domenica 14 dicembre 2025

Necromanzia nel Ghetto

 

Il ghetto era molto antico, i suoi scantinati avevano visto i secoli e ne avevano anche l’odore. Ora era un coacervo di tutte le razze, persone provenienti da remote regioni dell’Africa e dell’Asia occupavano palazzi cadenti e popolavano quegli antichi scantinati, vagavano per scale silenziose, spacciando spezie e droghe, hashish e magia nera.

Gran Garrota amava bazzicare quei bassifondi in cerca di guai, anche se aveva ormai svariate denunce sulla testa a causa di queste sue violente gite nel ghetto, per non parlare dell’inimicizia di molte bande locali che non lo volevano lì intorno, dato che aveva mandato molti dei loro membri in ospedale. Era stanco di nascondersi però a casa della sua ricca e perversa amica Victorine, ed era scappato da quella prigione dorata in cerca di un pò d’azione scellerata dal sapore di kebab e spezie immonde.
Il ghetto lo attirava come una calamita, tornava sempre lì quando sentiva il bisogno di sfogare le sue pulsioni animalesche, gli piaceva essere attirato nella rete della malavita, fingersi una vittima e diventare un carnefice, o semplicemente essere un predatore tra i suoi simili, dato che ognuno in quei bassi fondi sembrava essere macchiato di una qualche forma di peccato. Calpestò un paio di tossici strafatti alla stazione camminandoci sopra con le suole pesanti dei suoi anfibi neri, li uccise entrambi spappolandogli le teste mentre erano stesi a terra privi di coscienza, nessuno se ne accorse e lui continuò a passeggiare con le mani in tasca. C’era una nigeriana immensa davanti a lui, dai seni giganteschi, decise di seguirla, sperando lo conducesse in qualche palazzo fatiscente infestato dalla nidiata straniera della sua razza perniciosa. Nella villa di Victorine ne aveva viste di tutti i colori, necrofilia, orge coi morti, scambi di corpi, sesso con fantasmi evocati attraverso il succubato (vedi Sangue e Violenza nella Cattedrale N.d.A.)
Ma nulla era paragonabile all’ebbrezza che provava in quel territorio pregno di energie primordiali, il ghetto era la sua riserva di caccia; d’altro canto aveva sempre amato le cose carnali e sanguigne se paragonate alle nefandezze esoteriche, pregne di stregoneria, tipiche della sua amica Victorine e della setta Satanica che era stato costretto a eliminare nella cattedrale poco più di un anno prima.
La negra dalle natiche gigantesche, come aveva immaginato, imboccò l’entrata di un vecchio palazzo dall’intonaco scrostato. Quei fianchi enormi riuscirono a stento a passare attraverso il portone.
Come un’ombra Gran Garrota seguì i suoi passi pesanti da pachiderma. Già sentiva nel palazzo gli odori nauseabondi di quei cibi esotici, pollame stantio e legumi sconosciuti bollivano in pentole incrostate, era ora di pranzo.
Ad attrarlo maggiormente però furono dei rumori nel sottoscala del palazzo, dove una stretta rampa conduceva agli scantinati. Era un misto di voci scimmiesche e uno strano tramestio. Allora Gran Garrota in un lampo fu sulle scale dov’era il donnone  nero, affondò il suo coltello nel fianco lardoso, era come immergere la lama nera in un panetto di burro, con la mano disarmata le tappò la bocca, lasciò momentaneamente la presa dal coltello, il tempo di scoprirle le natiche e liberare il proprio membro turgido e venoso, poi riafferrò il manico del pugnale servendosene come fosse un manubrio e affondò il proprio sesso, fino alla radice, tra le chiappone della matrona. Eiaculò in fretta, in una scarica violenta e brutale, nell’istante in cui lo stava facendo estrasse la lama dal fianco e la tuffò nella giugulare della donna rantolante, sgozzandola da dietro mentre la penetrava in spinte spasmodiche, riempiendola abbondantemente del proprio seme assassino.
Ripulì il coltello e il proprio glande con la veste di lei, lasciando il cadavere riverso in terra in una posa scomposta da burattino rotto. Solo allora discese le scale verso gli scantinati dove i rumori continuavano. Al fetore del palazzo intanto si univa il lezzo nefasto del sangue, dello sperma e della carne morta della donna di colore.
Aprì la porta che conduceva a una stretta galleria, lungo la quale ogni tanto spuntava qualche stanzetta di nuda pietra, dentro una di queste c’erano cinque uomini neri che stavano macellando una capra, erano tutti armati di minacciosi coltellacci e mannaie arrugginite. Il sangue dell’animale imbrattava il pavimento mescolandosi alla calce e alla polvere.
Uno di loro era alto più di due metri, guardò Gran Garrota con sguardo selvatico da scimmia impazzita e gli si avventò contro brandendo il coltellaccio.
Gran Garrota lo pugnalò in un occhio ma il gigante non frenò la sua furia scalfendo il braccio di colui che stava aggredendo, Garrota riuscì a sbatterlo di lato contro il muro menandogli altri due fendenti alla gola, ma intanto gli altri gli erano addosso. Lo ferirono profondamente alle braccia con le quali tentò di proteggersi, la sua giacca di cuoio spesso e duro aiutò ad attutire i danni dei tagli, ma il sangue sgorgò ugualmente a fiumi mescolandosi a quello del gigante africano che giaceva sgozzato in terra. Fortunatamente gli altri quattro uomini erano più piccoli e deboli. Gran Garrota riuscì a sbaragliarli servendosi di un tirapugni, fracassando crani e mascelle presto fu l’unico a rimanere in piedi, nonostante alcuni colpi di mannaia gli avessero sfregiato anche il volto che adesso pulsava emanando un calore malato e febbrile.
Si addentrò ancora di più negli scantinati fatiscenti ove non penetrava più la pallida luce del sole.
Sbucò in una grande sala in cui i nudi mattoni rossi senza intonaco divenivano meticci con la pietra grezza trasudante gocce d’umidità, l’aria pungeva i polmoni ed era quasi irrespirabile, contribuendo al malevolo pulsare delle sue ferite fresche. Incontrò una bella donna dalla pelle liscia e nera simile all’ebano di un pianoforte, era intenta a sgozzare un gallo nero circondata da un cerchio di candele, unica, flebile fonte di luce della stanza priva di finestre dall’aria rarefatta. Non appena il sangue del gallo sgorgò in terra Gran Garrota udì un gran trambusto alle sue spalle, come di convulsioni sul pavimento, rantoli, conati di vomito e ossa spezzate. Si voltò attendendo qualcosa di terribile, come gli suggeriva il suo intuito, infatti non si fece attendere il suono raggelante dello strisciare di passi confusi e asimmetrici, presto gli uomini che aveva ucciso poco prima, redivivi, si pararono dinnanzi a lui. 
Zombie dagli occhi bianchi come cataratte infernali, dementi, eppure risoluti e inesorabili, seppur lenti come carcasse mosse da languida vitalità.
Gran Garrota era un uomo d’istinto, non pensò, ma piuttosto che affrontare gli zombie preferì aggredire la negretta dai bei lineamenti e il corpo armonioso, infatti senza saperlo realmente aveva puntato direttamente all’interruttore legato a quelle abominevoli creature, tornate dalla morte grazie a un ancestrale, segreto e tribale rito di necromanzia. 

