Quando uscì dalla porta la luce del sole si era fatta rossa
e stava morendo lentamente dietro la fila di case sull’altro lato della via. Un
cane attraversò la strada dimenando la coda. Lui si chinò, gli fece una carezza
e pensò:
“Mi resta ancora una sola cosa da fare.”
Con un balzo improvviso il cane posò le sue grosse zampe
sulle spalle massicce di lui, prese a leccargli la faccia in maniera festosa e
invadente, lui sorrise, questo suo nuovo amico aveva dipinto di conforto il
fosco tramonto che man mano assumeva le tinte scarlatte del sangue.
Improvvisamente un getto umido gli investì il volto, era
stato tutto così confuso, cadde in terra e sulla faccia non aveva certo la
saliva del cane, era qualcosa di più denso, dall’odore pregnante, una fragranza
malvagia che lui conosceva benissimo, sangue; il cane aveva smesso infatti di
leccare.
Aprì gli occhi e concepì con orrore la scena, la testa del
cane non c’era più, il corpo del povero animale era ancora adagiato sul petto
di lui, contorto in agghiaccianti spasmi nervosi, il collo reciso che vomitava
abbondanti fiotti di sangue imbrattando la sua attonita faccia.
Restò immobile per qualche secondo, la violenza di quella scena
lo aveva ibernato, proprio come si intrappolano nel ghiaccio le vergini
adultere(dunque non più vergini) che vengono mutate in sculture immobili in
onore del gran maestro Gilles kitch, presidente operoso del pianeta, della moda
e del design .
Quando riuscì finalmente a muoversi, liberandosi dal peso
spruzzante che gravava sul suo petto, si impegnò a tergere il sangue dalle
proprie palpebre così da poter vedere con maggiore chiarezza. Intorno c’erano
il cervello e la testa del cane, sparpagliati in truculenti pezzetti un po’
ovunque.
Dritto di fronte a lui imperava un “Controllore”, alto e
maestoso, inguainato nella sua rigida divisa in lattice nero e metallo, con in
mano il tipico manganello a scariche elettriche, lo osservava dall’alto mentre
lui era in terra tra i resti dell’animale.
Era stato lui a far saltare la testa al cane, con una
scarica così possente da poter uccidere un bue, solo un sadico è capace di un
simile gesto; infatti se non eri sadico non potevi entrare nell’ordine dei
controllori, lo diceva espressamente il regolamento, “si pregano le persone dal
cuore tenero di astenersi dal reclutamento.”
Il grosso controllore fissava Chiodo che a sua volta
ricambiava lo sguardo con aria perplessa, insanguinato e seduto sul bordo del
marciapiede.
“Non lo sa che è proibito esternare manifestazioni d’affetto
così carnali? Non sa che qui a Roma è proibito perfino stringere la mano ad uno
sconosciuto senza l’ausilio di guanti in lattice? Figurarsi fare quello che lei
stava facendo con quel cane! Lei deve essere proprio pazzo! Perché non è al
palazzo del bondage? La baronessa del fetish sta tenendo un discorso!”
“Perché ha ucciso in maniera così barbara quella povera
bestia? Era il primo cane che vedevo in strada da anni!”
“Le è proibito fare domande signore, lei ha tutta l’aria di
essere un ribelle, venga con me!”
Il controllore estrasse le manette dentate, anch’esse munite
di scariche elettriche, si chinò verso Chiodo per ammanettarlo ma già questi in
uno scatto gli aveva piantato una larga lama in mezzo agli occhi.
“Bastardo! Questo è per il cane, porco deviato!”
Non c’era nessuno in strada a quell’ora, i motori dell’ossigeno stavano per essere spenti per la
notte, dunque tutti erano già ad affollarsi nei templi del bondage o ai
distributori automatici con le loro mascherine.
Chiodo viveva in un’epoca buia dov’era difficile incontrare
un cane per strada, l’ossigeno era stato monopolizzato dal gran maestro Gilles
Kitch già da vent’anni dopo la grande regressione del petrolio.
I combustibili avevano oppresso la terra consumandone ogni
risorsa e avvelenando l’aria, gli uomini per vivere e respirare erano costretti
a comprare l’ossigeno di notte, mentre di giorno veniva gentilmente e
umanamente offerto dal gran maestro che lo distribuiva mediante le sue industrie
globali.
