domenica 24 agosto 2025

Notti

 




Il pingue nanetto si avviava verso l'automobile, faceva freddo, un’aria gelida tagliava le ossa cercando di cristallizzarne il midollo.
Eppure qualcosa scaldava il ventre del tizio, un coacervo di immagini non ancora disgregate dal sonno appena infranto.
Turni di notte, che noia, se non fosse per i piacevoli svaghi mai sopiti della propria mente, grovigli di speranze pornografiche represse, ragazze che a lavoro avrebbero sorriso, si sarebbero chinate, mostrando lembi di carne intravista e da scoprire, sobbalzi pettorali di grosse tette il cui pudore viene distratto dalla foga del lavoro.
Tutto ciò era per lui, uno spettacolo messo in piedi unicamente per il suo piacere, o almeno così lui credeva, quei pensieri erano indelebili come un impronta calcata nella sua mente masturbatorea.
Montò in macchina, una leggera erezione aveva vinto il freddo, pensò a dei nomi, nomi femminili, chi si sarebbe chinata per prima? A quale di quelle troiette avrebbe spiato per primo i glutei posti in bella mostra?
Il placido torpore svanì di colpo, vide solo un ombra, enorme, oscura come quella di un orso, che però pareva un lampo.
Il parabrezza della macchina si schiantò in mille pezzi, un oggetto contundente ci si era abbattuto sopra con pesantezza, penetrando nell'abitacolo e spappolando la mascella del passeggero.
Il terrore pompò il sangue a mille, adesso non si trattava più di torpore, bensì di fuoco, roghi di paura che infiammavano il corpo del masturbatore incallito.
Qualcuno aprì la portiera, un gigante o qualcosa di simile, la sua presenza era opprimente, incombeva asfissiando, così come il pregnante odore della pelle nera che aderiva alle sue braccia enormi.
Una mano inguantata, anch'essa ricoperta di cuoio, strinse la nuca grassoccia del tizio, il dolore alla mascella si stava assestando, cominciava a indurre lacrime copiose e conati di vomito.
Venne catapultato sull'asfalto, con la spinta di quell'unico arto che lo aveva afferrato, per terra, stordito ma terribilmente cosciente, il masturbatore potė vedere con chiarezza colui che gli stava innanzi.
Brandiva uno spadone, da usare a due mani a giudicar dall'impugnatura, ma lui la brandiva con dimestichezza con la mano libera, ostentò questo suo mesto potere, poi lentamente appoggiò la spessa lama, molto simile a una mazza di ferro, sulla propria spalla.
Il suo volto non era chiaro nella notte, pareva però pallido, cadaverico, eburneo come quello di uno spettro.
Il colosso issò lo spadone sulla propria testa, indugiò ammirando la paura sul volto della sua vittima, poi abbatté la lama sulla rotula, in un colpo secco e maestoso.
La lama non era affilata, era stata concepita più per spezzare che per7 tagliare, cosa che fece, la gamba si accartocciò sotto il colpo, nessuno, badava alle grida nel parcheggio inghiottito da sbuffi maligni di nebbia, i grilli frinivano, reclamando il sangue in una macabra canzone dedicata alle tenebre.
Lo spadone cadde poi nuovamente sulla schiena dell'uomo rannicchiato sull'asfalto, che pensò bene di fingersi morto dopo quel colpo che forse lo aveva paralizzato per sempre.
Ma udì il clangore del ferro abbandonato con violenza sul cofano della sua automobile, allora aprì gli occhi, ma no, il gigante non stava andando via, srotolò una catena, lunga quanto una delle sue gambe.
Cominciò a farla roteare in aria, quel sibilo era agghiacciante, più volte, le maglie d'acciaio si schiantarono contro quegli esterrefatti sopraccigli che spaccandosi miserevolmente aprirono i getti fascinosi di fontane di sangue.
"La tua bocca è spaccata e non puoi parlare, i tuoi arti spezzati e non puoi muoverti, i tuoi occhi sono sfondati e non puoi guardare..."
Il gigante gettò in terra la catena, accanto al corpo contorto, mugolante e orribilmente contuso, l'uomo trasalì nell'udire quel suono, ma allo stesso tempo un pesante calcio fracassò il suo timpano, e i suoni circostanti non divennero altro che dolore.
Qualcosa poi gli spezzò le mani, forse la spada-bastone, poiché era quello il violentissimo stile del colpo.
"Le tue orecchie non possono udire né le tue mani toccare..."
La bestia era su di lui, in piedi, con uno scarpone a far pressione contro la sua guancia tumefatta.
"Ma vedi, anche in queste condizioni tu sei ripugnante e affatto innocuo agli occhi della giustizia del nostro creatore..."
Spinse ancora di più lo scarpone, sembrava che il cervello dovesse esplodere dalle orecchie e dagli occhi.
"Poiché è la tua mente, la tua anima, queste due cose inscindibili dal corpo, sono queste due cose a renderti sporco e spregevole."
Il piede venne sollevato, ricadde giù con violenza, ed il cranio si spappolò emettendo un sinistro scricchiolio.
Quello che restò sull'asfalto, non era che una parvenza umana, un pezzo di carne smembrato, devastato, semplicemente sfasciato con brutale criterio di logica folle.
"Ringraziami porco, poiché ben più furioso, può essere l'occhio di Dio!"
Igor Vetusta si allontanò dal parcheggio, aveva raschiato via il male dal mondo, anche quella notte.

