giovedì 29 dicembre 2016

La Tragedia Sanguinaria

                                

            
                                    LA TRAGEDIA  SANGUINARIA


Sbilla, contadina modesta e di grazie delicate, era in preda all’emozione più grande della sua vita, nonostante fosse notte fonda era impossibile abbandonarsi al sonno, il giorno dopo avrebbe sposato il suo amato Black, un matrimonio semplice ma appoggiato e salutato con festa da tutti gli abitanti del villaggio. Il suo gracile petto di colomba era colmato da una smaniosa trepidanza, tutto era pronto, persino la  loro piccola casa attendeva che le stanze ora vuote si riempissero della fragranza della loro prima notte d’amore.
Anche i suoi fratelli erano agitati, raccolti intorno al padre comunicavano attraverso il silenzio la malinconia lieve che li percorreva, Sibilla era la loro unica sorella, era doloroso il pensiero di non poter più sentire la di lei virginale e gioiosa presenza tra le mura di casa.
Presto i primi raggi del sole si allungarono per toccare le guance della promessa sposa,riscaldandole di un puro tepore.
Sua madre entrò poco dopo nella piccola stanza e nel trovarla già desta sorrise comprendendo.
“Stai tranquilla, dopodomani già comincerai ad abituarti all’idea di essere moglie.”
Sibilla pianse, in effetti sentiva l’emozione valicarla, impadronirsi di lei, era piacevole quanto spiazzante, più si avvicinava il momento e più sentiva l’ansia di un qualcosa d’ignoto che l’aggrediva di sorpresa, mentre poco prima questo qualcosa se ne stava nascosto dietro il velo dolce dell’attesa.
Bastò dire un po’ di sciocchezze e si tirò subito su, era l’emozione che confonde anche le menti più lucide.
Con l’aiuto di sua madre in pochi minuti tutto fu pronto.
Nel suo modesto abito bianco Sibilla era splendida, le chiome corvine le ricadevano radianti e lucidissime sulle piccole spalle, il suo sorriso era largo e luminoso, naturale come la fonte che scolpisce la roccia con il suo dolce incedere, la felicità regnava incontrastata in ogni fibra della stupenda ragazza.
Taddinio, il suo piccolo cugino di sangue spalancò la porta, Sibilla si voltò verso di lui e sorrise, quegli occhi emanavano un liquido bagliore che abbagliava di lucori diafani, infatti il bambino sobbalzò tirando un grosso sospiro, poi la sua faccia esterrefatta lasciò spazio ad un sorriso.
“Sei bellissima cugina mia!”
“Sei gentile Taddinio, ma è quasi ora, andiamo.”
Prese la mano del bambino e tutti e tre si incamminarono discendendo le scale ove tutta la famiglia era riunita per ammirare Sibilla in tutto il suo splendore.
Ognuno fece il suo commento tre risa gioiose e giulive esultanze di sottofondo, poi i suoi due fratelli maggiori, impettiti e con il portamento fiero le aprirono la porta, pronti ad accompagnarla all’altare della piccola chiesa del villaggio.
Blanck era già lì ad attendere da tempo con il suo sorriso bonario e i capelli arruffati.
Quando Sibilla giunse all’altare i due si scambiarono un reciproco sguardo di amorevole contemplazione.
“E’ finalmente mia!” Pensò Blanck con orgoglio.
Presto il prete li raggiunse e la cerimonia ebbe inizio, erano state appena pronunziate  le parole formali quando la porta della chiesa fu spalancata.
Tutti si voltarono verso l’entrata e videro un anziano contadino massacrato da frecce cadere in ginocchio, il povero uomo ebbe solo il tempo di dire poche parole prima di spirare:
“Sono i membri del culto oscuro, sono qui per la vergine.”
Nel frattempo una lancia penetrò il suo petto scagliata dall’esterno.

                                                                          * 

Si diffuse il panico, Sibilla osservava Blanck preoccupata, i suoi fratelli afferrarono i candelabri più alti e lo stesso fece il loro padre, insieme attendevano oscurati dall’impellente disdetta.
Le selvagge grida esterne cessarono, il silenzio fu infranto dal trotto di un enorme cavallo nero che maestoso e lento scheggiava coi suoi zoccoli il marmo della chiesa incedendo.
Il cavaliere che cavalcava il destriero era altrettanto enorme, un guerriero del culto oscuro con il volto dipinto coi colori della morte, dalla sua bocca scorreva un rivolo di sangue, certo non suo, poiché i guerrieri oscuri erano cannibali oltre che turpi individui votati al sadismo più efferato.
I capelli unti e raveni del guerriero erano legati disordinatamente, una pelliccia nera copriva le sue larghe spalle, se era di un orso nero significava che costui era un generale, e sembrava proprio fosse così data l’ampiezza di quel manto, i guerrieri razziatori di rango inferiore potevano indossare solo pelli di lupo.
Una spallina di cuoio nero borchiato era la sua unica protezione.
Presto le incisioni simili a tatuaggi che portava sull’avambraccio, mostrate con fierezza, rivelarono il reale rango di quel uomo, portava incise la luna e la madre dea che ricama col sangue la sapienza degli astri, quello non poteva essere che Vorcle, il mangiatore di uomini, capo supremo del culto oscuro.
“Consegnatemi la donna e vivrete, o farò di voi il nostro trastullo.” Solo questo egli disse, in un sospiro malinconico che terminò in un sorriso diabolico, anche i suoi denti erano impregnati di sangue.
I fratelli di Sibilla le si misero innanzi come fossero scudi, erano troppo fieri e decisi per non provocare l’ilarità del guerriero.
Infatti Vorcle con gli occhi iniettati di sangue e follia lanciò una risata sinistra fino a che una schiuma sanguigna  gli colò dalla bocca, afferrò il piccolo Taddinio per i capelli e lo scannò come un agnello, dinnanzi a questo atto così cruento i due fratelli si scagliarono contro di lui, ma la spada e lo stiletto di Vorcle trafissero i giovani petti vanamente sagaci.
Un cenno d’intesa bastò a scatenare la furia efferata delle bestie senza dio che attendevano all’esterno della chiesa.
Blanck fu sodomizzato davanti ai lacrimanti occhi della povera Sibilla.
“Guarda il tuo effeminato uomo come gode dei piaceri dei miei forti uomini!” Gridava Vorcle divertito mentre flagellava il prete inchiodato all’altare, gridava ancora parole blasfeme in preda ad un selvaggio furore mentre il sangue del sant’uomo gli schizzava sulla faccia.
Piangeva Sibilla, impotente, mentre osservava attraverso una nube di lacrime i suoi cari cadere uno dopo l’altro, torturati e scempiati da quella turpitudine senza nome che era giunta a disgregare la sua felicità e a segnare per sempre il suo animo.
L’ultima vittima viva era sua madre, che implorava pietà mentre un nano, anche lui con il volto truccato, le azzannava ferocemente i capezzoli, altri la tenevano ferma dopo averle lacerato le vesti. Vedere il corpo di sua madre nudo, sanguinante, dibattersi tra le laide lascivie di un nano aberrante e dei suoi compagni figli del diavolo, tutto ciò le gonfiò le tempie fino a farla svenire dal dolore.

Sibilla fu legata saldamente e venne sollevata sul cavallo di Vorcle, si risvegliò fra oscuri boschi osservando confusamente gli alberi sfrecciare lungo la corsa a galoppo.
Aveva sentito leggende sul  culto oscuro, dicerie sussurrate riguardo le scorribande nei paesi vicini, pensava fossero solo cupe fiabe raccontate accanto al fuoco, invece quella che stava vivendo era un orribile realtà, il forte braccio di un sanguinario assassino la stringeva forte alla sella, sentiva intorno il gruppo di circa venti scellerati bestemmiare e dedicarsi a discorsi la cui depravazione violava l’umano.
Vorcle gridava nella foga della corsa sfrenata di avere nel suo castello un fanciullo, narrava cose aberranti, lo costringeva a indossare abiti da sposa e lo usava come sollazzo assoggettandolo alle più atroci umiliazioni.
La cavalcata proseguiva mentre Sibilla veniva rosicchiata dalla sua stessa paura resa inesorabile da quelle ignobili manifestazioni di brutalità.

Trascorsero due giorni, due giorni di viaggio interrotti da poche soste, durante quelle soste Sibilla ebbe modo di apprendere nuove, agghiaccianti notizie riguardo la sua sorte.
 Doveva essere sacrificata sugli altari intrisi di sangue di una nera caverna ai quali i guerrieri si riferivano come fosse il loro covo, gli scellerati avevano una sorta di pretesto spirituale che giustificava le loro macabre azioni, ma sembravano più che altro assoggettati da Vorcle; fosse stato per loro, Sibilla lo sentiva, l’avrebbero stuprata e uccisa fin da subito, ma parlavano con timore di Vorcle e del suo culto, non avrebbero mai osato violarne le regole.
Era loro diritto però possederla una volta consacrato il rituale, e Tiran il nano già pregustava l’evento annunciando che sarebbe stato il più crudele e fantasioso.
Sibilla fu anche testimone delle bestiali abitudini dei suoi rapitori, mangiavano carne cruda, si accoppiavano con animali e spesso anche tra di loro, costoro sembravano essere il parto più ignobile cresciuto in seno al nero capro diabolico che domina i boschi, nulla si avvicinava a un demone quanto un membro del culto oscuro.

Sibilla piangeva ogni notte, e ogni notte, sin dall’inizio Vorcle la fece sua violando la sua verginità e dunque rendendo inutile quella vittima. Vorcle non era uomo da nascondere i suoi intenti e cominciò a dominarla incurante degli altri sussurrando parole impensabili per una bestia di tal fatta,
Sibilla era alienata in una dimensione di totale estraniazione quando l’uomo la possedeva, esiliata nel suo dolore cercava di non sentire la viscida serpe che si stava insinuando nel suo ventre.