Su ciascuna città giganteggiavano ciclopici i motori del
maestro, chiunque volesse respirare non poteva fare altro che sottostare
all’egemonia di Gilles e accettare in primis le sue folli leggi estetiche;
infatti Roma, uno degli epicentri storici più sublimi dell’arte architettonica,
si era tramutata in una pagliacciata kitch, i principali monumenti erano stati
rasi al suolo e sostituiti da mostruose costruzioni in vetroresina. Il Colosseo
era rivestito di vergognosi pellicciotti
rosa e lustrini, catene dorate reggevano giganteschi lampioni nei principali
centri al fine di emanare luci e profumi plastificati, incensi fittizi di un
mondo distorto.
Chi era troppo povero per pagarsi l’aria era costretto a
rifugiarsi nei templi del bondage, palazzi in vetro scuro e decorati in oro
rosa ove baronesse fetisch gestivano performance per la più alta elite del
paese in decadenza.
In cambio di aria gli ospiti dovevano essere a completa
disposizione degli spettatori paganti, si potevano dunque osservare in questi
posti le più orribili nefandezze concepite dall’animo deviato; le persone non
erano null’altro che oggetti, divenivano tavolini stuzzicati con aghi e
suppellettili bollenti, sui quali era concesso spegnere sigari e sigarette,
vomitare la sbronza, affondare la forchetta giusto per spezzare la tensione.
Oppure potevi ritrovarti a essere un divano sul quale si stravaccavano grassi e
nudi magnati o obesi culi fetidi di bovine baronesse.
Eri dunque una persona fortunata se ti capitava solo di
essere frustato, legato o violentato.
Il padre di Chiodo era morto in uno di quei posti, e non
c’era cosa che infatti Chiodo odiasse più di quel maledetto, plastificato mondo
ideato da quel frocio del maestro kitch.
Tutto il mondo occidentale si era sottomesso alle multinazionali
di quel figlio di puttana, solo il medio oriente aveva resistito al suo laido
ricatto, il risultato fu che il medio oriente non esisteva più, milioni di
corpi asfissiati hanno generato con la loro decomposizione la più immane e
devastante pestilenza mai ricordata dal genere umano, trascinata in occidente
sulle ali malevole di cavallette soprofaghe, che avevano divorato i corpi morti
di quasi un intero continente.
Per questo bisognava stare attenti alle manifestazioni
d’affetto, i baci erano divenuti merce di contrabbando, il maestro odiava
l’espansività carnale e affettiva in ogni sua forma, e molto probabilmente,
anche senza l’epidemia, si sarebbe attrezzato comunque per proibire tali “umane
debolezze!”.
Il Dio del maestro era se stesso, la sua impotenza innalzata
a icona e la plastica che lui chiamava estetica, ed il mondo gli voleva anche
bene, a questo pagliaccio ridicolo, pingue figlio dell’avanguardia stilistica.
Questo era il mondo dove Chiodo era nato e cresciuto, non
sapeva nemmeno chi fosse sua madre, non aveva mai visto il mare, né il cielo
privo di nubi rossastre, limpido e azzurro come si diceva fosse stato un tempo,
non riusciva proprio a immaginarselo il cielo privo di scorie, in effetti non
era uno che poteva concedersi spesso alla fantasia, Chiodo era uno dei pochi
oppositori del sistema, e stava rientrando da una spedizione molto difficile.
“Mi resta un'unica cosa da fare!” lo ripeté ancora nella sua
mente mentre osservava il cadavere del controllore goffamente disteso nella sua
ridicola e aderente tuta in lattice.
Lasciò lì il cadavere e cominciò a correre sentendo la
carenza d’ossigeno nell’aria, dovuta allo spegnimento dei generatori avvenuto
da circa un ora, l’aria accumulatasi si stava dunque disperdendo; aveva
estratto il coltello dalla fronte del sadico perdente, e lo teneva stretto
nella tasca del suo cappotto, proprio all’altezza del petto, come fosse un
secondo cuore, un cuore d’acciaio.
Si insinuò in un dedalo di vicoli, era quello un quartiere
antico, uno dei pochi a non aver subito il rinnovo fetish-kitch, questo perché
era popolato da reietti, deformi e moribondi, ma il gran maestro non sapeva che
era reputata una fortuna per loro la faccenda del rinnovo negato, dunque questo
era l’unico quartiere dove non apparivano monumenti fallici in ceramica o
statue di suore seminude intente a
leccare crocefissi di vetro, culi in cristallo violetto o uomini negri imbevuti
nell’oro.