Davide Giannicolo

Dedicato ai parcheggi isolati nottetempo.

Il Licantropo e la Studentessa

 


Lara stava giocherellando con il suo lecca lecca al limone e vi passava la lingua di sbieco come se volesse levigarlo in una stranissima, indefinita forma. Il crepuscolo uccideva ogni bagliore e la fatiscenza dei cassonetti dei rifiuti tentava di invadere le strade semideserte della città borghese.
La ragazza pensava in maniera sbarazzina a cose assurde e irrealizzabili, frivole ma quasi complesse nella loro incompiutezza.
“Pensa se fossi una Spice Girl, strafiga su tutte a dominare gli uomini tra feste d’ogni tipo, invece sai che palle papà a casa con la tele che mi aspetta e si masturba le cervella, l’autobus che non arriva e gli albanesi coi coltelli che sbucano dagli angoli.”
Effettivamente un Albanese fuoriuscì poco dopo da una piccola collina di rifiuti accatastati. Aveva pantaloni di pelle e maglietta nera unta e ricoperta di lattughe, cominciò a fissare Lara con insistenza da necrofilo.
“Ed eccolo manco a farlo a posta che sbuca l’albanese, cazzo fanno sempre più paura.”
Ma l’albanese in realtà si fermò in mezzo alla strada e vomitò un cerbiatto blu, poi ci si mise a cavallo e sgommò nella sera incombente.
Lara strizzò gli occhi, poi si mise a posto le mutandine, a sedici anni a volte ti vengono le traveggole se la tua sessualità è repressa.
Finalmente spuntò l’autobus all’orizzonte.
159 Scordate poesia e cose profonde” vi era scritto sulla didascalia luminosa, ma Lara non vi badò.
Nel pullman vi era una vecchietta e una ragazza, erano le uniche persone oltre il conducente ed erano sedute l’una accanto all’altra.
Lara si divertiva a sentirle parlare come spesso faceva quando non aveva niente di meglio da fare.
“Cosa fai dunque bella principessina?”
“Studio igiene filosofica del sadomasochismo vaginale, ma in realtà vorrei fare la scrittrice, ho scritto già un libro, si chiama Socrate contro Dracula.”
Al che la vecchietta si alzò dal sedile e cominciò a vomitare addosso alla ragazza, poi si strappò con le unghia le carni di dosso, in una cruenta, sanguinolenta e violentissima esibizione scenica la vecchia si scuoiò aprendosi in due come avesse una cerniera dalla quale svettavano immani quantità di sangue maleodorante.
La ragazzina era tutta impastata di vomito e sangue e nè Socrate nè Dracula potevano spiegarle cosa stava succedendo.
La vecchietta aveva rivelato la sua vera identità, era un diabolico essere metà DeFilippi metà Costanzo con al posto dei genitali un enorme fucile da caccia a doppia canna.
Un colpo sfondò il fegato della fanciulla aspirante scrittrice che si spiaccicò sul finestrino alle sue spalle colando come un pomodoro marcio.
Lara era sconvolta mentre osservava la scena, e intanto però notava che nuovamente le mutandine erano bagnate, che strana storia, che cazzo era quel essere mezzo Maria mezzo Maurizio? E l’albanese sul cerbiatto blu?
L’essere mostruoso gettò in terra la sua prima, sanguinante pelle di vecchietta, si avvicinò a Lara con fare laido e lascivo da cui si intuivano propositi di sadismo e affilata penetrazione.
Ma d’un tratto l’autobus si arrestò di botto, il goffo essere fu catapultato e fece un capitombolo fino ai piedi dell’autista che ora s’era alzato in piedi.
Era un grosso Licantropo peloso e ringhiante, era talmente grosso che poteva strappare via le lamine del pullman con gli artigli, probabilmente era un Ursus Cimiterialis, uno dei più grossi lupi mannari sulla piazza.
Il grosso licantropo fece a pezzi l’essere diabolico e ne disseminò i pezzi lungo tutto l’autobus, lo sfracellò senza emettere nemmeno un ringhio.
Lara sussultò, e ancora le sue mutandine, e non solo, si rivelarono esser bagnate.
Il lupo la fissò e le disse:
“Posso penetrarti con il mio grosso membro peloso?”
Ed allora le mutandine di Lara furono inondate, letteralmente travolte da una diga affluente. Il mannaro le strinse le morbide carni nelle mani artigliate, la denudò ferocemente e le fece vivere il rapporto sessuale più brutale ed estatico della sua sedicenne vita, stare qui a raccontare i particolari sfocerebbe nel pornografico, insomma Lara fu penetrata ovunque e in ogni modo plausibile dalla licantropa foga.
Quando si risvegliò e capì che era tutto un sogno Ezio Greggio era sopra di lei e la fotteva a sangue con in testa un frontino con le corna da satanasso.
Lara aveva sedici anni, e avrebbe dato il culo per fare la velina.