“Non ti sacrificherò, verrai con me al mio castello, ti rapirò poiché tu hai rapito il mio cuore.”
“Come puoi tu parlarmi d’amore, tu che hai sterminato la mia famiglia, il mio sposo, e avevi intenzione di concedermi ai tuoi guerrieri come hai fatto con mia madre.”
“Il mio è un cuore barbaro, ognuno ha il suo modo d’amare e tu ti abituerai al mio, volente o nolente.”
Dicendo ciò Vorcle abbandonò Sibilla alle sue lacrime e nudo s’addentrò fra gli alberi.
Il cuore feroce del guerriero era stato realmente domato dalla bellezza pura della fanciulla, trascorreva malinconiche notti insonni da solo, accanto ai ruscelli con il cupo sguardo immerso in tetre, silenti meditazioni, Vorcle non fingeva, egli non sapeva fingere, per quanto fosse pazzo e brutale egli non era mai stato falso, il mangiatore di uomini a suo modo si era innamorato.
Ma il suo cuore che non aveva mai provato quella sensazione non conosceva delicatezze, per amare la sua Sibilla usava l’unica maniera da lui conosciuta, la strada della brutalità.
Sibilla riconosceva in lui, specie nei suoi occhi, quella fiamma ardente che provava per lei, ma quell’uomo così crudele non meritava nemmeno di pensare una cosa del genere, quello che aveva fatto era imperdonabile.
                                                                        
                                                                             *

Una notte, mentre Sibilla era immersa nei suoi pensieri, la piccola figura di Tiran varcò la soglia della sua tenda, pronto a divertirsi e a violare qualsiasi ordine pur di soddisfare la propria brama bestiale, il nano offendeva la fanciulla con le più crudeli imprecazioni. Non appena la mano di Tiran tentò di sfiorare Sibilla, Vorcle apparve dietro di lui, il colosso non perse tempo e afferrò l’omuncolo rompendogli brutalmente il collo come fosse uno stele.
Sibilla approfittò di quello stato di confusione, e con determinazione e coraggio sgattaiolò dalla tenda e si dileguò protetta dall’immensa oscurità dei boschi.

Presto in un iracondo frastuono Vorcle riunì il gruppo di guerrieri, molti furono uccisi al fine di chetare la rabbia immensa che gli pervadeva le membra a causa di quella stupida fuga.
“Siete degli idioti, giacete ubriachi senza nemmeno sorvegliare un prigioniero, ma che razza di guerrieri siete? Se non la riporterete indietro vi impalerò tutti e sono sicuro che nemmeno i corvi vorranno toccare le vostre miserabili carni, avrei fatto meglio a portare con me Tarantula, solo lui vale più di cento di voi stolti. Andate, cosa aspettate andate MALEDETTI!!!!!”
Il gruppo si lanciò in un cieco inseguimento, nessuno sapeva da che parte Sibilla fosse scappata, Vorcle con occhi folli era in testa alla cavalcata e speronava a sangue il suo cavallo, determinato a recuperare colei dalla quale aveva appreso l’amore.
Sibilla correva delirante, il cuore le tuonava nel petto all’impazzata facendole credere di star per esplodere, sentiva le selvagge grida dei suoi inseguitori vicinissime, ma nella sua folle corsa, d’un tratto incontrò un ostacolo sulla sua strada, un qualcosa di duro come roccia, vi andò a sbattere e rotolò all’indietro, quando alzò gli occhi in preda ad una febbrile agitazione, vide dinnanzi a lei un cavaliere, la sua statura era simile a quella di Vorcle, il suo corpo era completamente avvolto nelle scaglie d’una rossa, fiammeggiante corazza, cupe e tenebrose dall’elmo serrato uscirono le sue parole:
“Da cosa scappi fanciulla? Leggo una indomabile paura nei tuoi occhi, non riceverai alcun male dalla mia spada, anzi, essa è al tuo servizio.”
“Non siete voi colui che temo cavaliere, il culto oscuro m’insegue, hanno ucciso la mia famiglia e Vorcle stesso vuol prendermi in sposa.”
“Non temo il culto oscuro fanciulla.”
Intanto i guerrieri si annunciarono con violente grida, non appena giunsero alla loro vista, il cavaliere si parò innanzi a Sibilla come un muro ferrato, poi ruggendo si scagliò contro il gruppo.
In pochi istanti in sette caddero sotto i suoi poderosi colpi mentre Vorcle li osservava con in volto un fiero sorriso, i due avevano l’aria di conoscersi, anche il cavaliere, affannato lo attendeva con la spada issata, immobile e possente.
Vorcle discese dal nero cavallo e ringhiò:
“Questa donna è mia e verrà con me!”
Il cavaliere non si mosse d’un centimetro, era ancora innanzi a Sibilla.
“Non verrà se non lo vuole!” infine disse.
Vorcle sguainò la spada e si lanciò contro il fiero cavaliere che lo emulò senza perder tempo.
L’impatto fu spettacolare, velocissimi colpi di spada venivano scagliati con ugual foga, violenti fendenti parati e restituiti con ferocia e indomabile forza da entrambi, Vorcle era guidato dalla furia dell’amore, ma da dove proveniva la sofferenza che rendeva il cavaliere suo rivale così determinato? Solo un dannato può lottare con quell’ardore. I due erano troppo equilibrati, e al chiaro di luna continuarono a scambiarsi letali colpi, mentre si affrontavano con furia sanguinaria,Sibilla indisturbata ne approfittò per scappare ancora.
I guerrieri non badarono a lei, tanto furiosa era la loro violenza che in un vibrante colpo le due spade si spezzarono, seguì uno scontro a mani nude, gli alberi caddero sotto le loro spinte fino a che entrambi caddero sfiniti in terra.
“La donna è lontana ormai!” Disse il cavaliere.
“La raggiungerò, ovunque essa sia.”

                                                                            *

Sibilla scappava da cinque giorni nel fitto dei boschi, non faceva altro che pensare al cavaliere dall’armatura rossa, l’aveva salvata con disinteresse solo perché il suo cuore era nobile, forse era morto sotto i colpi del mangiatore di uomini, forse aveva avuto la meglio, o probabilmente dato l’equilibrio tra i due si erano ammazzati a vicenda.
Chissà quale magnifico volto si celava sotto quell’elmo, il magnificente cavaliere poteva lenire il recente dolore della perdita di Blanck.
Si nutriva della immagine sbiadita di lui maestoso che si scontrava contro il grande Vorcle furente d’amore per lei, la grande bestia, il mangiatore di uomini incapace d’amare che infine aveva pianto per una ragazzina, Sibilla vedeva in lui un uomo guidato dal destino, inconsapevole dell’atrocità dei suoi gesti, in fondo provava pena per Vorcle.
Immersa nei suoi pensieri la bella Sibilla udì un rumore, si voltò di scatto e si trovò di fronte il cavaliere dall’armatura rossa. La ragazza sussultò, ma subito, nel riconoscerlo in lei si fece spazio un sorriso.
“Mia bella dama, Vorcle il sanguinario vuole farti sua, ti troverà, stanne certa. Accetta la mia protezione e vieni con me alla mia umile casa, te ne prego, se non vuoi farlo per il tuo bene allora fallo per il bene della mia anima.”

“Perché hai tanto a cuore il destino di questa misera sventurata? Ho imparato a non credere ai nobili fini.”
“Troppo tempo ho vissuto immerso nella mia malinconica solitudine e un volto come il tuo è arte per il mio spirito, la tua voce è dolce musica che m’allieta e mi fa sospirare, la tua sola presenza nella mia dimora sarebbe raggio di splendente, sempiterno astro del mattino.”
“Verrò con te allora.” Disse Sibilla sorridente e maliziosa, dentro se vi era un tripudio di sensazioni dirompenti e impetuose come lo scorrere d’una fonte di delizie, le parole di quell’uomo erano così nobili, così degne d’un poeta, la sua spada aveva pareggiato con quella di Vorcle, cos’era costui se non la perfezione?
“Ma dimmi, qual è il tuo nome cavaliere?”
“Scarlatto mi chiamano i boscaioli oh mia signora.”

Cavalcarono dolcemente per circa venti minuti e giunsero alla casa di Scarlatto, Sibilla si reggeva a lui incantata dalla sua fermezza a cavallo, stettero in silenzio, ciascuno rapito da pensieri di cui l’altro ignorava la matrice.
La casa era precaria, una capanna di tronchi con il tetto di paglia, ma il paesaggio in cui era immersa era sconvolgente, fitti alberi sorgevano maestosi intorno e un limpido ruscello scorreva dolce alla sinistra della casa.
“Questa è la mia umile capanna mia bella Sibilla.” Disse Scarlatto facendole strada.
L’interno era povero ma accogliente e l’unico letto di paglia fu presto da Sibilla occupato.
La ragazza s’abbandonò ad un sonno profondo, erano accadute tante disgrazie, ma finalmente si sentiva al sicuro, si addormentò con un leggero sorriso sulle labbra mentre cupo Scarlatto vegliava il suo sonno contemplando l’innocenza di quella immacolata bellezza.
Il cuore dell’uomo ardeva, l’amore lo logorava dall’attimo stesso in l’aveva scorta per la prima volta durante la sua fuga, doveva affondare la spada nel cuore di quella donna prima che si fosse impiccato dal dolore, egli non poteva amare.
Una strana luce brillò dagli occhi di Scarlatto al di sotto dell’elmo rosso sangue, era una lacrima.