Il nostro Chiodo si fermò all’entrata di un decadente
palazzo, diroccato e sporco sembrava stesse per crollargli addosso; bussò per
cinque volte la porta, poi si guardò in giro, e bussò altre due.
“Non ci sono statue!” Una voce rispose alla bussata,
proveniva direttamente da dietro la porta.
“Per fortuna!” Rispose Chiodo.
Era la parola d’ordine, infatti gli aprì la porta un
bambino, piccolo e sporco, non aveva un occhio, probabilmente sottratto alla
povera creatura innocente in un perverso gioco da bondage, in cambio di poche
ore d’aria.
Chiodo carezzò la testa del piccolo affettuosamente,
estrasse un manufatto, una specie di gioco e glie lo porse sorridendo:
“L’ho fatto ieri, penso sia una specie di albero, o almeno
me lo sono immaginato così, nemmeno l’ho mai visto un albero.”
Il bambino sorrise, aveva veramente un’aria malinconica quel
piccolo volto privo di occhio sinistro.
Chiusero la porta e salirono la stretta e sudicia scala che
portava agli appartamenti.
Orca, ovvero l’uomo dal quale stava andando Chiodo, era
immerso in un laborioso esperimento innanzi a filtri e ampolle dalle figure
surreali, nel vederlo accennò un sorriso, ma continuò con il suo lavoro:
“Hai piazzato le cariche?”
“Un gioco da ragazzi, mi è scappato più di un morto però,
non c’è tempo da perdere, entro domani le scopriranno!”
Orca sorrise:
“Non ci sarà un domani!”
“Hai preparato quella cosa?”
“Ci sto lavorando proprio adesso, ma non credere che sia
facile, è doloroso, forse non potrai sopportarlo!”
“Sono disposto a correre il rischio.”
“Come ti sei sentito quando le hai piazzate?”
“Ho pensato ad un acquario, al fatto che anche se forse ne
sono ignari i pesci vivono una parodia della vita, una morte vivente, e la cosa
giusta è liberarli, anche se questo significa morire!”
“Entro domani saremo tutti dei pesci boccheggianti senza
ossigeno, questa pagliacciata finirà, i lerci, grassi generali esploderanno con
la loro inerzia espellendo il male che hanno accumulato durante questi anni di
ignavia, in tutto il mondo c’è uno dei nostri che ha piazzato una carica per
ogni generatore, tutti ormai devono già aver compiuto l’opera e a quanto pare
senza intoppi, non ci sarà più schiavitù, non ci sarà più perversione, questi
bastardi pagheranno sulla loro pelle le loro mostruosità!”
Il bambino sorrise e guardò Chiodo intensamente con il suo
unico occhio azzurro, anche lui, così piccolo, aveva aderito alla causa, anche
lui preferiva la morte e l’annientamento dell’umanità a quella parodia di vita
costruita su fondamenta di plastica.
“Io allora vado.” Disse Chiodo.
“Aspetta, non ho ancora finito!”
Orca stava preparando un complesso composto chimico, frutto
di anni di studio, era una formula alternativa all’ossigeno, ma non aveva gli
stessi risultati, era una sorta di droga che alterava tutti i valori del corpo,
dopo mezz’ora di autonomia invadeva l’organismo creando conseguenze devastanti,
i polmoni sarebbero bruciati, infiammati dall’interno.
Chiodo voleva iniettarsi quell’intruglio prima possibile, aveva
un ultimo conto in sospeso prima dell’apocalisse, e se dopo il sabotaggio dei
generatori lui non fosse ancora riuscito a compiere l’opera prefissa nella sua
mente ormai da una vita, allora il composto letale lo avrebbe aiutato per
un’ultima mezzora di morte; voleva assassinare il gran maestro, torturarlo con
sadismo come era stato fatto con suo padre nei templi del bondage.
“Ecco, è pronto! Anche se non so come farai a raggiungerlo
quel bastardo, tanto domani sarà morto lo stesso!”
Orca disse ciò mentre ammirava il liquido verdazzurro che
aveva concepito di sua mano.
“Voglio andare con lui Orca!” Il bambino, conscio della sua
situazione di terrorista suicida, voleva spingersi oltre e aiutare l’azione di
Chiodo, un indomabile rancore doveva agitarsi perpetuo nel suo piccolo petto,
non poteva essere altrimenti.
