venerdì 15 novembre 2024

Il Lago Dei Cigni

 


Sul lago di sangue cuore tormentato, dilaniato, straziato da tetro incantesimo.

Un principe spastico cerca il suicidio mediante la spada dello stregone che si tramuta in civetta.

Forze maligne si increspano sulle acque tinte di spume scarlatte, scie di delirio, di angoscia, di morte.

Le ali volteggiano in danza elegante sullo specchio immoto, grigio, torbido, eppure venusto.

La bellezza del dolore, le carezze del suicidio.

Sono rasoi affilati le piume della regina dei cigni, cristalli di delirio gocciolano in ricami di vetro e sinfonie di ghiaccio.

L’orrore natante del cigno nero si tramuta in fanciulla.

L’amore spezza l’incantesimo rivelando l’inganno, per poi trasformarsi repente in lama.

Sul lago rosso sorge una tomba, la spada non ne intacca la muta stregoneria. 

Porta sentore di morte l’aggraziato battito d’ali d’ogni cigno.

Solenne il silenzio ammanta la scena mentre la nebbia di novembre s’innalza su ogni leggiadria.

In quell’ora non precisamente scandita la morte regna incontrastata, in ogni tempo, in ogni luogo.

Esangue il cadavere della regina dei cigni giace sulla gelida riva, i polsi tagliati, il pallore eburneo simile al suo piumaggio prima che mutasse di venustà in venustà. 

La nebbia di novembre si innalza dalle acque, spettro maestoso che ogni cosa accarezza, così come la morte, in quel sogno di cupo delirio.

Il suicidio danza con la bellezza e l’amore, come sempre e sempre sarà, con la morte.

Nessun suono ora giunge in questo novembre maturo sul lago dei cigni; 

Solo lo scroscio delicato delle lente onde sulla riva oscura.

Davide Giannicolo


Immagini e testo di Davide Giannicolo

sabato 26 ottobre 2024

Algoritmo di una Zoccola

 


Allora, da dove cominciare? Naturalmente dal principio, che a quanto pare è tragico, ma non credo scatenante, poiché a quanto mi dicesti fosti abusata da bambina. Ma è vero? O volevi solo travestirti da agnello tra i lupi…

Tuo marito però, quel pelato di Cercola, non sa un cazzo di te, e se lo sa glie lo devo risbattere davanti  agli occhi, perché me lo immagino lui quant’è convinto e pure un pò arrogante, allora l’aggia fa suffrì. Perché tu accompagni il tuo figlioletto a scuola e fai la brava mammina, ma la tua fica tra le mutandine ben selezionate è slabbrata come una fisarmonica suonata da un orco dalle mani tozze. Sei sempre stata una puttanella e facevi le seghe(il pesce in mano) a i cuozzi sotto i garage di Cercola, nelle casette popolari di fianco al tuo parco blasonato.

Hai scelto sempre i più infimi, forse per offendermi, offendendo te stessa, tanto lo capirebbe anche un minchione che quest’algoritmo è frutto della rabbia e celebra la tua eterna puttanaggine.

Lo conoscevo bene quel posto, ci ho fumato hashish assistendo i miei amici fare cover dei Nirvana in quelle cantine claustrofobiche. Mi ci sono fatto un piercing mentre bevevo whisky in un appartamento sopra. Tu invece facevi il pesce in mano a Marcello nei sotterranei, e quando me lo disse, Marcello, un tamarro esagerato, un cuozzo senza storia, come ci rimasi male, hai sempre amato questi soggetti, questi bifolchi. E se ci rimasi male io, ci deve rimanere male pure il pelatone della Cercola, che sicuro è un cuozzo pure lui. È normale che tutto ciò non ha valenza letteraria, che il mio pubblico non deve prendermi sul serio, deve solo sapere che hai la fessa sguarrata e questo è il tuo algoritmo.

Crescendo ti lasciai un po’ perdere, chissà quanti te ne sei chiavata, conto bifolchi di San Sebastiano al Vesuvio che non parlavano nemmeno l’italiano, i tristi rappresentanti della razza umana li sceglievi tutti tu, e adesso la troietta accompagna il figlio a scuola.

Poi a chi ti sei chiavata? È così difficile tenere il conto. 