                                                                        *


Così trascorsero molti mesi, i due vivevano serenamente e Sibilla pareva aver affievolito un po’ delle sue trascorse tragedie, anche se di notte a volte madida si destava di soprassalto dopo aver sognato l’impetuoso Vorcle cavalcare nella tempesta simile ad un demonio per giungere a portarla via. Molte volte Sibilla aveva fantasticato sul volto di Scarlatto, ma mai egli si era fatto scorgere. C’era qualcosa di profondamente poetico in questo, era come se il cavaliere avesse paura d’una ignota forza. A volte i loro corpi erano terribilmente vicini, come flussi magnetici i loro desideri si attraevano, ma sempre vi era la corazza del cavaliere a frapporsi fra loro, e allora lui scappava e cavalcava per ore da solo lasciandola immersa in tristi pensieri.
 Un giorno, destatasi  di buon ora Sibilla trovò Scarlatto già sveglio.
“Buon giorno lady Sibilla, spero che il modesto letto sia stato degno del vostro sonno.”
“Il letto era perfetto, non so come ringraziarvi. Ma questa mattina al mio risveglio un cupo pensiero mi ha assalita, siete sicuro che Vorcle non verrà in questa valle?”
“Vorcle non può arrivare fin qui, gli è proibito, non mi chieda il perché madamigella.”
L’uno di fronte all’altra i due si sfiorarono lievemente le mani, la piccola Sibilla guardava dal basso, con venerazione il grosso cavaliere, Scarlatto respirava profondamente, travolto da emozioni impetuose.
Restarono lungamente in uno stato di reciproca contemplazione, fu un tuono improvviso a destarli dal sogno inebriante, seguitò una pioggerella che presto mutò in temporale.
Si rifugiarono così velocemente nella capanna, anche se Scarlatto avrebbe preferito congelare il tempo in quell’istante divino.
Sibilla era avvolta da una bianca veste ora fradicia, era stupenda con il pallido volto contornato dal nerissimo crine gocciolante, ci fu un momento di silenzioso imbarazzo, fino a che ella non scoppiò in una briosa risata.
Scarlatto restò mesto, le si avvicinò lentamente e le posò un dito alle labbra come per farla tacere, dolcemente, con la delicatezza d’una piuma di cigno che si posa sul bianco ventre d’una vergine.
“Un fuoco violento e devastante arde dentro me Sibilla, io ti amo e ti venero come una dea splendente che illumina la tenebra infinita del mio cuore fin ad ora addormentato, fino a quando tu resterai qui io verserò ogni notte lacrime di dolore infausto.”
“Parli come chi ha già ricevuto un fatale verdetto cavaliere, ma anch’io sentii qualcosa sin dal principio, anch’io vorrei perdermi adesso tra le tue braccia ma sono frenata da questa tua paura, cosa ti affligge nobile uomo? Cosa ti impedisce di mostrare il tuo volto? Anch’io bramo le tue labbra.”

Scarlatto si allontanò da lei impaurito, dopo un luttuoso silenzio disse con tono greve e cupo:
“Non posso mostrarti il mio volto, scapperesti da me impaurita, non posso amarti, la tua bellezza non si addice ad un abominio.”
“Non credo a tutto questo tuo terrore, il tuo animo è troppo nobile e bello e non si può non amarlo, se tu ami dunque me come io ti sto amando, ebbene non vedrò il tuo volto, il nostro sarà un platonico amore, mai ci sfioreremo, il nostro amore sarà fatto di nobili gesti e dolci parole.”
“Come tu vuoi Sibilla, come tu vuoi!” Disse Scarlatto tristemente e le prese delicatamente la mano.

Ancora più velocemente passarono i giorni dopo che entrambi confessarono il loro amore che di giorno in giorno diveniva più forte, nonostante la loro carne non si sfiorasse mai.
Passeggiavano al mattino lungo i ruscelli nel bosco, coglievano fiori  e si scambiavano dolci parole d’amore, ma vi era sempre qualcosa di mesto e fatale negli atteggiamenti di Scarlatto, qualcosa di cupo e inesorabile.
Di notte Sibilla era a volte assalita da strane visioni, vedeva in sogno un abominio storpio e gobbo tendergli la mano, ma era troppo ripugnante perché  potesse toccarlo, si svegliava di colpo e Scarlatto non c’era, fuori dalla finestra occhi rossi la guardavano colmi di lacrime.

Al mattino parlava di quei sogni al suo amato, ma Scarlatto sembrava incupirsi a quelle parole e cambiava discorso, lo stesso accadeva quando lei gli chiedeva del suo passato.
L’uomo che Sibilla amava non era altri che uno sconosciuto, una figura oscura e malinconica, ma il loro amore era troppo grande e non poteva spezzarsi con tanta semplicità, anche se di tanto in tanto la ragazza ricordava Blanck e si sentiva sacrilega per non averne rispettato degnamente la memoria commemorandone il lutto, si era completamente dimenticata di lui, massacrato sull’altare, e ora si rifugiava tra le braccia d’un uomo mascherato che rifiutava di rivelarle il suo volto.
Ma a chetare il suo senso di colpa vi era la tangibile verità, Scarlatto l’aveva salvata da una misera sorte, Vorcle e le sue barbarie erano spariti dalla sua mente grazie a lui e se non fosse giunto in quella notte, lei adesso vagherebbe in una valle di ombre e umiliazione.
Eppure Vorcle la toccava, pur non vivendo l’idillio che ora erano i suoi giorni di poesia, ella era la sua preda ogni notte e nonostante l’atrocità di quelle violenze Sibilla era attratta dal brutale piacere che provava schiava delle rozze mani del cannibale.
A volte quando era presa dall’estasi del desiderio pensava con colpa lasciva che avrebbe ripetuto quella esperienza proibita, avrebbe dato qualunque cosa, accesa da una voluttuosa fiamma al ventre, affinché  Vorcle apparisse in sella al suo destriero a liberarla da quel fuoco, offendeva Scarlatto in preda a spasmi carnali e irrefrenabili, pensava fosse un megalomane fanatico.
Ma una volta placati quegli attimi di febbrile delirio mediante le sue dita affusolate si sentiva sporca, si chiedeva con vergogna e orrore come aveva fatto a invocare l’arrivo di colui che aveva sterminato i suoi cari e abusato di lei difendendosi dietro uno scudo che lui osava chiamare amore.
Così in lacrime correva verso Scarlatto, lo stringeva forte, affondando il volto delicato nel suo petto ferrato gli confessava per la millesima volta il suo amore.
Immobile Scarlatto la stringeva a sé, irrorandole i nerissimi capelli di bollenti lacrime a sua volta, simbolo dell’estremo sacrificio e del dolore eterno.
“Percepisco il tuo dolore mia amata, tu vorresti stringere a te carne calda piuttosto che freddo acciaio, sacrifichi la tua bellezza rimasta inviolata dalle mie mani, ma credimi, è il mio sacrificio che ti tiene a me, se non fosse così scapperesti impaurita dal tuo Scarlatto.”
“Dimmi che verranno giorni più felici! Io ti amo mio oscuro cavaliere, dimmi solo che verranno giorni più gai!”
E Scarlatto non poteva far altro che annuire, anche se sapeva che nulla sarebbe mutato, che il dolore era l’archetipo della sua esistenza e lo stava marchiando a fuoco anche sulle carni superbe di quella fanciulla, così la stringeva ancora più forte, e restavano così per ore.
Quale ignobile e malvagia entità aveva unito quelle due creature in quella tragedia?

                                                                         *

Una mattina, svegliatasi di soprassalto a causa di un ennesimo incubo, Sibilla cercò conforto nel suo amato, ma Scarlatto non c’era, forse andato a far legna si era allontanato per un po’ come spesso accadeva.
Così montò a cavallo e si diresse verso il bosco, si fermò in riva al fiume e sedette ai piedi di una quercia, il silenzio circostante cominciò a eccitarla nuovamente permeando le sue membra di istinti lascivi, d’un tratto si accorse di non essere sola, poco distante un giovane dai capelli d’oro e l’angelico volto dipingeva una tela.
Una fantasia morbosa assalì Sibilla che cominciò a far scivolare con voluttà le mani lungo il corpo sinuoso. Il pittore la osservava divertito mentre lei con occhi maliziosi perseverò nel suo gioco, poi fece cenno al giovane d’avvicinarsi, la diabolica carne vinceva, a nulla era valsa la nobiltà di Scarlatto, in preda ai suoi spasmi Sibilla si concedeva stanca d’attendere a quel giovane di bel aspetto.
L’uomo non perse tempo, velocemente affondò il volto nei seni di Sibilla.
“Prendimi angelo, raffredda la mia carne bollente, per troppo tempo mi nutrii di parole, ho bisogno di carezze adesso.”
Così il ragazzo la denudò completamente e si unirono tra gli alberi mossi da una leggera brezza.
Una volta terminata la danza carnale i due si rivestirono, nella mente di Sibilla regnava una gran confusione, il nobile Scarlatto o il bel pittore? Da chi doveva andare adesso?
Ma i nitriti di un cavallo ridestarono Sibilla ed il suo amante di nome Sils dalle loro fantasticherie.
“Scarlatto!” Pensò Sibilla sistemandosi in fretta, ma dai cespugli sbucò una figura dal volto dipinto di bianco, no, non era Scarlatto, era qualcosa di ben peggiore per lei, Vorcle il distruttore con il  solito volto folle frustò il suo cavallo.
“Scappa via mio Sils, l’ho visto strappar occhi e mangiarli, ed è follemente innamorato!”
Il giovane le disse dove trovarlo in futuro e scappò via, era sua intenzione farlo anche prima delle parole dette da Sibilla, la vista di Vorcle era inquietante ma certo il pittore non era di animo audace, non che l’arte non combaci con il coraggio, artisti guerrieri come lo stesso Scarlatto, che per diletto componeva versi, non avrebbero esitato a difendere la dama con cui avevano avuto così intimi rapporti un attimo prima, ma Sils era anche vile oltre che artista.
Vorcle rincorse Sibilla, ma una volta che ella ebbe varcato i territori di Scarlatto egli si fermò e le gridò in contro:
“Torna da me! Imparerò ad amare, il mio cuore è tuo maledetta, torna da me o giuro che violerò le leggi del culto,verrò a prenderti e mi laverò nel sangue del tuo patetico Scarlatto.”
Come poteva tornare indietro? Temeva troppo l’ira di quell’uomo. La confusione l’assaliva, il bellissimo Sils aveva marchiato la sua anima, ma Scarlatto aveva fatto troppo per lei, ella ardeva d’amore per quell’essere misterioso e se solo non avesse avuto l’ostinazione di nascondersi dietro la sua armatura,il bisogno di consumare quel tradimento nel bosco non sarebbe sorto. Al ricordo di quell’amplesso però Sibilla era presa da un sentore celestiale, non era stato come con Vorcle, Sils era piacevole amante, docile e ardito in ugual guisa.
Così lungo il sentiero Sibilla parlò al suo cuore:
“Vorcle ha infiammato il mio ventre di sentimenti perversi di cui mi vergogno, quest’uomo invece, questo Sils mi illumina al solo pensiero, nei confronti di Scarlatto invece io provo soltanto riconoscenza, no stupida, non parlare così! Tu ami quell’uomo più della tua stessa vita.”
Immersa nei suoi quesiti tormentati Sibilla non si accorse di essere alle spalle della capanna, zona severamente proibitagli da Scarlatto:
“Vi si fanno brutti incontri di notte là dietro!” Questo le aveva detto il suo amato,imperativo e misterioso come al solito.
Lei che si fidava ciecamente di lui non aveva mai tastato coi sottili piedi quel terreno, infatti ora che era ai suoi occhi quella zona le appariva tetra e oscura, il vento soffiava forte su di un inquietante lago sulle cui immote e torbide acque fluttuava una sinistra e spettrale nebbia, tutt’intorno gli alberi erano morti e sibilavano oscuri poemi di silenzio.
Sulla riva del lago giaceva l’armatura di Scarlatto ma non vi era traccia di lui.
Sibilla si avvicinò cauta, un veloce rumore acquatico la fece sussultare.
Nascosta, tra gli alberi si intravedeva un ombra, Sibilla si avvicinò spaventata, quale oscura forza muoveva le sue gambe?
Proveniente dalla tenebra la voce cavernosa di Scarlatto gridò supplichevole:
“Non avvicinarti, non osare guardarmi!”
“Scarlatto? Sei tu? Perché mai dovrei andar via!? Finalmente posso vederti, di certo non farai più spavento di questo luogo così lugubre, ma perché vieni qui? Cosa c’è di bello in questa palude?”
“Và via!!!” Gridò Scarlatto in lacrime.
“No, non andrò via, se non uscirai fuori verrò io!”
“Ti prego amore mio, non farlo, non guardarmi!”
Ma la curiosità vinse sulle lacrime angosciate del cavaliere, Sibilla avanzò e vide rannicchiato nell’oscurità un viscido essere gobbo e dal volto distorto ben più temibile del mostro dei suoi incubi, quell’essere non aveva nulla in comune con il nobile cavaliere, ma negli occhi dell’abominevole creatura splendeva una luce che Sibilla ben conosceva, una luce fiera, seppur quello sguardo fosse onusto di lacrime amare, colmo, oberato e straripante smanioso dolore.
La bocca squamosa era curvata verso il basso, patetica e travagliata, accovacciato l’essere tendeva una mano tentando di nascondersi e allo stesso tempo di calmare la fanciulla inorridita.
“Tu non sei il mio cavaliere, empia creatura, tu non sei il mio Scarlatto!”
“Ora che sai cosa sono non scappare, te ne prego, abbi pietà e donami ancora il tuo amore, hai visto quanto orrore era celato sotto quella corazza? Ma te ne prego, riconosci l’uomo che amavi, vinci la ripugnanza, guarda dentro di me e non abbandonarmi.”
“Non posso credere d’aver avuto tra le braccia un simile mostro, di averlo amato più di me stessa e di avere infranto il mio lutto, torna nella tua armatura mostro ingannatore e non uscirne mai più! Sei una offesa all’umanità tutta.”
Così dicendo Sibilla scappò via in lacrime, montò a cavallo e si diresse verso la locanda di cui Sils le aveva indicato la strada, corse sconvolta verso il suo pittore, i cui lineamenti erano certo diversi da quelli di quella viscida creatura.

