Era un rovente mezzogiorno di Luglio e lei usciva dall’atelier Gardenia, sito in via Principe dei Liguori. Percorse a piedi la strada che la conduceva all’autolavaggio sgangherato dove soleva lasciare l’auto due volte a settimana. L’afa, nonostante il breve tragitto, la opprimeva, il sole ardeva implacabile, per questo aveva deciso di smettere con l’abito da sposa che stava preparando. Voleva andare in piscina, era lunedì, sicuramente non vi avrebbe trovato che qualche sfaccendato studente. Il suo era sicuramente un bisogno di quiete, relax, tutt’altro che folla e schiamazzi, in più il luogo a cui aveva pensato era abbastanza costoso ed elitario, sperava proprio di essere sola o quasi un volta arrivata. In quella stagione teneva sempre un costume da bagno in atelier, lo aveva già indosso sotto l’abito bianco attillato, un minuscolo bikini giallo mimosa con tanga filiforme, voleva un abbronzatura invidiabile prima di andare in vacanza, anche se in quella giornata afosa priva d’ombra in via Principe dei Liguori, le vacanze parevano vicine e allo stesso tempo lontane come un miraggio nel deserto.
Poco prima di entrare nell’auto lavaggio fu invasa da un tanfo nauseabondo, per terra, ai piedi dell’alto muro di cinta di un giardino, vide la carcassa putrescente di un gatto, la decomposizione in piena estate era agli estremi, il sole macerava il cadavere mentre mosche fuoriuscivano dalla sua bocca e un groviglio di larve si agitava pulsante nel ventre squartato del povero animale.
La donna si tappò la bocca per evitare i conati di vomito e proteggersi dalla puzza orribile, si affrettò a raggiungere la propria auto scintillante, appena lavata, il profumo degli interni che esalava dai finestrini aperti la protesse da quella marcia immagine di poco prima, mentre il vecchio dai capelli argentei padrone del lavaggio prendeva i suoi soldi e le fissava con insistenza il culo. Non riuscì a resistere e le allungò una manata stringendo una natica con forza come fosse impasto di pizza. Il candore del vestito bianco fu striato da ditate nere di olio motore, era un immagine terribile, come un gabbiano insozzato dal petrolio o una colomba insanguinata. Lei si divincolò e montò in macchina sgommando verso la piscina di lusso che la attendeva, non sapeva di avere cinque dita nere stampate all’altezza del culo.
Aveva appena abbandonato il fantasma di una bellezza mai esistita, marcescente in via Principe dei Liguori, come il fiore di un dramma medievale che si sfalda divorato dagli afidi.
Guidò per circa mezz’ora scegliendo strade tranquille verso il Vesuvio, zona residenziale, villette e poche macchine, musica elettronica rilassante, aria condizionata, occhiali da sole costosissimi. Un uomo in divisa da ufficiale nazista, col lungo giaccone di pelle nera e tutti i fregi le sbarrò la strada sotto il sole di luglio senza sudare minimamente, si trovavano in un viale alberato, deserto, gli alberi erano in fiore, le cicale cantavano una nenia ipnotica, maligna ed insistente simile al poema della pazzia. Estrasse una pastiglia di Pervitin dalla classica, accattivante confezione lunga e sottile anni 40 coi colori e il design della pepsi cola. Il Pervitin era una droga nazista, praticamente anfetamina, attua a rendere più feroci e intrepidi i soldati oltre che a sopportare ogni estenuante fatica, nel dopoguerra praticamente gran parte della Germania ne era dipendente.
Naturalmente lei non sapeva niente di tutto questo, suonava il clacson coprendo il drammatico frinire delle cicale sotto il sole della controra, dove ogni genere di spettri, soprattutto nelle zone silvane, si manifesta peggio che a mezzanotte.
L’ufficiale rideva in maniera inquietante completamente fatto di Pervitin, si calò le braghe e cominciò a masturbarsi con forza e velocità in maniera quasi autolesionista, come a volersi scorticare il fallo.
“Culo smargiasso, fammi eiaculare tutta la mia putredine!”
Lei non resistette, in quel silenzioso viale alberato, deserto, ingranò la prima, accelerò più che potè e lo investì facendolo rotolare sul cofano, lo guardò rialzarsi dallo specchietto retrovisore, ancora coi pantaloni della divisa calati le inveiva contro con fare goffo e allo stesso tempo maligno, come creatura non appartenente a questo mondo.
“L’avrò anche investito, avrà anche preso la targa, ma questa è legittima difesa, quel pazzo voleva molestarmi! Ma che succede oggi?”
Finalmente raggiunse a San Sebastiano al Vesuvio l’esclusivo club, resort con sauna, massaggi e piscina “Proserpina” dove era tesserata da qualche anno passandovi ore spensierate.
Il club era deserto, non vide neanche nessun membro del personale, si cambiò negli spogliatoi e raggiunse la parte all’aperto, spaccata a metà da un tanga suggestivo si aggirava intorno al bordo piscina ove non c’era anima viva. Un fiore bianco fluttuò posandosi sull’acqua, ancora lo spettro della bellezza e della morte si manifestava al suo cospetto.
Si tuffò in acqua rinfrescando finalmente il proprio corpo rovente, la luce del sole di luglio intanto, nel primo pomeriggio, giocava attraverso l’acqua trasparente con riflessi dorati, raggiungendo il fondale mediante dardi trasversali in luccichii sovrannaturali. Il silenzio subacqueo unito al frinire ipnotico delle cicale all’esterno, l’assenza di voci umane, di suoni che non fossero sciabordio oppure ondeggiare di foglie nell’aria immota, facevano galleggiare il suo corpo bruno e vezzoso nella bolla di un sogno. Uscì dall’acqua e già i raggi del sole le scottarono la fronte, si distese su uno dei tanti lettini che circondavano la piscina.
..Continua…
Davide Giannicolo