In Sri Lanka la vita era dura, avevo un marito inetto senza voglia di lavorare, che non sapeva far altro che mettermi incinta. Credo che fu proprio lui a vendermi, non so, al tizio barbuto dagli anelli d’oro che mi portò a Dubai. Fui violentata immediatamente, da lui e altri due, quelle tozze dita inanellate mi fecero molto male, penetrando a forza nei miei buchi più delicati fino a farmi vomitare. Il giorno dopo venni condotta in un bordello del centro, la mia razza non è richiesta dai ricchi degli Emirati che prevalentemente preferiscono donne bionde o occidentali, ma comunque cominciai a guadagnare bene facendo cose assurde a gente poco raccomandabile. Da quel giorno divenni un oggetto passivo e inanimato privo di emozioni, qualsiasi cosa mi chiedevano la eseguivo muta e rassegnata, per questo cominciai a essere molto apprezzata nell’ambiente. Mandavo molti soldi a casa, la gente sapeva che a Dubai facevo la domestica, mio figlio, ingenuo e coglione quanto il padre, faceva la bella vita mentre a me degli arabi pazzi sfondavano il culo dalla mattina alla sera, comprava moto e oggetti di lusso, invidia dei suoi compagni cingalesi, ma non sapeva che i soldi che maneggiava erano il frutto delle violenze inferte sul mio corpo. Una volta in una festa privata mi costrinsero ad accoppiarmi con una scimmia tra le risate di tutti, fece molto male, sia all’anima che al corpo, mentre il mio unico maschio, sorridente diveniva sempre più insaziabile e assetato di denaro; non sapeva o non voleva sapere che sua madre era una schiava, il sospetto non sfiorava lontanamente quel cervello egoista e materialista; dato che erano ormai cinque anni che non ci vedevamo qualcosa in lui avrebbe dovuto accendersi, invece niente, solo richieste di denaro.
Il vecchio era molto ricco, aveva una scimitarra d’oro sempre attaccata alla cintura e con quella puniva chiunque, era anche crudele e incontentabile, incuteva in tutti i suoi domestici puro terrore. In quella casa lussuosa eravamo tutti schiavi, nessuno poteva osare ribellarsi, si diceva che molti fossero morti tra quelle mura, ero probabilmente finita tra le mani del mio ultimo carnefice; forse non sarei mai più uscita viva da quella casa. Allora feci la cosa che mi riusciva meglio, ubbidii, con rassegnazione e accondiscendenza, mutismo e sottomissione. Il mio ruolo principale era semplice e bizzarro, seppur disgustoso.
Io ero l’orinatoio e la sputacchiera del vecchio. Interamente ricoperto d’oro e gemme lui mi faceva un cenno storcendo il naso aquilino e crudele da dominatore del deserto, io andavo accanto a lui a passi svelti, dovevo precipitarmi come se avessi la morte alle calcagna e in effetti così era, dovevo inginocchiarmi con devozione e spalancare la bocca verso di lui, con la pietà e la fame di un uccellino che attende il verme che sarà il suo cibo. Lui mi scatarrava nella bocca, dei fiotti grumosi e gialli che inducevano al vomito, mi sputava dritto in gola con una potenza prodigiosa e io dovevo inghiottire tutto. Il gioielliere sputava spessissimo poiché masticava tabacco, cosa che rendeva il suo catarro ancora più disgustoso e crudele. Quando poi doveva pisciare urlava il mio nome, ovunque io fossi dovevo correre, costretta a stare tutto il giorno, anche di notte, con le orecchie tese; se non lo avessi sentito facendolo attendere o peggio ancora non presentandomi al suo cospetto, mi avrebbe uccisa con le sue mani, sparandomi in testa o trafiggendomi, erano parole sue queste, che mi ripeteva spesso. Al suo richiamo quindi mi inginocchiavo davanti a lui, con la solita bocca supplichevole e spalancata, e lui mi spruzzava nella gola la sua orina malefica, a getti abbondanti, innaffiando con prepotenza gialla e scintillante prima la mia ugola e poi le mie viscere. Beveva a posta prima di farlo grandi quantità di birra o champagne, voleva che il piscio fosse abbondante e copioso così da potermi inondare la trachea fino a farmi soffocare, voleva annegarmi, strozzarmi con la sua orina diabolica. E guai se avessi tossito o perso una sola goccia. Un giorno mentre si svuotava dopo un ubriacatura mi vennero dei conati di vomito e tossii, stavo affogando in quel mare di piscia putrida che straboccò tutta fuori sporcando i suoi preziosi tappeti, lui sguainò la scimitarra e me la premette alla gola mentre con l’altra mano mi stringeva i capelli costringendomi a guardarlo standomene in ginocchio, era forte nonostante la vecchiaia; voleva decapitarmi, aveva la veste alzata e mentre mi minacciava vidi che il suo pene era eretto e duro, gocciolante, pronto all’eiaculazione, quell’uomo godeva nel fare del male alla gente.
“Tu sei il mio pisciatoio, hai mai visto un gabinetto rigettare il contenuto? Significa che non funzioni bene e dovrò sostituirti!”
Dicendo ciò mi intaccò la fronte con la lama, lentamente e con forza, nello stesso istante eiaculò sulla mia faccia imbrattandola con un fiotto abbondante ed energico. Non si era neanche toccato il pene poiché aveva le mani occupate con la scimitarra e nello strattonare i miei capelli; era stato un fiume naturale esploso con crudeltà dal suo ventre sadico.
“Vatti a ripulire non mi piacciono i cessi sporchi, non sei in una bettola, sono un uomo di una certa posizione io!”
Da quel giorno vivo nel puro terrore, porto ancora la profonda cicatrice della sua spada sulla fronte, mi sto ammalando a forza di bere orina, credo di avere l’epatite o qualcosa di simile, la mia pelle ha un colore strano, ho sempre nausea e malessere.
Mio figlio intanto continua a chiedermi soldi ma mai di rivedermi e riabbracciare la propria madre generosa; mentre io inghiotto, sottomessa e assoggettata, fino alla morte che arriverà probabilmente a breve, l’oro maledetto, profondamente giallo e scintillante di Dubai.
Davide Giannicolo