“SIBILLA!!!” Gridò il guerriero in preda al più atroce dei dolori.
“Perché lodavi il mio animo ogni giorno maledetta! Ora mi ripudi miseramente. Quale ignobile destino fu scritto per me, Scarlatto il mostro maledetto e solingo.”
Afferrò la spada e appoggio la punta acuminata al suo petto affannoso, pronto a trafiggere il suo già distrutto cuore, ma d’un tratto le lacrime svanirono, un ghigno diabolico percorse il suo volto sfregiato.
“Mi tramuterò in vile, sarò come Vorcle e avrò quella sgualdrina anche contro il suo volere, sento il tuo odore mia amata cagna, la caccia comincia anche per Scarlatto!”
Affondò violentemente la spada nel fango e lanciò nella notte una folle risata, l’amore conficca i suoi artigli nelle menti più lucide annebbiandole della più feroce follia, intinta nel sangue degli uomini era stata un tempo l’armatura del cavaliere condannato, nuovamente lo sarebbe stata adesso nel nome dell’amore.

                                                                          *

Sibilla s’era lanciata nella foresta senza guardarsi indietro, aveva amato uno scherzo della natura, era ovvio che un simile essere poteva affidarsi soltanto alla nobiltà d’animo e alla delicatezza d’un amore cortese, pensando con odio a quello che lei giudicava un perfido inganno, raggiunse il villaggio di boscaioli ove si trovava la locanda che dava alloggio al pittore Sils, pronta a farsi consolare dalle sue mani di angelo e così scacciare dalla mente l’immagine del deforme cavaliere.
Entrò nella locanda e chiese di Sils, gli ubriaconi la guardavano con occhi famelici e spiritati nonostante il suo aspetto sconvolto facesse credere che fosse una sorta di pazza mendicante, forse era proprio il pensiero d’un facile adescamento che eccitava le menti annebbiate dei bifolchi presenti.
Presto Sils discese dalla sua stanza e nel vederla  coprì di baci la ragazza, ella si lasciò andare a quegli slanci focosi come una nave travagliata dalla tempesta che finalmente naviga in acque tranquille, troppo, troppo tempo aveva atteso. Un effeminato giovane guardava intanto la coppia con gelosia, come se avesse già spartito qualcosa in passato con il pittore.
“Vieni bella fanciulla, lasciamo questo rustico luogo ai loro topi, saliamo nella mia camera.”
Così i due amanti raggiunsero la stanza al piano di sopra e non persero un attimo, si denudarono abbandonandosi alle loro effusioni.
Quando l’ardente passione fu placata infinite volte, sfinita Sibilla prese a riposare sul liscio e gracile petto del biondo pittore, i capelli dorati di Sils si intrecciavano a quelli d’ebano di Sibilla come se anche loro cercassero un contatto.
Così Sibilla decise chi era il vincitore del suo conflitto interiore, il dolce e sottile artista ne era uscito totalmente trionfante, e grazie alle sue sole doti fisiche aveva goduto di ciò che a Scarlatto era stato negato miseramente non appena si era rivelato per ciò che era realmente.
Nessuno scelse mai la nobiltà d’animo scambiandola con la bellezza, lo si vedeva in quella stanza, tra quelle mura, la più innocente delle perseguitate era mutata in poche ore in lasciva meretrice grazie agli insegnamenti della vera empia figura di questa storia tragica, ovvero il viscido pittore sodomita che amava assumere la parte dell’uomo e della donna, che oggi stringeva Sibilla e domani si sarebbe abbandonato ai baci di un giovane.
Nulla di nobile vi era in quell’uomo, ma la ragazza non lo sapeva, la bellezza è una lama tagliente e ogni cosa è vista attraverso veli di sangue quando essa scorre lungo le nostre carni.
Mentre i due riposavano, strani rumori di lotta e un certo frastuono cominciarono a farsi udire dalla locanda sottostante. Sils si alzò dal letto cercando di origliare, ma la porta fu spalancata e il pittore terrorizzato cadde all’indietro sul pavimento, nudo e magro come un verme.
Vorcle apparve sulla soglia, era in compagnia di un giovane alto dai lineamenti severi, aveva un naso di falco e folte ciglia unite, lunghe chiome corvine cascavano a riccioli sulla sua argentea armatura.
Il pittore si mise in ginocchio.
“Risparmia la mia vita mio signore, prendi pure questa scialba fanciulla ma lascia vivo questo tuo umile servo.”
Vorcle prese a ridere beffardo, ma d’un tratto divenne malinconico e con disprezzo disse:
“Mi fai vomitare patetico rifiuto, degno avversario consideravo Scarlatto, ma questo essere dove l’hai trovato Sibilla? È un vermiciattolo che non vale nemmeno la fatica e l’onore di essere schiacciato dal tacco del mio stivale. Mia Sibilla, come cadesti in basso.”
“Prendila mio signore!” disse Sils in lacrime.
“NON HO BISOGNO DEL TUO PERMESSO ESSERE EFFEMINATO!” Gridò Vorcle furente e gli mollo un manrovescio che lo catapultò nella parete, il pittore piagnucolava patetico, rannicchiato in un angolino della stanza stava quasi per orinarsi addosso.
Sibilla osservò il suo fragile uomo, provava ancora qualcosa per lui, nonostante le dimostrazioni poco decorose che aveva dato di sé, ma non si ribellò quando Vorcle mise le sue nodose mani su di lei e la caricò sulle sue spalle come fosse un sacco.
Il silenzioso compagno di Vorcle lanciò uno sguardo al povero Sils.
“Amavi quella donna ragazzo?”
“Si, ma sono costretto a lasciare spazio al più forte.”
“Menti, la tua è una volgare passione, l’avresti difesa coi denti altrimenti.”
Con un certo distacco arrogante chiuse la porta alle sue spalle lasciando Sils disperato e in lacrime.

Sibilla notò che insieme, Vorcle ed il suo misterioso accompagnatore avevano sterminato tutti gli ospiti della locanda, cadaveri mutilati giacevano ovunque e ogni cosa era stata travolta e distrutta dalla loro furia disgregatrice.
Giunsero ai loro cavalli quando una figura satanica sbucò di lontano in un galoppo sfrenato, ruggiva come il demonio, rossa come il fuoco era la sua armatura, Sibilla sconvolta sussultò, e senza voltarsi gridò:
“Scarlatto!”
Ma Vorcle non rallentò il passo del suo destriero ormai lanciato a temibile velocità, si voltò verso il giovane cavaliere:
“Tarantula, và da lui e portami il suo cuore!”
Il cavaliere non disse una parola, fiero e nobile fece dietro front con il suo destriero e silenzioso come l’ombra della morte andò incontro a Scarlatto.
“Lo mandi verso morte certa, ho visto Scarlatto trafiggere più di venti uomini con la sua spada, frantumare querce con le mani, egli non è umano, fuoco infernale arde dentro di lui, e mi ama più della sua stessa vita.”
Disse Sibilla sconvolta.
Vorcle sorrise e le cinse una mano possente intorno alle generose natiche:
“Lo so benissimo, ma Tarantula è un grande guerriero, lo intratterrà il tempo sufficiente per raggiungere il mio castello, e poi non vantarti donna, anche Tarantula mi ama più della sua stessa vita.” Così dicendo Vorcle si avventurò nel fitto boscoso della foresta.

