domenica 11 dicembre 2016

Violino Morente



Violino Morente



Vichelas era ormai seduto da due ore sul suo divano bianco, costosissima pelle bianca scelta da Lucrezia:ovverosia la donna che in quei giorni viveva con lui.
Era difficile stare dietro a Vichelas, specie in questi periodi di ottusa e languida depressione, periodi in cui era sempre più chiara nella sua mente l’idea della morte e dell’inutilità delle cose intorno, compreso il divano di costosissima pelle sul quale era sguaiatamente disteso, compresa Lucrezia che nell’impossibilità di stargli dietro compiva spese folli compensando in malo modo lo scarso valore della sua sterile compagnia.
Quando questa idea squarciò il languore(ormai accadeva così da mesi: la stasi, la scintilla e infine lo scoppio).
Vichelas afferrò la bottiglia di Bourbon che gli stava dinnanzi e la gettò contro la stampa lussuosa di un quadro di Delacroix che era appeso alla parete di fronte al divano.
Quando la bottiglia si fracassò alcune grosse schegge raggiunsero i suoi nudi piedi sul tappeto, era in accappatoio, nudo e peloso, attraente come una iena morta.
Allora attratta dal frastuono giunse Lucrezia, lasciò il telefono al quale era aggrappata per gran parte del giorno e si mise a sbraitare come una gallina sgozzata:
“Vichelas! Ma cos’hai? Sei forse impazzito?”
Era lì davanti a lui, con le unghie laccate di bianco e i suoi disgustosi, elaborati vestiti succinti e alla moda.
Vichelas provò un moto di rabbia irrefrenabile, pensava con troppa ossessione alla moto passivo dell’universo, questa cosa gli divorava i giorni, lo assaliva spingendolo tra le fauci dentate di questi scatti improvvisi ove sentiva vivida l’intolleranza nei confronti delle cose che lo circondavano, e allora l’impulso disgregativo diveniva implacabile.
Lucrezia guardava il suo uomo in accappatoio e con i genitali esposti con naturalezza da primate, lo sguardo di lei era infatti a metà tra il disgusto e la paura.
Vichelas non si era mosso dalla sua postura originale, si limitava a guardare la compagna con uno sguardo folle ed un vago sorriso aleggianti sul suo volto.
“Tu sei patetica!” infine disse ciò, e accentuò ancor di più il suo sorriso nonché la follia dei suoi occhi.
“Cosa?” Lucrezia era smarrita, nel profondo di se stessa sapeva che Vichelas stava impazzendo, i principi del suo crollo psicologico risalivano al periodo in cui aveva abbandonato l’orchestra filarmonica al fine di sperimentare suoni solisti.
Vichelas era un violinista, il migliore violinista d’Europa.
Ma egli aveva deciso di abbandonare la tecnica per coronare il sogno chimerico di tradurre alla perfezione il sentimento in musica.
Aveva provato, provato e riprovato ancora, infine si era incattivito e isolato cadendo in rovina sia economicamente che fisicamente.
La violenta passione di questo suo desiderio lo stava conducendo alla follia, alla morte, ed era questo in fondo quello che voleva.
Lucrezia si voltò, stava per andarsene ondeggiando il suo opulento sedere fasciato da una pacchiana gonna aderente, si apprestava dunque a far ticchettare i suoi alti tacchi.
“E se facessi scorrere il mio sangue lungo le corde? Se spargessi lungo le corde tutto il mio sangue potrei affilare la mia maestria sullo strumento risorto a nuova vita e mondato dai vincoli terreni della forma e della regola. Solo in bilico tra la vita e la morte, vibrando l’archetto con il languore dell’abbandono e della perdita potrò raggiungere il culmine supremo della mia opera, e la morte deciderà quale sarà l’ultima, sanguinante nota.”
Vichelas disse questo con una voce così debole e stanca da essere a malapena percettibile.
Non si mosse d’un solo centimetro e sprofondò lo sguardo nei più reconditi meandri del vuoto. La ricerca della massima espressione del sentimento l’aveva seppellito nel limbo del nulla.
Lucrezia si voltò di nuovo verso di lui.
“Vichelas, io ti lascio!”
Egli sorrise, era calmo, pacato, orribilmente sereno nella sua folle, distorta e fittizia armonia. Infatti scattò in piedi e le lanciò contro il portacenere di cristallo.
“Credi che mi importi qualcosa lurida cagna fallita? Non hai capito che non mi interessa niente della tua vita, delle tue feste, della tua mondanità, dei tuoi merdosi acquisti e delle tue immonde cazzate? Guarda, guarda cosa me ne faccio io delle cose del mondo!”
Detto ciò afferrò un coccio della bottiglia che aveva rotto poco prima, era enorme, sembrava un coltello di vetro.
Già nell’atto d’afferrarlo la sua mano cominciò a sanguinare, rivoli rubizzi serpeggianti attraverso le nocche, note di dolore isterico, gocce d’essenza tingevano il tappeto lentamente, con la flemma del battito d’ali d’un angelo morente.
