domenica 15 dicembre 2013

Di Notte (Due capitoli estratti dal romanzo di Davide Giannicolo)



Parte I
OMBRE, PASSIONE E DESIDERIO



*
FASTOSA LA LUNA


Quando Igor Vetusta era bambino, nella sua casa di campagna faceva spesso un sogno.
Quelle visioni gli stringevano il cuore come fossero ricordi in procinto d’esalare i taglienti effluvi della nostalgia; sentiva le oniriche scene appartenergli così intimamente, da viverle con febbrile eccitazione e in lui, nel suo stretto petto, già si destava una piccola fiamma, una vampa che ardeva con i colori vacui dell’ossessione.
Nel sogno, in un tetro maniero, un uomo si preparava con impazienza ad uscire nella notte,   l’arredamento della stanza era antico, come l’aria che fluttuava vaporosa in tutto il castello.
L’uomo, armato come un guerriero e vestito di nero cuoio, impartiva ordini ad un servitore:
“Prepara la mia carrozza, sto per andare a caccia!”
Nella voce dell’uomo si udivano note di morte, nei suoi occhi, verdi come foreste acquatiche, brillava l’insano lucore della follia.
Poi, un istante dopo la carrozza sfrecciava come impazzita nella foresta ammantata dalla notte, correva barcollando sul sentiero impervio in spericolata discesa, trainata da neri destrieri e accompagnata dalla satanica musica dell’abbaiare dei mastini.
Nella carrozza l’uomo vibrava di passione gustando rosso e denso vino, attraverso la finestra sentiva la notte carezzargli il volto, mentre gli alberi si chinavano verso di lui protraendo le loro dita nodose, provenienti dall’immane, inviolata oscurità del bosco.
Anche Igor percepiva durante il sogno quel morbido e allo stesso tempo tagliente tocco elargito dalla foresta nottetempo, quella ieratica brezza che accoglieva nella tenebra silente la spettrale marcia del cacciatore.
Lontano, donne danzanti intorno al fuoco di un oscuro sabba, si arrestavano di colpo nell’udire il latrare dei cani che si avvicinava inesorabile come vento di morte, mentre la carrozza avanzava tra gli alberi emanando dolci sensazioni di delirio, turpi angosce notturne.
Nella notte senza luna, i mastini si avventavano sulle tenere e bianche carni delle donne che liberavano agghiaccianti urla; purissime, più dell’acciaio, le zanne mostruose dei cani laceravano la pelle, mentre in rivoli caldi il sangue grondava.
Nel momento in cui la sacralità del sabba era infranta dall’irruzione, perpetrata al culmine estatico della cerimonia, e le partecipanti cominciavano a disperdersi scappando nude tra gli alberi incombenti, l’uomo della carrozza balzava sulle donne con in volto la cerea maschera della follia; la sua mano, innaturalmente pallida, vibrava sgozzandole e mutilandole tutte in pochi istanti.
A questo punto Igor si destava, ignorando la natura di quei sogni cupi.

Ma adesso che i suoi lineamenti erano divenuti del tutto identici a quelli dell’uomo del sogno, ora che le sue chiome cadevano in neri riccioli sulle ampie spalle, ora che era immerso nel sangue di una fanciulla, egli sapeva che l’uomo del sogno era lui, l’angelo della purificazione, colui che con la sua lama avrebbe ricondotto lontano Satana dai ventri delle donne.
Il cadavere giaceva dinnanzi a lui, sventrato dalla sua alabarda, Igor lo fissava con espressione calma e distaccata; si chinò sul corpo aperto e sanguinante, immerse le mani nella ferita così da poter sentire caldo il seme del diavolo, che virulento accendeva ancora quelle spoglie mortali.
Con le mani a coppa raccolse del sangue, lentamente bevve irrorandosi del rosso liquore.
“Io porto a me il male che affliggeva questa donna, io la purifico e la riconduco al cristallo di Dio!”

L’aveva inseguita nel bosco proprio come nel sogno, di solito le donne della sua caccia non lottavano mai, poiché nessuna strega sopravvive allo sguardo d’Igor Vetusta.