Intanto Taratula aveva raggiunto Scarlatto, il rosso guerriero con un colpo laterale di spada  sbalzò il giovane tenebroso dalla sella, ma questi tempestivamente s’avventò sull’ avversario e insieme si ritrovarono in terra, seguì una feroce lotta, il raffinato e calcolatore Tarantula non era però all’altezza dei ciechi e feroci colpi dell’esperto Scarlatto, di lì a poco il giovane si ritrovò disarmato in terra, sfinito ansimava guardando il suo avversario con cupa rassegnazione, Scarlatto gli aveva puntato la spada alla gola.
“Servi un uomo che è innamorato della donna che venero, un uomo che però non conosce l’amore.”
“Servo il mio cuore cavaliere, servo l’uomo che amo!” Disse Tarantula con distacco sognante e disperazione, poi continuò:
“E adesso che ho fallito uccidimi! Odio la tua Sibilla che ha sgretolato le mie già effimere speranze!”
“Tu ami ciò che non ti è concesso amare, ti sacrifichi per il tuo inconfessabile amore, in questo un po’ mi somigli cavaliere, e i tuoi occhi sono così limpidi e sinceri, ti concedo la clemenza della mia lama, non posso fare altro per te.”
Dicendo ciò Scarlatto inguainò la sua spada.
“No! Poni fine alle mie misere pene, non posso confessare il mio tormentoso amore nemmeno a me stesso, sono costretto a inabissarlo e a celarlo nell’oscurità di introspettive latebre, affonda la tua spada nella mia gola, Vorcle ama la tua Sibilla mentre prima compiva indicibili atrocità con il bambino vestito da sposa e mille altre vittime, la sua mente perversa adesso ha conosciuto l’amore, lo si vede da come medita, dalle ore che passa fissando la fiamma del fuoco.”
Dicendo questo Tarantula non seppe trattenere lente lacrime.
Nel lirismo di questa scena suprema, due nobili guerrieri al chiaro di luna che svelano le proprie colpe e i propri dolori, accadde qualcosa di inaspettato, Sils il pittore, comparso dall’oscurità si scagliò contro Scarlatto con in mano un pugnale, un veloce movimento e la spada del rosso cavaliere fuoriuscì dalla schiena dell’artista che con la bocca lacrimante sangue sibilò:
“Il vile non diverrà mai leone!” Poi cadde senza vita riverso all’indietro una volta estratta la lama.
In quell’istante Tarantula con velocità da fiera si gettò sulla spada di Scarlatto infilzandoci il petto.
“Dì a Vorcle che sono morto per lui”. Disse infine.
Quella notte era stata macchiata dal sangue, così Scarlatto tra i cadaveri rossi come il porpora di un ciliegio, rubicondi come la sua stessa corazza, petalo d’acciaio, irriso persino dai raggi della luna calante, parlò a se stesso a voce alta, come fanno solo i folli, gli spettri e i maledetti.
“Quest’uomo era nobile e puro, ma il suo amore impossibile come il mio, grande amico sarebbe stato per me, invece il destino beffardo l’ha posto sulla mia strada per farmi divenire il suo assassino, quanto valoroso è stato, si è battuto come un leone, poteva colpirmi quando ero impegnato con questo viscido verme che cercava redenzione alle parole di questo valoroso, è facile cambiare idea all’ultimo quando si è vissuti come mosche.
Questo cavaliere si è sacrificato per il suo amore infausto, il suo è l’estremo sacrificio, porterò dentro me il ricordo di costui per sempre, riprenderò la mia donna e riferirò a Vorcle cosa ha mandato a morire, la gemma più preziosa della terra, nata per sbaglio in un forte corpo di uomo.”

Scarlatto seppellì Tarantula, lo immaginava in un sinuoso corpo femminile, bello e splendente, che finalmente felice gettava la spada che era stato costretto  ad impugnare per amore.
Il sole intanto dopo aver germogliato flebilmente i suoi tenui raggi, adesso ardeva alto nel cielo, violento, come in preda all’ira dardeggiava con furia  e splendeva radioso mentre Scarlatto si dirigeva verso il nero castello di Vorcle.

                                                                       *

Vorcle e Sibilla si fermarono in una locanda avviluppata dalle montagne, la solitudine della montagna era impregnata in ogni cosa, nelle fibre dei tavoli di abete, persino nella gente, un effluvio di bosco aleggiava ovunque, era come se la foresta penetrasse all’interno mediante le finestre di pietra.
Il cavallo era stremato dalla folle corsa, tra l’altro vi era stato il peso di due passeggeri a fiaccare l’imponente animale nero come la notte.
Erano bastati i colori dipinti sul volto del mangiatore di uomini a sfollare la locanda dai già di per sé pochi, e tristi boscaioli.
Il locandiere, un uomo magrissimo e anziano, con le gote e il naso rosso pizzicati dal vino li fissò inebetito.
La vista di Vorcle era condita da quella di Sibilla, sporca di fango, con le vesti lacere e lo sguardo sottomesso.
Pochi istanti dopo il barbaro cominciò a tracannare boccali di birra seduto sguaiatamente su di una panca, Sibilla gli sedeva di fronte, confusa, tremante.
Vorcle cominciò a fissarla, i suoi occhi erano arrossati e iniettati da striature di sangue, il suo sguardo era simile a quello di un lupo impazzito, rabbioso, d’un tratto s’arrestò sui seni di lei, che convulsamente si muovevano insieme al respiro, un respiro impaurito, il respiro della gazzella tra gli artigli del leone, impotente dinnanzi alla seduzione obbligata della morte.
“Hai paura?” Chiese Vorcle divertito e stordito dal bere.
Sibilla non parlò, abbassò lo sguardo, ma ne aveva tanta, sapeva che quelle mani sanguinarie la bramavano, ma non sapeva cosa ne sarebbe stato di lei.
D’un tratto il guerriero s’alzò dalla panca, andò verso Sibilla, naturalmente ella sussultò, l’avrebbe sfregiata? Umiliata? Il  cuore cominciò a stordirle le tempie.
Una volta giunto vicinissimo a lei, Vorcle compì un gesto che non aveva mai osato concedere, quella mano che si muoveva solo per causare dolore carezzò delicatamente il volto di Sibilla, che a quel tocco fu scossa da un brivido che le si attanagliò lungo le membra di colomba come un serpente dalle spire d’acciaio, un brivido oscuro che la poneva su di un precipizio di ignota ma allo stesso tempo orribilmente seducente paura.
Seguì il silenzio, d’un tratto Vorcle disse con voce cupa:
“Andiamo via, manca poco al castello, mia madre ci attende!”

Il tragitto fu breve, in cima ad una rupe ammantata dai boschi sorgeva il castello di Vorcle: una costruzione tetra e imponente, a picco su  un dirupo, tutto intorno solo il canto delle montagne, lupi e civette erano messaggeri di quell’arcano idioma.
Sibilla non conosceva ancora il suo destino, se sposa oscura o donna forzata a vivere con un mostro.
Così i due uscirono dal bosco e presero lo stretto sentiero che saliva fino al maniero,un muto silenzio regnava posato sulle pietre. Finalmente giunsero al ponte levatoio già aperto per loro, enormi mastini grigi accolsero Vorcle guaendo impazziti.
Sulla soglia ad attenderli vi era una donna bellissima, sorrise a Vorcle ed era magnetica e irradiante incantesimi di fascino oscuro.
L’esile figura era avvolta da una lunga veste di nero broccato, una provocatoria scollatura a ventagli ricamati metteva in risalto i seni più prosperi e candidi che il mondo aveva partorito, un petto bianco e armonioso sormontato da un collo di cigno. Il volto della donna era particolarmente pallido, d’un biancore violento, quasi cadaverico, il suo naso era affilato, gli occhi verdi e rapaci. Lunghe chiome corvine le ricadevano lungo il corpo come un manto.
Nonostante il sorriso affettuoso, la donna aveva lineamenti severi e inquietanti.
Accanto a lei un fanciullo dai riccioli d’oro fissava Sibilla, indossava un abito da sposa, sorrideva come ignaro del suo crudele ruolo.
Alla vista di quel ragazzino Sibilla provò nuovo disgusto nei confronti di quell’uomo ignobile, ben ricordava i racconti di Vorcle, a cavallo con i suoi uomini, riguardanti le sevizie fatte a quel fanciullo, costretto ad essere il triste accompagnatore del sadico guerriero in notti di violenta   e turpe passione.
Vorcle discese dal destriero e baciò le mani alla donna.
“Rubina, madre mia. Questa è la mia sposa.”
La donna guardò Sibilla con liquidi, eleganti occhi di giada, maliziosamente disse:
“Davvero spettacolare, spero che farai gemere lei come facevi con me, e spero che inviterai ai tuoi giochi anche la tua dolce madre.”
“Oh madre, quali nebbie perverse offuscano la vostra mente?”
Dicendo ciò il figlio affondò allegramente il volto nei seni della donna, che stringendolo a se  prese a ridere sguaiatamente.
Si intuiva in Vorcle il desiderio impellente e spasmodico di possederla al più presto, lì tra le colonne del portone, sentimento che la madre non chetava, bensì lo alimentava strusciandosi sinuosa sul corpo dell’uomo.
Sibilla restò immobile dinnanzi a quella scena, era dunque quello il regno di Vorcle, e quella era sua madre, una donna perversa eppure giovanissima e stupenda.
Sibilla cominciava a capire, solo un simile luogo, una simile guida, avevano potuto forgiare un uomo come Vorcle.
Infine madre e figlio condussero la novella sposa lungo i tetri corridoi del castello, Rubina continuava a concedersi discorsi tanto lascivi da sfiorare l’indecoroso.
Ma d’un tratto Vorcle divenne serio e la interruppe brusco:
“Scarlatto sta venendo qui, anch’egli brama la mia Sibilla!”
Anche Rubina divenne mesta improvvisamente.
“Dunque quello storpio rivendica i suoi diritti?” Disse pensierosa.
“Non temere madre, ti donerò la sua testa.”
Sibilla spezzò il suo stato di profondo silenzio parlando:
“Egli è valoroso, tu stesso lo temi, non sei forse scappato da lui?”
“Sei una stupida bambina e dovrei farti mangiare le braci di quella stufa, ho solo testato le capacità di Tarantula che tra l’altro cominciava a stancarmi, è poi perché privare mia madre di una vista così sublime come quella del suo storpio cadavere divorato dai miei mastini?”
Sibilla tacque, sapeva che i due guerrieri erano di uguale valore, non poteva aggiungere altre provocazioni che avrebbero solo reso Vorcle più impavido.
“Và con le mie ancelle dolce Sibilla, cospargeranno il tuo corpo di spezie e sarai più bella di quanto già sei.” Disse Rubina carezzandole la schiena e fissandola con due occhi di giada, simili a quelli di una tigre, librati nel buio d’una selva nottetempo, bellissimi e selvaggi, che in qualche modo riempiono l’anima. Quella donna possedeva un potere magnetico, una sorta di effluvio che offuscava le percezioni era emanato dal nitore delle sue membra e s’innalzava ad ogni sua impercettibile, frusciante movenza. Un fascino arcano che scosse nuovamente Sibilla, qualcosa d’inumano, appunto una tigre o un lupo, le alitava sul collo dalla tenebra quando quegli occhi si fissavano su di lei.
Cosa le stava accadendo? Da semplice contadina ora veniva sedotta da nobildonne oscure?