Si conficcò la punta aguzza del vetro nella carne dell’avambraccio e vi praticò un grosso taglio verticale, aveva scavato così a fondo che il sangue abbeverava ora anche il divano, il costosissimo divano di pelle bianca comprato da Lucrezia.
Vichelas era serio, impassibile osservava Lucrezia attendendo qualcosa, ma in fondo si aspettava il silenzio.
“Dammi il violino Lucrezia, voglio cantare la mia rabbia!”
“Perché non canti l’amore Vichelas”? rispose lei senza sapere cosa dire.
“Non dicevi una cosa intelligente da mesi Lucrezia, vuoi sapere perché non canto l’amore? Perché il mio amore in questi giorni sta morendo, è in agonia, e anche lui vuole che io canti la sua rabbia. Ora vai piccina, prendi quel dannato violino e portalo qui o ti uccido!”
E Lucrezia così fece, ma poi lo abbandonò lasciandolo solo all’ombra delle sue ossessioni.
Vichelas nemmeno vi badò, al solo contatto con la tastiera del violino fremette, carpiva le note fluttuare lungo le sue dita attendendo frementi d’erompere in una violenta e cieca esplosione.
Sapeva di poter superare se stesso mentre intanto il sangue lacrimava copioso dalla sua ampia ferita.
All’apice d’un delirio febbrile Vichelas sentì di stare per varcare la soglia del sovraumano e non appena posò con brutale delicatezza il crine dell’archetto sul “MI” tutto divenne estasi, la sua mano prese a muoversi leggera come un velo carezzato dalla brezza, il suono che stava emettendo con maestria disumana era un sospiro, un delicato e strascicato sussurro di morte.
D’un tratto la sua mascella si serrò convulsa sulla mentoniera, lo sguardo s’aguzzò follemente e carpì lo scricchiolio del legno che stava per spaccarsi poiché troppo pressato tra il mento e la robusta spalla.
Allora il polso di Vichelas scattò, diede vita ad una tempesta di suoni violenti e aggressivi, a tratti, in una foga bestiale, perfino cacofonici.
“Fanculo i maestri, tutti i maestri della mia vita!”
Pensò che quanto stava componendo sarebbe stato reputato semplicemente inammissibile dai probi compositori, dai probi in generale, coloro che credono di detenere il sapere, che lo manipolano, che ti impartiscono la regola persino nei sentimenti come hanno già fatto con i suoni, con gli odori, con le percezioni…
Mentre infuriava all’apice della violenza del suo crescendo Vichelas pensava proprio a questo, hanno creato una scala pentatonica anche per i sentimenti, che era questo quello che lui aveva sempre desiderato:abbattere i limiti delle costrizioni bieche, non puoi manipolare il suono, devi chiedere al suono, devi sedurlo e lui sedurrà te.
Vale così anche per i sentimenti, se analizzi un sentimento lo uccidi, intrappolando un suono lo uccidi.
Vichelas era sempre più sudato e febbrile, ormai aveva perso ogni contegno e faceva vibrare la corde con la furia di un Faust nell’estasi del dolore.
Seguì un diminuendo intervallato da stacchi secchi e decisi che quasi spezzarono il crine stridente  sofferenza con il suo attrito di smarrito delirio.
Un assolo struggente che era un dolce lamento lanciato nella notte fu il culmine, poi il violino si fracassò letteralmente tra il mento e la spalla di Vichelas, la sua simbiosi con lo strumento era giunta al punto tale da averlo frantumato.
Era pallidissimo, il sangue gli imbrattava le mani tremanti a causa della liberazione dell’opera suprema, mentre di nuovo, nella sua alterigia, mesto calava il silenzio.
Vichelas si abbandonò sul bianco divano chiazzandolo di rosso, fu in quel istante che pensò a Lucrezia, cosa avrebbe pensato se avesse visto il divano ridotto in quello stato?
Sorrise, in fondo Lucrezia lo aveva aiutato a concepire la sua opera massima, ma perché, e soprattutto grazie a che cosa essa era venuta finalmente alla luce?
Cosa aveva destato quel superbo capolavoro? Era stata la rabbia o l’amore?
Vichelas chiudeva intanto gli occhi assaporando la serenità ascetica di chi ha raggiunto un fine eccelso, e sorrideva morendo, sorrideva dissanguato senza porsi nessuna domanda, l’amore, la rabbia, la vita, ora niente di tutto questo contava più, contava solo il finalmente esplicato moto della sua anima, ora comprendeva l’universo che è fine unicamente a se stesso, capì come ognuno di noi è goccia d’astro, di terra, di acqua e di fuoco.
Sapeva che solo morendo avrebbe baciato in bocca la rabbia verso il mondo e l’amore che nutriva per il suo violino.
                              Davide Giannicolo

                              Finito di dattiloscrivere il 26 01 2005 

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