Arrivò internet, nei primi del duemila, e ti aprì un mondo di possibilità. Scopasti gente in camere d’albergo sperando che ti facessero fare l’attricetta (stai ancor a Cercola e accumpagn o creatur a scol). Portasti la tua fica in Grecia, ho pure le foto, a farti sbattere da un certo aspirante pilota di aereoplani, e io venni con te, glie lo dico io al pelato, come mi piacerebbe averlo qui davanti adesso per raccontarglielo bene, sentivo i tuoi gemiti attraverso la parete, ma non soffrivo no, poiché già mi facevi schifo come un polipo che si agita nella melma, il tuo algoritmo già ci aveva separati in maniera indissolubile, fu per questo che venni anch’io, fu una definitiva amputazione della cancrena che eri tu.

Decidesti di fare l’animatrice nei campeggi in Sardegna, mi ci volevi trascinare dentro, fortunatamente rifiutai grazie a qualche Angelo ribelle che mi fece riflettere. Puttana, anche lì scopasti sfigati assurdi, tutte le tue azioni finivano nel bidone infinito della tua fessa sfondata. Il pelato le sa queste cose?

Andasti all’università e ti lasciai perdere, perché non ce la facevo più, riuscisti anche lì a trovare un tamarrello senza macchina che ti eiaculava in giro, in giro credo sia su tutto il corpo che per tutta Napoli nella cinquecento giallo canarino che ti aveva comprato il babbo per chiavare là.

Andasti a Londra, sempre coi soldi di tuo padre, e non oso immaginare quanti cazzi, di quante razze, ti facesti ficcare dentro. Il mio algoritmo è per forza di cose impreciso, quello perfetto puoi tracciarlo solo tu, forse…

Poi hai trovato questo coglione che ti ha sposata, che probabilmente non sa un cazzo di te, che dorme al tuo fianco ogni notte e magari ti schifa pure. Hai un figlio, che non sa quanto sei Troia, ma un giorno forse lo saprà, se incontrerà Marcello, che abita vicino a te, a cui facevi il pesce in mano, o Peppe, che ti scopava in macchina, o me, che ti volevo solo bene, e stanotte ti ho sognata, trauma irrisolto della mia vita disperata.

Dovevi rimanere nella cloaca di Londra, dove tutte le zoccole vengono dimenticate, dove ogni algoritmo si annulla, invece sei voluta tornare riaffiorando dall’oblio come un ratto espulso da una fogna intasata.

Salutami il Pelato e digli che non deve offendersi, perché sono anch’io senza capelli.

Davide Giannicolo

lunedì 7 ottobre 2024

Immagini dal Ghetto

 


Il treno sferraglia sul ponte di fronte al balcone, inquieto ed inquietante il fantasma della carnalità resta immobile sui binari e fissa la donna dalla pelle ambrata nella casa fatiscente.



Denti bianchissimi addentano un frutto troppo acerbo, labbra grosse, laide, suggono il nettare come fosse sangue bianco.



Il fantasma del desiderio, immobile sui binari, estrae un membro liscio e inizia a carezzarlo; La scimmia glabra lo fissa, paralizzata, il frutto nelle mani, silenziosa sul balcone, la veste da casa stretta sui capezzoli turgidi e lunghi come dita.



Il treno che sferraglia nella giungla di cemento, non c’è un albero, sole artificiale, ratti nascosti, mattoni marci, pietre vetuste.

Il fantasma della carnalità sui ciottoli dei binari mentre il treno violenta il silenzio con scintille di metallo, eiacula.



Scene del ghetto, emulo di Masoch ma  più terra terra.

La vulva rossa della donna ha delle scosse, proprio come quelle provocate dal treno che sferraglia. La veste da casa scostata da mano tremante sua propria, adesso anche il suo frutto di carne, dall’acre odore esotico, produce un latte denso che cola lungo le cosce tozze. Dita che frugano irrequiete nel fradicio, luminoso, nerissimo pelo che sormonta la scarlatta bocca affamata e implorante.



Tremore, calore, fuoco nel ventre.

Orgasmo sul balcone nel deserto di cemento, non c’è un albero, non c’è un’anima, il treno si allontana, degrado, vergogna, tremore, sporcizia, bruciore tattile, ferita umida, spossatezza, appagamento, colpa, morte dei sensi, tristezza, olezzo di carne, pelle semisvelata.



Il fantasma della carnalità sorride, anche la scimmia glabra ricambia, masturbazione reciproca, platonica, corpi che vibrano e non si toccano in una magica stregoneria di lontananza. 



Tornerà il giorno dopo, proprio come il treno, in un gioco adulto di trasgressioni urbane e domestiche.

Lui prigioniero dei binari della stazione, lei incarcerata nella cadente casa serraglio dall’intonaco scrostato.

Il silenzio del primo pomeriggio uccide ogni cosa nel quartiere remoto.