                                                                       *

Scarlatto saettava al galoppo nella foresta, infuriava un temporale violentissimo, gli alberi si piegavano in una lotta titanica contro gli elementi, le ombre si schiantavano lungo il passo implacabile del cavaliere che  fendeva l’aria con la sua corsa furiosa e inesorabile.
“Che lo voglia o no Sibilla imparerà ad amarmi!”
Solo queste parole rimbombavano nella sua mente riducendola ad un ossessivo delirio, un unico scopo si era preposto nella sua miserevole vita, e cavalcava verso di esso.
Scarlatto sembrava uno spettro, una figura dannata che squarciava la tenebra della notte profonda con il rosso vivido della sua corazza, una lanterna funebre, come quelle che portano con loro gli spettri che nottetempo vagano nei boschi, solo che la luce accecante anziché flebile di questa lanterna viaggiava a passo spedito attraverso gli alberi.
Nulla poteva fermare quello tormentato fantasma di vendetta e passione, nemmeno la notte poteva sedurlo a cedere o ad arretrare il passo.

Sibilla intanto era stata lavata e ripulita, riposava su soffici cuscini di stoffa orientale mentre i profumi esotici le inebriavano le tempie inducendola ad un languido torpore.
Dopo un rozzo congedo le ancelle l’avevano lasciata sola con i suoi pensieri, era però stanca, troppo stanca per non sentire il bisogno di lasciarsi andare al morbido richiamo dei cuscini di seta, fino a che non distese le sue membra perfette e chiuse i divini occhi.
Quando li riaprì gli sembrò fosse trascorso un breve attimo, ma tutto intorno a lei era più strano, le cose sembravano avvolte da una diafana luce soffusa, si sentiva languida come fosse in un sogno, ebbe infatti qualche dubbio,  forse stava realmente sognando.
Avvolta dall’ombra intravide una vaga e sinuosa figura di donna accanto alla porta, la donna si avvicinò fino a che il riverbero del camino illuminò il volto superbo della stupenda Rubina, ogni movenza di costei appariva lento, ammaliante.
La donna sorrise e lasciò allo stesso tempo cadere in terra il nero velo sottile che le copriva il corpo, quale magnificente splendore era celato dal velo! Quanta immensità restava immobile dinnanzi a Sibilla come una statua di marmo, icona di dea irradiante sacrilega luce irresistibile, un lucore simile al chiaro di luna emanava la sua carne bianchissima.
Ancora Sibilla fu stregata dalla malia di quegli occhi, nemmeno il più feroce dei guerrieri avrebbe potuto resistervi, uno sguardo ipnotico, raffinato e selvaggio a cui nessuno poteva sottrarsi.
Quando Rubina parlò Sibilla fu certa di essere in sogno, poiché nessuna voce umana mai sarebbe capace d’imitare quel suono d’arpa, un’arpa affilata e mortale.
Rubina si avvicinò, strusciando sui cuscini come un sinuoso serpente, s’innalzava il fruscio della seta rara che a contatto con la pelle nuda seduceva le membra tessendo brividi stregati.
Le gemme di quegli occhi si avvicinavano sempre più, inesorabili, imperativi gioielli.
“E’un sogno”. Pensò Sibilla, “Sento una pressione violenta alla testa, sembra che stia accadendo tutto in una bolla.”
Poi Rubina parlò di nuovo, in un sussurro letale, arpa suonata dal vento generato da ali notturne.
Di ghiaccio era l’alito della donna, gelido come il vento che soffia da nord, congelava le vene di Sibilla assalendola di violento desiderio, un fuoco nel ventre giunse presto però a sciogliere quel ghiaccio.
“Abbandonati a me, imparerai i piaceri a cui Saffo, poetessa di Lesbo, mi iniziò quand’ero fanciulla. A me erano dedicati i suoi più toccanti versi.”

Sibilla si liberò della tunica con la quale l’avevano vestita le ancelle, lo fece in un unico gesto, era come se fosse in ansia spasmodica.
Nude le donne si ritrovarono in ginocchio l’una di fronte all’altra, quando Rubina afferrò la ragazza nel suo abbraccio bollente Sibilla capì di non essere in sogno, poiché quel violento piacere che sentiva era reale come il sangue che ribolliva sotto le carni ondeggianti.
Quelle mani affusolate che percorrevano le sue membra accendevano il divampante fuoco della sua anima, quelle unghie  che affilate scorrevano dolorosamente lungo la sua schiena estasiata risvegliarono nuovi inni di gloria in onore di Saffo.
Rubina continuò la sua danza baciando con labbra rubizze il collo, le spalle, e i seni di Sibilla che ormai era completamente nell’abbandono dei sensi, fragranze sconosciute le inebriavano le carni e la rendevano cosciente, come mai lo era stata, della sua perversione e delle immani, umide proporzioni del suo desiderio, fiore di carne madido di rugiada.
Rubina le strisciò lentamente alle spalle, come un’animale carnale che fruscia sulla seta, gelida e allo stesso tempo infuocata la sua lingua affondò nei graffi che le aveva provocato sulla schiena di piccola fata.
E ancora solo il lene crepitio della seta, unito ai gemiti e ai profondi sospiri facevano da sottofondo al peccaminoso, vorace amplesso, mentre la flebile luce delle candele irradiava sulla poesia dei nudi corpi spasmodicamente intrecciati tra loro.
Sibilla aveva concesso il suo sesso ricoperto di magica brina alle labbra di Rubina che prese a divorarlo dolcemente insieme alle gambe, le caviglie, i piedi.
Ebbra Sibilla palpitava e ben presto cominciò a muoversi convulsa, innalzando grida d’amore che infransero il  silenzio.
Poi le amanti si scambiarono i ruoli, e toccò a Sibilla assaggiare le sfoglie della passione proibita che lasciavano impregnato l’effluvio d’una oscura fragranza sulle morbide labbra.
Labbra che Sibilla usò anche per carezzare i grossi seni di Rubina, labbra che si unirono fino a sfinirsi, fautrici di gemiti trionfanti e singhiozzi di serafico o demoniaco piacere.

Sfinite le due donne caddero in un sonno profondo, abbracciate nella divina poesia della bellezza, nodo di carne, stupendamente rilassate Sibilla e Rubina giacevano strette l’un l’altra, nude, artistiche nel loro soave riposo di angeli senz’ali.