“No Jacobin, è una cosa che voglio fare da solo!”
“Ma quell’infame non ha rovinato solo la tua di vita, non
puoi essere così egoista!”
Orca strinse le mani intorno alle spalle del bambino e lo
guardò con uno sguardo rassegnato:
“Potrebbe fallire, potrebbero fargli cose orribili, è meglio
che stai qui Jacobin!”
Il bambino lacrimò, corse tra le braccia di Chiodo e lo
strinse con forza nervosa.
“Spero che rivedremo gli alberi piccolo, spero che domani
saremo in una verde pianura come era un tempo qui, spero Dio voglia farci un
nuovo regalo.”
Così dicendo Chiodo prese la fialette che gli aveva preparato
Orca, portò con se una siringa e una borsa nera contenente tutte le armi che
era riuscito a racimolare.
“Allora io vado, mi resta un’ultima cosa da fare prima della
grande libertà!”
“Sicuro che le cariche sono a posto?”
“Devi solo premere il tuo pulsantino Orca!”
“Bene, e ci sono stati tanti morti?”
“Tantissimi!”
“Speriamo che nessuno se ne accorga!”
“Speriamo!”
Chiodo chiuse la porta alle sue spalle e discese le scale
con trepidazione infantile.
Attentare alla vita di Gilles Kitch non era cosa semplice,
già il fatto di essere arrivati indenni e indisturbati ai generatori
testimoniava la bravura e la caparbietà degli uomini dell’azione rivoltosa, ma
una cosa erano i generatori(Gilles nella sua natura di uomo mediocre pensava
che nessuno fosse così stupido da farli saltare in aria uccidendo se stesso e
l’intera umanità.)cosa ben diversa era invece l’incolumità di quel pusillanime,
Gilles era l’uomo più vile, codardo e ipocondriaco del mondo, era impossibile
arrivare a lui a meno che tu non eri una bambina o uno spacciatore di
cristalloanfetaminarosa; i bambini erano gli amanti preferiti del maestro,
mentre con gli spacciatori-chimicoproduttori egli preferiva avere sempre un
rapporto diretto.
Ma Chiodo non poteva simularsi chimicoproduttore, quei figli
di puttana sono dei cervelloni, hanno un linguaggio tutto loro che pochi
possono tentare di emulare.
Non gli restava che la strada dell’azione, la sua preferita
del resto, entrare nel palazzo era impossibile, non aveva che una alternativa,
spiazzarlo non appena fosse uscito per la predica pubblica al bondage della
chimica al Colosseo, era uno spettacolo raccapricciante che si teneva ogni sera
proprio al Colosseo, o almeno quello che ne restava, lì il maestro curava
l’opinione pubblica e parlava ai suoi affiliati dei suoi folli propositi su
come sarebbe andato il mondo in futuro, era una pazzia che tutta quella gente
stesse lì a sentirlo, ad applaudire alle cazzate di un uomo vestito come una
carota di cartapesta.
Chiodo raggiunse il palazzo, era pieno di controllori
intorno, dunque non usò le strade usuali per raggiungerlo, percorse la rete
fognaria avvalendosi di una cartina studiata da anni, si appostò sotto un
tombino proprio vicino all’entrata, quante volte si era allenato su quel
percorso, quante volte aveva pensato:
“Quando sarà il momento già sarà tutto scritto, il cuore mi
sobbalzerà in gola mentre starò andando a torturare quel fantasma già morto!”
Non aveva sulla coscienza le sorti dell’umanità, chi si era
piegato a Gilles aderendo al suo monopolio estetogerarchico meritava la morte,
era gente che viveva con geishe artificiali, masturbatrici robotiche, manichini
factotum, animali esotici manipolati geneticamente; non erano uomini, erano
alieni mostruosi. Per quanto riguardava il resto della popolazione, quelli che
subivano, quelli che si facevano massacrare nei templi del bondage, per loro
sarebbe stata di sicuro una liberazione.
Attese qualche ora, erano quasi le dieci di sera, a
mezzanotte sarebbero esplosi tutti i generatori del mondo esteticocivile, aveva
dunque soltanto due ore.
Finalmente il ridicolo corteo del maestro varcò l’uscita del
palazzo di vetro soffiato, era una carnevalata priva di decenza.