Tutto è finito come le gocce viscose e luminescenti del desiderio.

Fino al prossimo treno.

Davide Giannicolo



venerdì 20 settembre 2024

La solitudine del Vampiro nella Foresta di Cemento

 

Il sole tramontava, rosso come sangue sul rovente asfalto di fine estate. Il vecchio sedeva a una panchina, all’ombra di un grande albero, nessuno sapeva da quanto tempo fosse lì, non era stato visto da anima viva, un reietto, un invisibile di cui non si cura neanche un passante.

Osservava il campetto da basket, tutto in cemento, di fronte a lui, cinto da pali gialli e una rete verde arrugginita e sfondata. Immobile fissava i ragazzi giocare, adolescenti sudati che tiravano al canestro e ragazzine che pattinavano intorno a loro come mosche ronzanti su una carogna.

Ammirava i ragazzini con un leggero sorriso sulle labbra, dietro gli antiquati occhiali da sole il suo sguardo era simile a quello di una faina che da lontano, ma abbastanza vicino da avere la bava alla bocca, tiene d’occhio le grasse galline che svolazzano goffe in un pollaio, in attesa del momento giusto in cui ingozzarsi spargendo in un tetro banchetto piume insanguinate.

Ormai il sole era svanito in quella desolazione d’asfalto lasciando spazio ad un violaceo crepuscolo, solo in cielo tra nubi grigie regnava una scia rossa morente. Allora il vecchio si alzò dirigendosi verso il campo di cemento, ancora il fuoco del giorno, di cui l’asfalto era impregnato, si innalzava da esso, liberando vampe che lo investivano
in ondate veementi.
Le ragazze erano mezze nude, si potrebbe dire in mutande, vedeva la carne guizzare, tremula e invitante. I muscoli tonici delle gambe levigate, l’odore pregnante del sudore adolescenziale che per lui era come una spezia impareggiabile.

Un ragazzo alto dall’aspetto di un rapper lo urtò facendogli cadere gli occhiali da sole, la figura esile e trasandata del vecchio si chinò per raccoglierli.

“Che cazzo vuoi vecchio bavoso? Guardi le nostre ragazze? Vattene a fanculo e gira a largo da qui!”

Avrebbe voluto saltargli in faccia e mangiargli quel volto arrogante, ma non poteva, poteva solo incolpare sé stesso per essere uscito così presto. Tutto da attribuire alla noia e alla sua attuale, squallida sistemazione che non gli consentiva svaghi.

Così si allontanò tra le  risate di scherno delle ragazze.

“Bravo vattene! Ci scommetto che avresti tirato fuori l’uccello e avresti cominciato a menartelo qui davanti a tutti vecchio pervertito!”

Dietro all’albero dove c’era la panchina vi era un terreno incolto e brullo che conduceva a un declivio, che a sua volta portava a un fosso di edera ed erbacce malsane, lì sorgeva una baracca fatiscente e abbandonata, lui viveva in quel posto, o meglio ci si nascondeva, in completa decadenza. Tra ratti, vermi e larve consumava il suo sonno mattutino, nel tardo pomeriggio si destava affamato e soprattutto in estate l’attesa della notte era insopportabile.

Stava per compiere un errore fatale, quei ragazzi erano così pericolosamente vicini al suo nascondiglio, come quando rubò accanto alla panchina la carrozzina con dentro il neonato, nonostante il pasto sublime come non ne consumava da anni fu un miracolo che polizia, pompieri e volontari non lo stanarono da quel fosso impervio in cui rimase nascosto per giorni mangiando topi e luridi insetti, non voleva ripetere quella terrificante esperienza. 



Si diresse allora verso la fermata dell’autobus che dalla periferia lo condusse nella cittadina vicina. Scese in una zona malfamata e buia, sotto una sopraelevata che faceva da tetto a molti reietti tra lampioni tremolanti intorno ai quali orbitavano sciami di gialle falene notturne. Allora finalmente si nutrì, scelse un africano ubriaco che giaceva su un sudicio materasso sfondato coperto di stracci. Il suo sapore però era disgustoso, sapeva di cibo in scatola e alcool scadente. Mentre gli squarciava la gola con un coltellaccio arrugginito da macellaio e affondava le labbra nella ferita per suggere il liquido nero, in rantoli bestiali, contrariato e deluso pensava:

“Non sarebbe stato meglio cibarsi del sangue di quelle ragazze giovani e in fiore? Anche a costo di farsi scoprire e morire, compiere un ultimo pasto decente, piuttosto che nutrirmi di questa immondizia?”