Si destarono ancora strette l’una nelle braccia sottili dell’altra, notarono che il fanciullo vestito da sposa era al bordo del giaciglio e le osservava dormire, o forse osservava silente le loro nudità più che il loro sonno di soave peccato.
Sibilla si coprì vergognosa, mentre Rubina, priva di pudore, completamente nuda s’alzò e si diresse verso di lui, le carni delle sue natiche ondeggiavano come un magnificente mare di carne.
Sollevò una bianchissima, tornita gamba e l’appoggiò su una panca, poi con occhi folli ordinò al fanciullo:
“Avanti Pif!”
Il ragazzo si cimentò in una cerimonia che sembrava conoscere bene, leccava il sesso di Rubina come un gattino mansueto, poi la donna perversa, sorridendo orinò in quella piccola bocca, costringendo il bambino a bere l’orrido liquido.
Sibilla fu disgustata dal quadro lascivo, Rubina aveva perduto tutta la sua seduzione, era un pezzo di carne piegato su di una panca, un sudato, volgare pezzo di carne che non avrebbe mai potuto eguagliare il nitore d’un petalo.
“Lui è come un cane Sibilla, abituatici, apprendi le delizie della crudeltà!”
Così dicendo colpì con la pianta del seducente piede ignudo il viso del ragazzino sottomesso, il piccolo vacillò e cadde all’indietro con il naso grondante sangue.
Sibilla provava una immensa pena per quel fanciullo, ma d’un tratto fu presa da una nuova forza, la stessa sensazione di quando tradì Scarlatto con Sils nel bosco e di quando ripudiò il rosso cavaliere.
Balzò sul fanciullo con il ventre in fiamme ed il sesso bagnato, cominciò a tempestarlo di colpi al volto, rapita da un’estasi arcana, poi si fermò, con i seni nudi e candidi macchiati di caldo sangue.
Rubina era appoggiata al muro e sorrideva soddisfatta.
D’un tratto Sibilla le si rivolse con uno sguardo che non aveva mai posseduto, uno sguardo maturo, penetranti occhi di donna anziché di bambina com’erano stati poco prima.
“Raccontami di Scarlatto, com’ è divenuto così?”
Rubina sorrise, si sedette mentre il fanciullo strisciava via in chissà quale buia latebra.
“Scarlatto nacque così come tu l’hai visto, nacque da questo ventre!” Dicendo ciò carezzo con la mano sottile il bianco ventre perfetto, carnale, che sembrava attuo solo a sedurre e a far l’amore.
“Sei stupita Sibilla? Ebbene, Scarlatto è mio figlio, fratello gemello di Vorcle.”
“Ecco perché sembravano conoscersi.” Disse Sibilla sconvolta.
“Giunsi tanti anni fa in questo castello ed ero ridotta peggio di te ieri, stanca, trasandata e con le vesti lacere, ero stata quasi uccisa, in paesi lontani a causa della mia stirpe. Fu cosa semplicissima però sedurre in pochi giorni il Re di questi luoghi, gli rubai il senno con il mio corpo e la mia malia, lo costrinsi ad assassinare la sua consorte, cosa che fece per godere solo e soltanto di me.
Così da quel padre nacquero Vorcle e Scarlatto, il primo sano e forte, il secondo deforme come tu sai. Il loro padre volle che Scarlatto fosse relegato nelle segrete senza nemmeno dargli un nome. In età adolescente però la gente del castello cominciò a temerlo come uno spettro dannato, dicevano di udirne i lamenti, forse un giorno avrebbe trovato un passaggio e avrebbe sgozzato tutti nel sonno, tutti cominciarono ad avere paura, parlando di lui come di una fiaba oscura, cercando di udire il suo passo felpato o il tintinnio delle sue catene, prima che giungesse a reclamare la sua vendetta.
Quando Scarlatto divenne adolescente, udendo ancora i suoi tormentosi, spettrali lamenti nottetempo il Re decise di farlo esiliare nella foresta.
Accadde di notte, fu abbandonato a se stesso e Vorcle stesso presenziava ignaro di essere suo fratello.
Così il mio deforme figlio crebbe con l’odio nel sangue, si nutrì di solitudine e rancore fino a divenire un uomo.
Intanto Vorcle, poco più che adolescente tagliò la gola di suo padre per essere il solo a godere delle mie delizie.
Il bambino che hai visto è il frutto degenero del nostro incesto, Vorcle è suo padre, e approfitta di lui da quando aveva tre anni, non può farci nulla il povero gigante, la sua mente è attraversata da turbamenti ignoti, è tipico della mia stirpe, o la deformità o la follia accompagnano i nascituri della  mia casta, coloro  che portano il nostro sangue nelle vene.
In seguito anche Scarlatto ebbe un figlio da me, prima ancora che il marmocchio vestito da sposa nascesse, molti anni prima, mi recai nella foresta io stessa, mi era difficile dimenticare la mia progenie rinnegata capisci? Ogni notte i suoi lamenti perseguitavano il mio sonno, c’era molto di buono in Scarlatto, e volevo che il suo seme guerriero tornasse al mio ventre così come io dal mio ventre l’avevo generato, avevo ansia di creare una nuova stirpe, una grandiosa progenie.
Così lo sedussi sotto la luna, e penso di essere l’unica donna che l’abbia mai sfiorato, cos’era per me donargli quegli istanti d’oblio? Cosa mi costava sfiorare quelle fattezze distorte? Non l’avevo forse tenuto nel mio grembo perfetto?
Quasi come estrema beffa nei confronti di Scarlatto, suo figlio nacque sano, e crebbe forte e bello, lo chiamai Tarantula, era un prode guerriero ma sin da quando era poco più che fanciullo capii che in lui nascondeva una donna, la teneva celata con cupa mestizia, con oscuri comportamenti, ma se lo guardavi fisso negli occhi la potevi scorgere la fanciulla che lui teneva prigioniera negli antri del suo cuore, fioriva delicata come un edera sinuosa.
Crescendo il ragazzo nutrì dei sentimenti nei confronti di Vorcle, in lui scorgeva forse ciò che lui non poteva divenire, un essere brutale che brandisce la vita senza timore di scottarsi le mani.
Tarantula invece era nobile, uguale a suo padre, egli non disdegnava il pianto, la sensibilità floreale, un certo gusto artistico, l’amore per la solitudine.
Non osò mai confessare il suo amore, solo a me, dopo lunghi anni ha sussurrato qualcosa in delirio nel sonno, ma adesso egli è morto, ucciso dalla mano furiosa d’amore del suo stesso padre, ignaro del fatto che la suo furia si stava abbattendo su suo figlio, è certo che è andata così, Vorcle aveva capito e lo trattava malissimo, di certo Tarantula ha accolto quella morte con grande orgoglio, come solo chi mi è figlio può fare.
Ecco adesso sai tutto mia bella Sibilla, Scarlatto presto sarà qui, lui e Vorcle, entrambi folli d’amore e troppo equilibrati si uccideranno a vicenda, una volta morti io e te vivremo indisturbate l’oblio del piacere nell’ozio di soporiferi festini.”
Sibilla aveva ascoltato perplessa ogni singola parola, non poteva credere a quanto aveva udito, non aveva mai sentito parlare di cose tanto assurde, mai in tutta la sua vita.
Tornava e ritornava sulle cose che Rubina le aveva detto, analizzandole con cura per poi cadere sempre in una profonda, angosciante incredulità, quando tutto le fu finalmente chiaro, dopo che ebbe riorganizzato per bene le idee domandò alla sua nuda interlocutrice:
“ Una sola cosa non mi è molto chiara mia signora, come hai fatto a mantenerti così fresca e giovane durante tutti questi anni?”
“E’ semplice mia dolce Sibilla, io mi nutro del sangue dei miei guerrieri, io sono una immortale creatura figlia della luna e della notte, sono eterna e splendida e mi bagno nel sangue degli uomini.
Vorcle ha preso da me ed è anch’egli un cacciatore, di notte vaga nei cimiteri in cerca della sua coscienza, Scarlatto invece è un mezzosangue, per questo è nato così suppongo, Tarantula invece era completamente mortale anche se incline al delirio e all’omicidio, infine c’è quel piccolo stupido, il bambino è un vampiro si, ma sa nutrirsi soltanto di topi e di cani randagi.”

                                                                               *

Il bambino vestito da sposa correva goffo come un pollo senza testa lungo i cupi corridoi del castello, arrivò ad una grande sala buia illuminata unicamente dagli argentei bagliori della luna piena.
Armi d’ogni tipo, provenienti da ogni parte del mondo erano state poste alle pareti come maestoso ornamento.
Uno dei mastini di Vorcle giunse dalla porta opposta a quella dalla quale proveniva il ragazzo, con passo lento il cane fuoriuscì dalla tenebra e fu illuminato dai raggi lunari.
 Era enorme, goffo e pesante, con sguardo schivo fissò il bambino per un attimo, infine si accucciò dinnanzi alla camino che sembrava spento,  ma in realtà fievoli braci sotto la cenere avevano attratto il grosso cane pigro con il loro calore.
Gli occhi del fanciullo dai boccoli d’oro s’illuminarono d’una luce folle, dalla piccola bocca emise un gridolino inumano e s’avventò contro il cane, affondò i dentini nella carnosa giogaia dell’animale e la lacerò coprendo di sangue i suoi abiti nuziali.
Quando il cane cadde in terra senza vita il bimbo si nutrì dei suoi resti con foga bestiale, ma d’un tratto fu distratto da pesanti passi che provenivano dal corridoio.
Guardò verso la porta impaurito, con il volto lordo di sangue, sulla soglia, al buio, vi era Vorcle con un orribile espressione di furia a percorrergli il volto.
Rimase immobile per qualche istante, poi a grandi passi raggiunse il fanciullo rannicchiato e tremante sulla carcassa del cane al centro della stanza.
“Piccolo bastardo, hai ucciso Domino.”
Afferrò il bambino per la gola e lo gettò con disinvoltura nel camino, il piccolo riuscì a rotolare fuori e a scemare la fiamma che era avvampata strusciandosi sul pavimento, ma il folle Vorcle lo colpì al volto con inaudita violenza, il poveretto andò a sbattere dall’altra parte della stanza, folle di paura restava immobile con gli occhi supplichevoli.
Così Vorcle cominciò a prenderlo a calci, gli maciullò la bocca con selvatica crudeltà per lungo tempo, poi lo afferrò per i capelli e brandito un pugnale dalla parete tagliò al fanciullo la gola di netto, non contento lo gettò giù dalla finestra, un tonfo e poi il silenzio.
 Vorcle sorrideva soddisfatto, ma il suo sorriso mutò quando udì lo scalpitio frenetico di zoccoli di cavallo, nella stanza in penombra il fuoco stava cominciando ad aizzarsi ancora, alimentato dalle vesti del bambino.
 Fatali giunsero quei rumori sinistri nella notte, il mangiatore di uomini andò alla finestra, un cavaliere si stava avvicinando veloce come un demone, una scintillante armatura rossa brillava nella notte nera, Scarlatto, suo fratello di sangue, giungeva a riprendere il suo amore perduto.