Donne imbellettate con cere simili a maschere precedevano la
vettura di Gilles, piume di pavone variopinte ornavano i loro corpi
transessuali, giocolieri forzati in tute argentate saltellavano qua e là.
Il maestro era seduto come un sultano su di una scultura
titanica, una sorta di lavatrice oblunga dagli oblò laterali contenenti polveri
dorate, probabilmente afrodisiaci attui a ingraziarsi gli spettatori
persuadendoli all’orgia, dei tubi trasparenti dai colori eccentrici
fuoriuscivano dal cuore della scultura e finivano direttamente nel naso e nella
bocca del maestro, aria mista a droghe chimiche estasiava la sua parata.
La scultura-trono era sorretta a spalla da uomini
muscolosissimi, pompati artificialmente e imbottiti di misture chimiche, mostri
culturisti oleati come maiali imbevuti nella sugna, coperti da perizoma
filiformi e nulla più, qualcuno di loro aveva qualche strano ornamento, tipo
collari introno al minuscolo membro annegato nei muscoli artificiali, collari
legati a catene dorate che terminavano direttamente nelle mani inanellate del
maestro o delle sue padrone inguainate nel lattice lilla.
I controllori erano posizionati a schiera coprendo i due
lati della parata, davanti e dietro vi erano altre file formando così un
rettangolo di protezione.
Il maestro, vestito di un rigido cono dorato che si
restringeva alle caviglie e coperto da un berretto immenso, simile ad un polipo
di taffettà che allungava le sue immonde zampe, sorrideva strafatto e salutava
la folla drogata, il suo trono forniva aria alla massa, aria truccata con scopi
precisi.
Quando il trono fu abbastanza vicino Chiodo balzò fuori dal
tombino, aveva dieci granate nella borsa, residuati bellici di un defunto
passato, ne lanciò due avvalendosi di ciascuna mano, e l’esplosione disperse la
folla di pagliacci, poi si fece avanti mitragliando senza togliere nemmeno per
un istante il dito dal grilletto dell’enorme fucile d’assalto che aveva
imbracciato.
Quelle raffiche falciarono gran parte dei controllori,
parecchi culturisti si erano spappolati in seguito all’esplosione delle
granate, altri erano caduti sotto la letale pioggia di colpi, era curioso
vedere come il loro corpi gonfi quasi non sanguinassero, al posto del sangue
dentro di loro era rimasta solo la chimica e il silicone.
La scultura-trono cadde di lato in un tonfo ciclopico,
mentre Chiodo si faceva strada cercando di afferrare il maestro intontito.
Nessun controllore riusciva a colpire Chiodo, si faceva
continuamente scudo con altri corpi, finalmente riuscì ad arrivare a Gilles,
che ancora non poteva credere a un simile, arrogante affronto.
Appena Chiodo ebbe modo di toccarlo il sangue accelerò
implacabilmente il proprio flusso, non seppe trattenersi, gli mollò un pugno
dritto nei denti con lo sdegno di chi vuole causare molti danni.
Il maestro emise un gemito femmineo, mentre nella ressa e la
confusione Chiodo lo portava via strattonandolo e sparando a chiunque, c’era
troppa folla.
“Non ce la farò mai!”
Sparò al conducente di un pulmino elettrico e vi montò su
con il maestro, dopo il monopolio dell’aria furono aboliti i mezzi a
carburante, sostituiti da quelli a energia elettrica, lentissime schegge
inutili.
Era frustrante correre a quella velocità vergognosa, lo
avrebbero raggiunto in un secondo con mezzi volanti, così si gustò un bel po’
di pestaggio percuotendo il maestro con crudeltà inaudita, sbattendogli la
testa conto il vetro ripetutamente. Era felice, il suo sogno di una vita era
all’apice della sua realizzazione, stava pestando quel porco di Gilles
vendicando il mondo, scaricando tutta l’energia negativa che aveva accumulato
nel corso degli anni.
Il maestro piagnucolava, era proprio come se lo era immaginato,
un frocio impaurito e castrato.
Chiodo estrasse un antico revolver, stupendo, argenteo,
luccicante, sparò in un ginocchio del maestro, poi a uno stinco, infine
nell’inguine.
“Voglio che tu muoia senza aria, come gli arabi, come li hai
fatti schiattare tu! Voglio osservarti boccheggiare porco schifoso!”
Il maestro piangeva, singhiozzava come un bambino bastardo
che viene sgridato e piagnucola non per pentimento, ma unicamente per uscire
indenne dalla sporca situazione.