Era tardi ormai, la sera lasciava spazio alla notte, una pallida luna piena si stagliava al di là del ponte della sopraelevata, scempio urbano che squarciava il cielo. Decise di tornare a piedi alla sua tana tagliando per i campi che separavano la piccola città dalla periferia residenziale. Il cammino fu lungo, i ragazzi non c’erano più

al campo da basket, tutto era deserto, un’immensa solitudine circondava quella landa desolata di cemento silente. 

Tornò alla baracca, sazio ma disilluso, col pesante fardello di un’angoscia incontenibile sul petto, il vampiro era infelice, triste, nel suo giaciglio sperduto nella brughiera, ma aveva un sogno, che forse era un suicidio: l’indomani la faina, si sarebbe lanciata nel pollaio, nutrendosi a sazietà in un sanguinario banchetto…

Davide Giannicolo


venerdì 13 settembre 2024

Orgia di Mezzanotte(Surrounded by Zombie Lust)

 


Talvolta accade, in una notte di luna rossa, soprattutto in autunno o nel gelido inverno, che le tombe dei cimiteri si scoperchino e aiutate dalla pioggia scrosciante, tra veli di nebbia spettrale, le mani dei morti affiorino dal terreno come funghi malvagi. 

Corpi decomposti, scheletri nefasti, bocche verminose, si muovono barcollanti in cerca di carne, mosse da un oscuro desiderio, abomini innominabili e blasfemi, offensivi alla natura stessa, varcano i cancelli del camposanto dirigendosi verso le case ove dimorano i vivi.

Fu proprio ciò che accadde quella notte, in cui la donna si risvegliò di soprassalto in seguito alle carezze gelide di oscuri sconosciuti, mani viscide come pezzi di macelleria le scorrevano lungo il corpo, stringendole i seni, insinuandosi tra le sue gambe, penetrando invadenti nelle mutandine e poi nei recessi della sua intimità. Inutili le grida, inutili i singhiozzi e il pianto disperato. Cazzi verdi, in cui brulicavano vermi, erano già all’altezza della sua faccia, come arieti invadenti chiedevano di sfondare il portale della sua bocca serrata umida di lacrime. Le verghe pulsavano, vibranti come molle impazzite, le mani adunche e scheletriche afferravano i suoi capelli costringendola ad avvicinare la bocca a quei turgidi randelli minacciosi, mentre altri strappavano i suoi vestiti e la sua biancheria intima.

Sentì la bocca di uno di loro infilare la grigia lingua decomposta nella sua vulva, allora aprì la bocca cercando di gridare e subito un fallo putrido e viscoso le si infilò nella trachea spingendo con prepotenza. Altri cazzi di zombie la penetrarono, instancabili, lacerando ano e vagina, intanto denti famelici e mani nodose staccavano brandelli sanguinanti della sua carne, mangiandola in un tetro banchetto mentre fiotti scarlatti imbrattavano le lenzuola, le pareti candide ed il di lei corpo nudo.

Presto sangue e materia organica furono un tutt’uno mentre fuori la pioggia scrosciava irruenta. Sazia, la gang di non morti continuò tutta la notte a fottere un cadavere scempiato di cui ormai si vedeva parte di scheletro in alcuni punti. Quando giunse la plumbea alba dalle nebbie angoscianti, il gruppo tornò al cimitero, ricoprendosi di terra come fossero lenzuola nei loro giacigli funerei.

Attenti dunque alle notti di luna rossa, serrate bene porte e finestre quando scroscia la pioggia e imperversa la tempesta d’autunno, poiché la gang dei non morti non è mai stanca dei propri bagordi e carnali voglie.