La colpì col tirapugni alla fronte crepandole il cranio, come se non bastasse lo shock di quel colpo che le aveva spento il cervello le infilò in un violento affondo il coltello in un padiglione auricolare, facendole sanguinare gli occhi, lacrime scarlatte che colarono lungo il suo volto contratto in una smorfia di dolore, serpeggiando fino al centro dei seni bruni. 
Quando la donna cadde in terra priva di vita spezzandosi le ginocchia nella caduta scomposta e incontrollata, fu seguita dai suoi fantocci, che tornarono nella loro natura di carne innocua e inanimata.
La puzza di sangue, animale e umano, in quell’ambiente umido pregno di muffa, divenne insopportabile. 
Gran Garrota ripercorse i suoi passi, tornò nell’androne del palazzo, dove ancora il cadavere della corpulenta negra che aveva violentato e trucidato giaceva sulle scale che portavano ai piani superiori. Poteva bruciare quel luogo dove albergava un male profondo, ma in fondo ci si era divertito come a un luna park, già sentiva un certo senso di malinconica nostalgia, avrebbe potuto pur sempre ritornarci.
Varcò il portone sgangherato del palazzo e si ritrovò investito dalla luce possente di pieno giorno, la strada secondaria dei bassifondi in quel quartiere malandato era deserta, dai molteplici angoli in ombra, immersa dal silenzio inquietante che regna in quella fase della giornata.
In fondo era ancora ora di pranzo.
Si incamminò verso la stazione, prese un autobus che lo avrebbe condotto in campagna, nella zona suburbana e isolata dove immersa da aceri rossastri sorgeva l’elegante Villa di Victorine, forse avrebbe fatto in tempo, nel tardo pomeriggio, a mangiare qualcosa di decente cucinato da mani bianche. 

Davide Giannicolo
Dedicato alla provocazione e alla realtà dei fatti.