Intanto la confusione regnava in ogni strada, tutte le
autorità si erano mobilitate e inseguivano il terrorista che aveva rapito il
capo dello stato, non riuscivano a bloccarlo poiché Chiodo si lanciava contro i
posti di blocco come se avesse voluto sfondarli, e la prima cosa da salvare per
le autorità era l’incolumità di Gilles.
Quasi mezzanotte, doveva resistere ancora un po’.
Fu una corsa sfrenata, dove a tratti Chiodo perdeva la sua
coscienza, immergendosi in pensieri ieratici, stava per finire tutto, l’umanità
cancellata da se stessa, e nessuno sapeva niente, anzi pensavano a salvare il
colpevole principale di quell’aborto.
Il pulmino continuava la sua folle marcia senza meta, fino a
quando non scoccò la mezzanotte, e il cielo si ghermì di imponenti fuochi
d’artificio, esplosioni ovunque fecero tremare e crollare le sciocche, effimere
costruzioni di vetro erette dai porci dell’umanità, e questo stava accadendo in
tutto il mondo.
Il cuore di Chiodo si riempì di gioia, gioia feconda,
galvanizzante.
“E’ l’ora, è l’ora cazzo, boccheggerai bastardo,
boccheggerai come hanno fatto in tanti!”
Il cielo ormai era una nube di fuoco, ovunque ragnava il
caos e nessuno tranne i membri reazionari sapevano cosa stava succedendo, la
gente ignorava che di li a poco il genere umano sarebbe morto in una straziante
agonia priva di ossigeno.
Chiodo guidò per un po’ tra fumo e vampate infuocate, voleva
raggiungere il deserto fuori città.
“Guarda maestro del cazzo, osserva il tuo impero crollare!
Pazienta, siamo quasi arrivati.”
Si fermò in mezzo al deserto scarlatto, già si percepiva
nell’atmosfera la mancanza d’ossigeno, la testa cominciava a farsi pesante
sotto una indicibile pressione.
“Hai capito finalmente stronzone cosa abbiamo fatto?”
E gli mollò un tremendo calcio in bocca, a Gilles mancava
l’aria e cominciava a capire, osservava Chiodo con patetici, attoniti occhi.
Anche Chiodo avvertiva la mancanza d’ossigeno e percepiva l’aria infuocata
proveniente dalla città avvicinarsi.
Estrasse la siringa dalla borsa, con essa tirò su il liquido
contenuto nella fiala e con decisione se lo iniettò nella vena del braccio,
Gilles continuava a fissarlo, con il volto gonfio dalle percosse:
“Ti chiedi cosa faccio maiale? Uno come te non può
immaginare cosa si farebbe per la vendetta, uno del tuo stampo non può provare
sentimenti tanto forti, questo liquido mi brucerà i polmoni, ma mi consentirà
di vederti schiattare contorto dall’asfissia, morirò in preda a dolori
inimmaginabili, ma è un prezzo che sono disposto a pagare, non penso che tu possa
capire, non me lo aspetto di certo, non temo il dolore nè la morte, no, non li
temo perché oggi è il giorno più bello della mia vita.”
Il liquido cominciava a fare effetto, gli infondeva
sensazioni di onnipotenza e strani stadi di delirio, intanto il mondo stava
morendo, badando al dolore delle contrazioni polmonari e non alla riacquistata
libertà che Gilles aveva avvolto in prigioni di plexiglas.
Chiodo si sedette comodamente osservando il maestro
agonizzare, boccheggiava rosso in volto proprio come se l’era immaginato,
strisciava sulle scorie polverose del deserto di metallo mentre si contorceva
nei suoi ultimi spasmi di vita, finalmente morì e Chiodo spappolò quel corpo
esanime crivellandolo di proiettili, poi felice volse lo sguardo verso la città
in fiamme:
“Liberi, tutti liberi finalmente!”
Sorrise e cominciò a sentire il bruciore previsto, i suoi
polmoni stavano prendendo fuoco incendiando il suo interno, si, stava prendendo
fuoco proprio in quel momento e lo strazio lancinante glie lo faceva avvertire
con chiarezza, diede un ultimo sguardo al corpo martoriato di Gilles e urlò per
le fitte insopportabili.
“Ne è proprio valsa la pena!”
Pensò l’ultimo uomo della terra mentre bruciava.
Davide Giannicolo