ad una magia non avvertiva la stanchezza, così ognuno
spingeva restio a retrocedere seppur consapevole d’esser prossimo al crollo.
Dopo un violentissimo
scambio di colpi i fratelli si fermarono l’uno di fronte all’altro, affannati e
cosparsi di tagli profondi. Il sangue scorreva copioso lungo le loro ginocchia,
ciascuno di loro era ferito mortalmente ma continuavano; gli occhi folli, privi
d’umanità, lo sguardo di chi è finalizzato ad un unico scopo, disposto ad
annullarsi pur di andargli incontro.
Vorcle non aveva più un occhio, in una posizione di stallo
Scarlatto aveva affondato le sue dita nei bulbi e glie lo aveva strappato
ferocemente.
Scarlatto invece aveva un taglio serio sul petto, profondissima
la ferita zampillava sangue che indeboliva sempre più ad ogni fiotto, se non
avesse avuto l’armatura, quel colpo di
Vorcle l’avrebbe reciso in due parti, la corazza era dunque sfondata, quindi
Scarlatto se ne liberò.
Tamponandosi la ferita con la mano e con voce affannosa
disse a Vorcle:
“Giuro suo mio onore
che non dormirai con la mia sposa!”
“Cosa puoi offrirle patetico fratello? Amore platonico?
Scapperà ancora da te nobile Scarlatto!”
“Mi guarderò da questo inconveniente, imparerà con il tempo
ad appartenermi. Tu invece cosa puoi offrirle? Tu che hai sacrificato senza
lacrime quel fiero ragazzo, Tarantula, è stato doloroso uccidere un così
valoroso guerriero, sacrificatosi per un vile come te. Quel ragazzo nascondeva,
a giusta guisa, un amore nei confronti d’un animale indegno.”
“Sei uno stupido!” Disse Vorcle. “Tarantula era tuo figlio e
tu l’hai ucciso di tua mano.”
“Cosa farnetichi vile?”
“Si, Tarantula è morto per me lo so, ma è morto per mano di
suo padre, lui era figlio tuo e di nostra madre, ricordi quel giorno nel bosco?
Assassino non dirmi che non è stata l’unica donna che hai avuto? Non dirmi che
altre hanno osato toccarti, allora? Come fai a non ricordare?”
Scarlatto era sconvolto, silenzioso si era sfilato anche
l’elmo e guardava il vuoto con occhi rapiti;
“Ho ucciso mio figlio, quel giovane impavido e tenebroso era
il mio sangue, e tu l’hai mandato contro di me come carne da macello, in
sacrificio verso suo padre!?”
Scarlatto tuonò nella notte un grido disumano e rapace, poi
sfuriò una sfilza di potentissimi colpi che Vorcle parò con fatica, ma
l’implacabile guerriero dal volto sfregiato ormai era pazzo di rabbia e la sua
spada si infilzò nello stomaco dell’uomo truccato che cadde in terra in preda
ad orribili convulsioni e spasmi in un mare di sangue.
Scarlatto si voltò affannato verso Sibilla e le porse la
mano, con il volto orribile, le membra deformi e la voce tremante egli disse:
“Vieni con me amor mio!”
Sibilla però guardava oltre la spalla di Scarlatto, Vorcle
era in piedi con gli occhi fiammeggianti, la bocca sanguinante e spalancata, la
spada conficcata nell’addome.
Con un feroce colpo di spada, brutale e distruttivo, staccò
il braccio destro di Scarlatto che cadde in ginocchio con una mano a tamponare
l’orribile squarcio ove prima vi era un braccio ricoperto da piastre rosse.
Ma l’audacia di Scarlatto era immensa, le sue risorse
inesauribili.
Con fierezza si rialzò e con una debolezza ormai prossima
allo svenimento disse a suo fratello:
“Come hai fatto a rialzarti?”
“Il cuore fratello, devi colpire al cuore per uccidere il
mangiatore di uomini!”
Appena dette queste parole un grido sconvolse il silenzio di
morte, qualcosa che aveva una vaga forma si era avventato alle spalle sul collo
di Vorcle e lo stava sbranando, era il bambino con l’abito da sposa, ormai
completamente ricoperto di sangue, con la faccia livida e spaccata, rivendicava
anch’egli la sua immortalità scagliandosi contro il suo ingiusto padre.
Scarlatto mutilato afferrò una spada appesa al muro e
sfoderandola con i denti gridò:
“E allora che al cuore sia!”
Si lanciò con tutto il suo peso contro Vorcle impegnato con
suo figlio e gli trapassò violentemente il cuore rigirando la lama all’interno
del petto.
Il bambino impaurito si guardò intorno, c’era qualcosa di allucinato
nel suo sguardo, si gettò nel fuoco facendosi consumare dalle fiamme, lanciando
grida funeste di cupo strazio, grida insostenibili, atroce suicidio
nell’abbraccio di quelle vampe di dolore, sigillo del sacrificio di una mente
che aveva subito irreparabili danni.
Vorcle si sosteneva appoggiandosi al muro, vomitava sangue,
piangeva lacrime cremisi che scorrevano lente lungo il suo volto dipinto di
bianco.
Con gli ultimi sospiri si aggrappò a suo fratello, estratto un
sottile stiletto che portava alla caviglia pugnalò la gola di Scarlatto che fu
lacerata da parte a parte, il sangue denso sorse a fiotti e prese a scorrere da
quel mortale squarcio.
Il morente Scarlatto, con il suo unico braccio afferrò
Vorcle in un ultimo abbraccio e spinse in avanti con tutte le sue forze, così
entrambi precipitarono dalla lunga finestra gotica.
*
Sibilla si guardò
intorno, solo sangue e solitudine, immani quantità di sangue scorrevano
ovunque, lungo le pareti, sulle armi giacenti in terra e anch’esse prive di
vita, poiché prive dello spirito di colore che le brandiva, il sangue denso del
corpo di Rubina giacente in terra, i resti straziati del bambino suicida ancora
macabramente in preda alla combustione, tutto era morte, morte sanguinosa, così
la ragazza scoppiò in un pianto straziante.
“Fui motivo di disputa di due così grandi guerrieri, nessuno
di loro ha vinto, nessuno di loro è sopravvissuto per donarmi il suo amore e
brandire il mio corpo.
Sils era un vile codardo, Rubina giace con la spada di suo
figlio nel petto, Scarlatto e Vorcle annientati a vicenda. Quale sarà la mia
tragica fine? Sgualdrina per sopravvivere?
Mai! Fui una donna contesa, amata da grandi uomini.
Ma adesso cosa mi resta? Il loro sangue, i loro cadaveri, i
loro corpi trafitti.
Dov’è l’amore ora? Dove si rifugia? E’forse morto
anch’esso?”
Mentre diceva ciò aprì delicatamente, con i lenti e
meccanici gesti della follia, un cassetto ove sapeva di trovare un ampolla
contenente un liquido blu, potente veleno di cui Rubina gli aveva parlato prima
che Vorcle le sorprendesse.
Sibilla lo bevve tutto d’un fiato e attendendo lentamente la
soporifera morte si accasciò accanto a Rubina, si lasciò andare al languore
della disdetta mentre moriva avvelenata.
Vorcle e Scarlatto furono ritrovati nel bosco, avvinghiati
l’uno all’altro.
Fu impossibile separarli e furono così seppelliti
abbracciati; c’è chi dice che le loro anime lottino ancora, senza sapere che il
loro amore è perduto e il suo cadavere giace freddo tra le loro lacrime ed il
loro sangue.
L’amore invece non morì mai, e continuò a mietere le sue
vittime.
Davide Giannicolo