DavideGiannicolo



domenica 18 agosto 2024

Penelope Scarlatta



Macinatore, grattugia arrugginita, ossa e carne, onore distorto, vendetta. Penelope decomposta, Penelope Zombie, lutulenta puttana, catacomba, ritorno, violenza.
Membro di ferro, punizione, estorsione, puntualizzazione, marchio, feticcio.
Penelope assassinata, guanto di ferro, spada, usurpatore legittimo, violenza, sogno rosso come la porpora di ogni ferita, la porpora dei tuoi deliranti vestimenti in un’alba attorniata da onirici cadaveri.
Ritorno, lama, supremazia, atto dispotico, l’usurpatore Lotofago percosso, sanguinante, strisciante ai miei piedi.
Penelope: cazzo nel culo un’ultima volta; sotto il sigillo della mia forza, sotto la morsa della mia presa d’acciaio, tagliola anale di Pancrazio dominante. Non dibatterti Penelope morta: cazzo nel culo un’ultima volta, squartata come un animale al macello, immobilizzata, esposta con le natiche dilatate al massimo da una forza distruttiva pregna di rancore tradito, come hai potuto dimenticare? Questi Proci a banchettare nel mio talamo, il sudore della mia fronte, tutto il cazzo che mi hai rotto ora te lo sbatto nella faccia.
Come hai potuto dimenticare la furia della mia spada? La funesta cupezza della mia ira? Pensavi davvero di poter dormire tranquilli sonni col tenero mollusco sopito tra le tue mani?
Ti repelleva il tocco della mia callosa mano di guerriero, che adesso ti schiaffeggia le molli natiche fino a spaccarti le carni aprendo fontane di sangue.
Vendetta,
Vendetta,
Rancore.
Ridammi ogni mio sogno, ridammi la realtà della mia camera da letto.
Sono tornato e ho con me un vello purpureo, ho ucciso Argo a calci e messo in ginocchio il tuo nuovo me.
Estorsione uccide la mia antica eleganza, sputerò sulla tua vagina, usurpatore Lotofago sconfitto, inerme, implorante, piagnucolante, che cazzo ci fa qui un Lotofago? Come è arrivato dai meandri della sua isola remota fino agli anfratti della prigionia che ti avevo imposto, a frugare convulso nella tua vulva pulsante come un granchio impazzito in una buca? 
Anfibio nero nel muso, denti rotti, danni ingenti, voglio i soldi e la tua carne, non sono Ulisse ma un Lestrigone pazzo fuoriuscito da una realtà distorta, piscerò nella tua faccia dopo averla sfregiata. 
Specchio in frantumi, calma, sperma, respiri profondi, sangue, guanti neri carezzano il corpo violato di Penelope risorta, umiliata, nuovamente marchiata, purificata. Anfibi calpestano i cocci e i detriti dell’atto cruento di innata violenza, usurpatore Lotofago percosso, strisciante, mugghiante. Nuova vita, sperma e sangue versato, nuove certezze, una nuova alba lontano dalla morte, poiché ove v’è dolore e sangue v’è assenza di morte.
Il Re Teschio, impresso sul possente braccio della violenza, si allontana barcollando, ubriaco di tenebre ed espulso furore.
Sul pavimento distesa in posa di sfinito abbandono solo una puttana stuprata e un povero illuso picchiato gravemente, sperma, sangue e i cocci di vetro di uno specchio infranto.

Davide Giannicolo

giovedì 8 agosto 2024

Calipso


 

La spuma delle onde si tinge di rosso cinabro infrangendosi contro scogli ostili, neri rasoi che celano incubi e lamprede, fino a condurre alla sabbia frastagliata di cocci di gusci marini e cadaveri di granchi bianchi come spettri, la mia prigionia.

Ulisse, sette anni, ricordi ancora il tuo nome?

Incantesimo, stregoneria, l’eterna solitudine di Calipso. Non mi libererà mai, non tornerò, o sono io a non volerlo?

Olezzo di alghe marce, isola deserta, letto di conchiglie, inerzia, sortilegio, non riesco a muovermi. 

Cuore straziato.

Nostalgia.

Costrizione.

Isocrono dolore.

Non voglio, non riesco ad abbandonarla.

Il mare si scaglia contro le rocce giorno e notte, luna sanguinante, sole nero, monotonia, ipnosi, sogno. 

Il suono di una malia senza tempo che il tempo cancella, non sono più me stesso, non esisto più, prigioniero dell’amore di Calipso. La amo anch’io? Me ne sono convinto o mi ha persuaso il meccanico lamento delle onde?

Non è come essere preda delle mostruose fellatio di Scilla e Cariddi, di viscose zanne e taglienti bivalve.

No, questo è ugualmente un incubo, composto però di immobilità ed eterno silenzio, impotenza arrendevole, catena invisibile, peso schiacciante sul petto, paura dell’ignoto e del domani lontano da lei, anche se ella mi repelle come la carezza di una medusa tra i fluttui notturni.

Non posso, non voglio tornare, non posso non voglio abbandonarla, la amo, ho paura, l’isola mi inghiotte, incantesimo, malia, affascino, sortilegio.

Il suo sesso rosso e salato m’annega in un mare di sogno, polpi e murene m’avvinghiano senza che io possa formulare nemmeno un pensiero.

Penelope, mia amata, dimentica i giorni felici, non attendermi, io sono perduto.

Davide Giannicolo