 

Dedicato a coloro che vogliono circondarsi solo di stronzate, che non meritano poesia né sublime metafora, che forse non se ne accorgono, ma sono proprio dei coglioni.


Davide Giannicolo

domenica 10 agosto 2025

Diario di un Cadavere

 


In questa landa che nessuno visita mai, sotto la quercia che affonda le sue radici nel mefitico terreno sconsacrato succhiando linfa nefasta, concimata dai morti abbandonati. Ai cui rami robusti penzolano dozzine di corde, sotto ciascuna di esse un impiccato langue nel terrificante abbandono della morte. In questo luogo desolato, solo il boia mette piede, neanche i becchìni osano farci visita, lasciando i nostri corpi appesi fino a che non divengono scheletri spolpati dai corvi.

Il boia vive in un capanno nel bosco poco distante, è un essere abbietto sia nel corpo che nello spirito, è sporco, dal volto sfregiato a cui qualcuno un tempo ha strappato via il naso con qualche attrezzo di tortura. Quando viene morso dal capriccio, favorito dall’estrema solitudine di questo luogo silente, ove si ode solo lo stridio delle corde, il frusciare delle foglie e l’ululato del vento, egli giunge al mio albero completamente nudo; si arrampica su una scala marcia, con l’aiuto di un coltellaccio arrugginito taglia la corda avvinta al mio collo, lasciando cadere pesantemente il mio corpo sulle foglie, senza curarsene minimamente, come se io fossi una bambola inerte e priva di valore alcuno. Approfittando delle mie già evidenti nudità e della mia totale incapacità di movimento mi possiede carnalmente, facendomi cose orribili, sussurrandomi all’orecchio atrocità indicibili, violando ogni orifizio e ogni intimità, dissacrando perfino la mia presunta morte. Sì, perché io sembro morta da settimane, ma in realtà, per chissà quale oscuro incantesimo malefico, io non lo sono, sono perfettamente cosciente durante questo suo stupro necrofilo, ma il mio corpo resta inerte, non riuscendo a muovermi né a proferire verbo sono costretta a subire le viscide spinte e gli affanni dal fiato nauseabondo di quell’uomo esecrabile. Quando infine ha scaricato dentro me il seme del demonio che striscia nel suo ventre, mi stringe una nuova corda al collo e con la forza di un bruto issa nuovamente il mio corpo sul ramo nodoso della quercia, al quale faccio da pendaglio fino alla sua prossima voglia.

Eterna solitudine compone i miei giorni tra questi morti impiccati, è quasi un anno che sono qui e non mi decompongo, il mio corpo resta florido e questo piace al boia, anche se l’ho visto giocare con altri cadaveri, con carcasse a cui già la carne putrida esponeva l’osso. Noi siamo i suoi balocchi e questo è il suo regno di follia. Il tempo sembra immoto ed eterno nei giorni normali, ma di tanto in tanto giunge un nuovo condannato, molta gente accorre dai villaggi vicini per godersi l’esecuzione, per me sembra un giorno di festa, non sopporto più questa solitudine.

Il mio ventre è gonfio e il Boia non se ne accorge, forse è distratto dai nuovi arrivati. Qualcosa si agita nelle mie viscere, sotto la luna piena, in una notte demoniaca ho capito di avere una vita scalciante dentro me.

Il frutto diabolico degli abusi del pazzo viene alla luce in una notte di luna piena, non vagisce, non urla, come fosse figlio della morte anch’egli. Assecondando uno stravagante prodigio si arrampica strisciando sul mio corpo nudo, avvinghiandosi avidamente alla mie mammelle, gonfie di un tetro latte cimiteriale e mortifero.

Pasce così la progenie mostruosa, è un maschio! Diviene sempre più alto e forte, giorno dopo giorno, nascondendosi tra le querce e all’ombra dei pini, scampando allo sguardo del boia.

Una mattina, ai grigi colori di un’alba autunnale, il piccolo giunse sotto il mio albero con in mano la testa recisa del boia, il padre degenerato era stato decapitato nel sonno, senza che neanche potesse accorgersi di avere un figlio, nato dal cadavere empio d’un’impiccata di cui aveva violato i resti.

“Mamma, è per te!”

Disse il mio bambino porgendomi la testa del boia che irrorava di sangue la terra dei condannati.

Spero che nessuno trovi il ragazzo nei dintorni, non capirebbero, in fondo è un’anima così innocente. Finirebbero per condannare anche lui, l’ultima cosa che vorrei è trovarlo qui di fianco al mio ramo, a penzolare insieme a me in questa eterna solitudine.


Davide Giannicolo