                                                                           *

Sibilla dormiva con le morbide guance posate sui nudi seni di Rubina quando la porta si spalancò, Vorcle aveva gridato prima di vedere la scena:
“Madre, Scarlatto è qui!”
Poi vide la donne che amava tra le braccia della sua folle madre, il sangue fluì veloce al cervello sussurrando sentori animosi, le vene alle tempie si ingrossarono violentemente, sguainò la spada e gridò con voce stridula, rotta dal dolore:
“ Tu, puttana maledetta, hai sedotto la mia sposa come una bieca, volgare meretrice. Per mano di tuo figlio, che non mancasti di ospitare nel tuo letto, morirai. Ecco il pegno che ti offro in dono come segno di ringraziamento per aver dato la vita a quest’essere!” Così dicendo si colpì con un pugno sul petto in maniera plateale e drammatica, quasi come se stesse per piangere indicandosi con quel colpo, poi continuò.
“Volevi che fossi incapace di amare, che come te fossi privo di sentimenti, ma io sono diverso da te baldracca, io sono Vorcle, duca della sofferenza, signore dei mastini, re del culto oscuro, mangiatore di uomini. Ecco, la tua opera è compiuta, sarò anche colui che ha ucciso sua madre, così sarò perfetto, con questo matricidio i tuoi desideri saranno esauditi e la mattina che presto verrà vedrà un nuovo uomo, Vorcle l’uomo felice e mondato dalla follia che tu gli hai insegnato, colui che renderà Sibilla, ora frutto nero del tuo gioco perverso, una donna pura e felice.”
Sibilla si rannicchiò impaurita, mentre Vorcle balzò sui cuscini e affondò la spada nel cuore di sua madre, zampilli purpurei inondarono la seta e il pavimento, solo trafiggendole il cuore quella donna poteva morire.
“Addio figlio mio, hai trucidato tua madre travolto dalla passione del tuo cuore impetuoso, ma ricorda che la tua bontà, l’amore che tanto brami, saranno l’inizio della tua patetica fine.”
Così Rubina spirò, poeticamente distesa sul tappeto con la spada di suo figlio conficcata nel petto, lentamente Sibilla le si avvicinò chiudendole le palpebre che custodivano quei magnificenti occhi verdi ormai spenti e privi della consueta magia, soavemente la ragazza si chinò e le carezzò le rosse labbra tinte di sangue.
Poi Scarlatto sfondò la porta della sala accanto, era  intriso del sangue di coloro che avevano provato a bloccare il suo passo, tutte le canaglie del culto oscuro erano perite tentando invano di fermarlo.
Erano l’uno di fronte all’altro i due fratelli rivali, sorridente Vorcle sguainò la sua seconda spada, uno spadone a due mani enorme, si diceva che con quella lama il mangiatore di uomini avesse trafitto un drago per mangiarne il cuore e da esso attingere eterno vigore.
Immobili i guerrieri restarono in posizione d’attesa, finalmente le spade avrebbero stabilito chi era il migliore tra i due.
Scarlatto notò il freddo cadavere di Rubina riverso sul pavimento, era seducente persino nel gelo della morte quella donna.
“Hai ucciso nostra madre fratello, eppure ella non ti abbandonò nella foresta come fu fatto con me.”
“Ha osato toccare con le sue adunche mani perverse la donna che entrambi amiamo, ma non pensarci fratello, in guardia. Aspetta, hai lottato finora e sei stanco, mentre io sono fresco nonostante il mio trucco di guerra sia macchiato da amare lacrime.”

Come risposta Scarlatto si lanciò all’attacco ruggendo, Vorcle si scagliò in avanti con gli occhi del diavolo e le due spade s’incrociarono, un tuono allo stesso tempo rimbombò nella stanza.
Il premio del duello giaceva in un angolo e gridava:
“Basta guerrieri, non verrò mai con nessuno di voi!”
Ma quelle parole non servirono a fermare quella lotta sfrenata, il sangue che scorreva nelle membra dei due era  fuoco, fuoco che divampava travolgendo qualsiasi forma di raziocinio.
Le lame scalfivano le carni e il duello si protrasse per lunghissimo tempo, il sangue di due fratelli veniva versato barbaramente sul pavimento della loro casa natale, fendenti brutali straziavano la carne ma il corpo come in preda ad una magia non avvertiva la stanchezza, così ognuno spingeva restio a retrocedere seppur consapevole d’esser prossimo al crollo.
 Dopo un violentissimo scambio di colpi i fratelli si fermarono l’uno di fronte all’altro, affannati e cosparsi di tagli profondi. Il sangue scorreva copioso lungo le loro ginocchia, ciascuno di loro era ferito mortalmente ma continuavano; gli occhi folli, privi d’umanità, lo sguardo di chi è finalizzato ad un unico scopo, disposto ad annullarsi pur di andargli incontro.
Vorcle non aveva più un occhio, in una posizione di stallo Scarlatto aveva affondato le sue dita nei bulbi e glie lo aveva strappato ferocemente.
Scarlatto invece aveva un taglio serio sul petto, profondissima la ferita zampillava sangue che indeboliva sempre più ad ogni fiotto, se non avesse avuto l’armatura,  quel colpo di Vorcle l’avrebbe reciso in due parti, la corazza era dunque sfondata, quindi Scarlatto se ne liberò.
Tamponandosi la ferita con la mano e con voce affannosa disse a Vorcle:
 “Giuro suo mio onore che non dormirai con la mia sposa!”
“Cosa puoi offrirle patetico fratello? Amore platonico? Scapperà ancora da te nobile Scarlatto!”
“Mi guarderò da questo inconveniente, imparerà con il tempo ad appartenermi. Tu invece cosa puoi offrirle? Tu che hai sacrificato senza lacrime quel fiero ragazzo, Tarantula, è stato doloroso uccidere un così valoroso guerriero, sacrificatosi per un vile come te. Quel ragazzo nascondeva, a giusta guisa, un amore nei confronti d’un animale indegno.”

“Sei uno stupido!” Disse Vorcle. “Tarantula era tuo figlio e tu l’hai ucciso di tua mano.”
“Cosa farnetichi vile?”
“Si, Tarantula è morto per me lo so, ma è morto per mano di suo padre, lui era figlio tuo e di nostra madre, ricordi quel giorno nel bosco? Assassino non dirmi che non è stata l’unica donna che hai avuto? Non dirmi che altre hanno osato toccarti, allora? Come fai a non ricordare?”
Scarlatto era sconvolto, silenzioso si era sfilato anche l’elmo e guardava il vuoto con occhi rapiti;
“Ho ucciso mio figlio, quel giovane impavido e tenebroso era il mio sangue, e tu l’hai mandato contro di me come carne da macello, in sacrificio verso suo padre!?”
Scarlatto tuonò nella notte un grido disumano e rapace, poi sfuriò una sfilza di potentissimi colpi che Vorcle parò con fatica, ma l’implacabile guerriero dal volto sfregiato ormai era pazzo di rabbia e la sua spada si infilzò nello stomaco dell’uomo truccato che cadde in terra in preda ad orribili convulsioni e spasmi in un mare di sangue.
Scarlatto si voltò affannato verso Sibilla e le porse la mano, con il volto orribile, le membra deformi e la voce tremante egli disse:
“Vieni con me amor mio!”
Sibilla però guardava oltre la spalla di Scarlatto, Vorcle era in piedi con gli occhi fiammeggianti, la bocca sanguinante e spalancata, la spada conficcata nell’addome.
Con un feroce colpo di spada, brutale e distruttivo, staccò il braccio destro di Scarlatto che cadde in ginocchio con una mano a tamponare l’orribile squarcio ove prima vi era un braccio ricoperto da piastre rosse.
Ma l’audacia di Scarlatto era immensa, le sue risorse inesauribili.
Con fierezza si rialzò e con una debolezza ormai prossima allo svenimento disse a suo fratello:
“Come hai fatto a rialzarti?”
“Il cuore fratello, devi colpire al cuore per uccidere il mangiatore di uomini!”
Appena dette queste parole un grido sconvolse il silenzio di morte, qualcosa che aveva una vaga forma si era avventato alle spalle sul collo di Vorcle e lo stava sbranando, era il bambino con l’abito da sposa, ormai completamente ricoperto di sangue, con la faccia livida e spaccata, rivendicava anch’egli la sua immortalità scagliandosi contro il suo ingiusto padre.
Scarlatto mutilato afferrò una spada appesa al muro e sfoderandola con i denti gridò:
“E allora che al cuore sia!”
Si lanciò con tutto il suo peso contro Vorcle impegnato con suo figlio e gli trapassò violentemente il cuore rigirando la lama all’interno del petto.
Il bambino impaurito si guardò intorno, c’era qualcosa di allucinato nel suo sguardo, si gettò nel fuoco facendosi consumare dalle fiamme, lanciando grida funeste di cupo strazio, grida insostenibili, atroce suicidio nell’abbraccio di quelle vampe di dolore, sigillo del sacrificio di una mente che aveva subito irreparabili danni.
Vorcle si sosteneva appoggiandosi al muro, vomitava sangue, piangeva lacrime cremisi che scorrevano lente lungo il suo volto dipinto di bianco.
Con gli ultimi sospiri  si aggrappò a suo fratello, estratto un sottile stiletto che portava alla caviglia pugnalò la gola di Scarlatto che fu lacerata da parte a parte, il sangue denso sorse a fiotti e prese a scorrere da quel mortale squarcio.
Il morente Scarlatto, con il suo unico braccio afferrò Vorcle in un ultimo abbraccio e spinse in avanti con tutte le sue forze, così entrambi precipitarono dalla lunga finestra gotica.

                                                                          *

Sibilla  si guardò intorno, solo sangue e solitudine, immani quantità di sangue scorrevano ovunque, lungo le pareti, sulle armi giacenti in terra e anch’esse prive di vita, poiché prive dello spirito di colore che le brandiva, il sangue denso del corpo di Rubina giacente in terra, i resti straziati del bambino suicida ancora macabramente in preda alla combustione, tutto era morte, morte sanguinosa, così la ragazza scoppiò in un pianto straziante.
“Fui motivo di disputa di due così grandi guerrieri, nessuno di loro ha vinto, nessuno di loro è sopravvissuto per donarmi il suo amore e brandire il mio corpo.
Sils era un vile codardo, Rubina giace con la spada di suo figlio nel petto, Scarlatto e Vorcle annientati a vicenda. Quale sarà la mia tragica fine? Sgualdrina per sopravvivere?
Mai! Fui una donna contesa, amata da grandi uomini.
Ma adesso cosa mi resta? Il loro sangue, i loro cadaveri, i loro corpi trafitti.
Dov’è l’amore ora? Dove si rifugia? E’forse morto anch’esso?”
Mentre diceva ciò aprì delicatamente, con i lenti e meccanici gesti della follia, un cassetto ove sapeva di trovare un ampolla contenente un liquido blu, potente veleno di cui Rubina gli aveva parlato prima che Vorcle le sorprendesse.
Sibilla lo bevve tutto d’un fiato e attendendo lentamente la soporifera morte si accasciò accanto a Rubina, si lasciò andare al languore della disdetta mentre moriva avvelenata.

Vorcle e Scarlatto furono ritrovati nel bosco, avvinghiati l’uno all’altro.
Fu impossibile separarli e furono così seppelliti abbracciati; c’è chi dice che le loro anime lottino ancora, senza sapere che il loro amore è perduto e il suo cadavere giace freddo tra le loro lacrime ed il loro sangue.
L’amore invece non morì mai, e continuò a mietere le sue vittime.

                                                                                                                       
Davide Giannicolo                                                                      



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