La fellonia divorava le campagne, i corvi banchettavano su carcasse umane sparse qua e là per la gialla landa bruciata dal sole, l’odore di carogna era ovunque, anche nella limpida acqua dei ruscelli. Chi aveva un cavallo era andato via, razziato dai briganti strada facendo, gli altri erano rimasti, ammalati mortalmente dalla rara carne avariata e dai cereali contaminati da grappoli di muffe d’ogni genere. In più, ogni venerdì arrivava lui. I pochi contadini rimasti lo chiamavano verga di ferro, o fallo di ruggine. Qualcuno diceva fosse solo rancore che si impossessava della ferraglia di un armatura abbandonata in un campo di battaglia, spirito lussurioso che albergava nei resti di una corazza imbevuta di sangue di soldato assassinato con ferocia, maledizione ambulante, sotto il cui ferro arrugginito non ci fosse carne, tuttalpiù un nugolo di vermi che scimmiottava maldestramente la postura umana.
Non voleva cibo né oro, tanto non c’è n’era. Lui prendeva le donne, vecchie o giovani che fossero, e le portava via, nessuna era tornata, i più pensavano alla lussuria e al sadismo, per questo lo chiamavano verga di ferro, mazza che uccide, cazzo omicida innaturale, altri con più gentilezza, forse per paura, lo nominavano sussurrando e guardandosi intorno, con il semplice appellativo di Spada Malvagia.
Qual era la sua dimora? Una torre diroccata? Un cimitero? Una caverna nel bosco?
Arrivava di notte privo di cavalcatura, si udiva solo il suono del ferro avvicinarsi. Stringeva la mano ricoperta di piastre intorno alla bocca della sventurata impedendole di urlare, la sollevava in spalla e si allontanava nuovamente. Nessuno aveva mai osato contrastarlo, neanche l’esercito del Duca, intanto nelle contrade mancavano sempre più donne e vi erano sempre più uomini disperati sull’orlo della crisi. Il Duca non poteva tollerare oltre all’alto tradimento lo spopolamento con conseguente desertificazione delle proprie già devastate terre.
Fu scelto per la missione non facile un drappello di sette uomini, soldati esperti ma non indispensabili, per lo più teste calde pronte a darsi al mercenarismo che era meglio non tenersi tra le mura del castello, in fondo si stava parlando di un pervertito solitario chiamato verga di ferro o cose così, sette cani rabbiosi come quelli andavano più che bene.
Non sapendo dove cercare, ed essendo sulle tracce di una specie di fantasma i soldati si recarono per prima cosa al villaggio più vicino in cerca del maggior numero di informazioni, ma non trovarono altro che confuse descrizioni al limite della leggenda. Si parlava di elmo senza faccia, armatura senza corpo, spirito vendicatore e maligno.
-Qualcuno ha mai provato a ferirlo?-
Chiese Ruggero il nero alla folta schiera di disperati riunita intorno al fuoco scoppiettante della taverna. Naturalmente tutti tacquero, nessuno aveva reagito mentre gli veniva portata via la moglie o la figlia, la sorella o la madre. Solo uno si fece avanti e parlò:
-Ho frantumato in mille pezzi un bastone di legno sul suo elmo, lui non ha vacillato, non ha neanche indietreggiato di un passo, il suo guanto di ferro mi ha spaccato il volto catapultandomi lontano e facendomi svenire, poi si è portato via la mia Morella, vi prego consentitemi di venire con voi, sono un buon cacciatore, vi aiuterò a trovare le sue tracce!-
-Certo una mazza di legno non è come un colpo di spada o un martello d’arme in una tempia né tantomeno si può paragonare a una freccia in un occhio- Pensava Ruggero mentre il fuoco ristoratore riverberava nei suoi piccoli occhi amanti di strage e tortura.
-Vieni pure con noi cacciatore, più siamo e meglio è, staneremo e smembreremo questo spettro come fosse un cinghiale, dimostreremo che è solo un uomo con gusti teatrali, poi me ne tornerò quanto prima tra le mura sicure del castello, perché qui avete tutti delle facce gialle da epidemia e morte.
Dunque al drappello si era unito il coraggioso e giovane cacciatore Taddeo, che aveva recentemente perso la propria promessa sposa per mano della Spada Malvagia. Insieme a lui e Ruggero facevano parte del gruppo:
Doppiosoldo, irsuto e colossale esperto di spadone a due mani, mercenario in quasi tutti gli eserciti dei Ducati italiani, ubriacone e attaccabrighe ormai troppo vecchio e acciaccato per continuare a vagare e far guerra. Lo seguiva il suo compagno d’arme Mano Sinistra, così chiamato poiché monco di mano, ma molto abile nel mazzafrusto e nella daga, che aveva trovato il modo di fissare al proprio moncherino di cuoio nero. Avevamo poi Falconetto, esperto di archibugi, cannoni, bombarde e polveri da sparo, era folle e instabile, si diceva che lo zolfo lo avesse fatto impazzire. Seguiva poi la compagnia il magrissimo Dardetto, infallibile arciere, balestriere ancor più bravo e non male neanche nel dilettevole passatempo del lancio dei coltelli. Non mancava l’esperto di armi in asta, amante del Mazzapicchio e dello Scorpione, senza eguali nell’uso di Alabarda, Azza e Roncone, artista della Giusarma, a servire il Duca e i suoi compagni d’arme il grande Corradino SpezzaElmi, inavvicinabile con un arma di quelle sopracitate tra le mani, ma ormai da anni orbo di un occhio e a causa di ciò meno capace di difendersi sul lato sinistro. A chiudere la compagnia, il cugino del Duca, Don Fernando, colpevole di adulterio, soggetto a carattere sanguigno e rissoso, nonché incline al bere e all’ingiuria, se ne era ritenuto opportuno l’allontanamento, insomma il Duca aveva approfittato per toglierselo dai piedi; era comunque un fine stratega, esploratore, conoscitore del territorio e abile spadaccino, non pochi erano coloro periti sotto i suoi colpi di pomo, dunque molto utile alla spedizione.
Ora conoscete i nomi di coloro che si addentrarono tra le tenebre, sfidando l’oscura entità di cui nessuno aveva mai visto né il volto, né un seppur minimo lembo di carne sotto l’armatura.
...continua, forse...(se cacci i soldi)
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