                                                                                *

CREPITA E S’INNALZA

La vecchia villa di campagna era la dimora della sua frustrante ossessione, solo la debole luce delle candele illuminava le ampie stanze, ornate da consunti arazzi e affreschi centenari.
Dall’esterno, la casa appariva come un rudere infestato dagli spettri, era in effetti un luogo di decadenza e languido abbandono. I cani lo accolsero correndogli in contro eccitati dall’odore di sangue che il suo corpo emanava, era sempre avviluppato da quella macabra fragranza, rossa dama di morte, distesa in eterno lungo le membra di Igor.
Giunse nell’enorme salone ove austeri dipinti rappresentavano uomini antichi, una stirpe dal ribollente sangue. Si sedette e la fievole fiamma della candela irradiò in un riverbero sinistro, posandosi come una falena di luce sullo specchio dei suoi occhiali da vista e mescendosi al verde fulgore dei suoi occhi.
Ai piedi della poltrona dormiva un cane mastino, così solido e robusto da indurre alle lacrime.
Ad un tratto un nevrotico pensiero scosse Igor ridestandolo da meste meditazioni,  s’alzò di scatto afferrando un candelabro d’ottone e si allontanò dalla silente stanza dei suoi pensieri.
Discese un’angusta scala dissestata ed erosa dal tempo, erano secoli che il buio rosicchiava quei luoghi; un impervio sentiero in discesa verso fauci di tenebra lo condusse lungo intricati e bui passaggi sotterranei, fino a giungere dinnanzi alla robusta porta di una cella.
Estrasse la chiave arrugginita e una volta aperta la porta entrò nella strettissima stanza, un massiccio crocefisso si stagliò dinnanzi a lui, uguale a quelli che si trovano nelle chiese; enorme il Cristo sanguinante osservava Igor con sguardo doloroso.
Legata mediante massicce catene vi era una donna seminuda, stupenda e giovane; i biondi capelli in cascate dorate, le coprivano il volto stanco cosparso di lividi e i dolci seni da poco sbocciati,.
Igor si sbottonò la camicia, morbida seta che carezzava l’umido e possente torso sudato, liberando le sue membra bianchissime che rifulgevano nella crudele oscurità della latebra.
Sulla schiena di Igor vi era tatuata un’immensa immagine del volto di Cristo sanguinante, al di sotto una spada puntata verso il basso, e su di essa una rozza scritta, come incisa con un coltello: “Onore templare”.
Quando la ragazza lo vide entrare fu invasa dal terrore, nei suoi occhi e nel corpo tutto, s’accese la virulenta scintilla della paura.
Igor carezzò con delicatezza il volto della fanciulla.
“Tu non eri sola quella notte. Dove sono le tue compagne? Dove si riuniscono?”
“Io non sono una strega! Te lo ripeto, io non so niente di queste cose!”
La ragazza disse queste parole distorcendo i lineamenti a causa di un pianto convulso e disperato, la mano che le carezzava il viso vibrò di rabbia, poi affondò le bianche dita nella tenera carne delle gote.
“Puttana del diavolo, io sento il male sedurmi mediante te, e se lo sento significa che non hai ancora rinunciato alle carezze dell’empio. Rinunci a Satana? Rinunci?”
“Rinuncio!” Disse la donna implorante, i sensi la stavano abbandonando, mentre il terrore le dominava le membra al solo pensiero di trascorrere ancora un istante con l’uomo che l’aveva rapita nottetempo.
“Menti, menti spudoratamente baldracca di Belial, il male alberga dentro di te!”
Igor le voltò le spalle tatuate e scelse dal tavolo di marmo uno strumento adatto alla verità.
Afferrò un flagello chiodato e vibrò secchi colpi alla donna legata, innalzava schiocchi d’agonia nel luogo dai cui muri saturava la punizione come fosse umidità, mentre il flagello si liberava in carezze di sangue, baci algolagniaci di dolore.
Rubizzi rivoli di sangue segnavano il passaggio dello strazio lungo il liscio corpo della donna.
“Confessi di aver fornicato con il diavolo? Confessi di aver bevuto il suo sperma in un rito blasfemo? Confessi d’essere araldo della perversione e di voler sedurre i guerrieri di Cristo?”.
La donna pianse, mescendo al sangue l’acre sapore delle lacrime.
Igor depose il flagello e arroventò sul fuoco una lunga e sottile sbarra di ferro grezzo, presto divenne rossa e incandescente, minacciosa come il bramoso occhio di fuoco di un demone.
Con gli occhi spalancati dalla follia ed il corpo sudato si avvicinò alla donna, le divaricò le gambe vincendo la gracile resistenza e si accinse a penetrare il ferro tra le vermiglie fauci della vulva.
Lei urlò con tutte le sue forze prima che la sbarra rovente poté sfiorare la sua pelle.
“Confesso! Confesso tutto!”
“Bene”. Rispose Igor deponendo il ferro, poi continuò:
“Dove hai incontrato Satana?”.
“Non lo so, giuro che non lo so”.
“E’l’empio che ti confonde, presto troverai la pace del fuoco, dimmi solo dove sono le tue compagne”.
“Non lo so”.
Igor afferrò la testa della ragazza e la scosse violentemente, lei riprese a piangere con disperazione, come una bambina.
Con un coltello le martoriò le gambe, iniziò poi ad accoltellarla ferocemente alle braccia, la donna così svenne in un poetico, sanguinante abbandono, appesa alle catene, era come se il soffio tagliente del dolore la dondolasse facendo oscillare il suo corpo inerte, anzi, forse l’unica cosa che la sorreggeva, sospendendola nell’aria, era proprio il martirio di quell’infamia.
“Io ti purifico donna, sii certa che troverò ogni tuo simile”.
Il seminudo corpo di Igor Vetusta roteò bianco nel buio e un’ascia, afferrata nel corso del movimento, si abbatté sul collo della donna falciandone la testa.
I suoi resti furono purificati, bruciati e restituiti a Dio.

Nessun commento:

Posta un commento