Visualizzazione post con etichetta filosofia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta filosofia. Mostra tutti i post

lunedì 16 dicembre 2024

Cecità

 

Spesso i peggiori nemici sono gli alleati perduti nel crepuscolo della propria cecità .

Davide Giannicolo

venerdì 1 marzo 2024

Specchio

 


Io sono la strada cattiva, irta di spine.

Ti condurrò all’inferno delle tue paure segrete, che non riuscirai mai ad affrontare, 

ove la porta è sempre aperta.

Io sono la lebbra che si affaccia nel tuo specchio, mostrandoti riflesso un’abominio aberrante e sfregiato dal peccato, 

in cui non vuoi ammettere di riconoscerti.

Sono inoltre il diamante che ti abbaglia, proveniente da una dimensione irraggiungibile; 

Lo stiletto che pungola la tua mente limitata, il veleno che instilla l’incubo nei tuoi inconfessabili rimorsi.

Non posso mentirti, così come tu non potrai ingannare te stesso in eterno.

Io sono la Verità 

e non v’è sottile trama 

che possa incatenare 

l’ineluttabilità del mio operato.

Aspettami o ignorami.

Il risultato sarà il medesimo.

Sempre.

Davide Giannicolo 

mercoledì 11 dicembre 2019

Amore



L'amore è una lacrima d'angelo,
puro, diafano;
cangevole nel suo serpeggiare.
Sublime
eppure 
intriso di dolore.

Davide Giannicolo

sabato 10 settembre 2016

Soliloquio



Sulla lama che sguaino
si posa sempre un fiore.

La delicatezza della morte
che squarcia i cieli dei millenni.

Come un tuono
nella notte di novembre.

Davide Giannicolo

martedì 13 gennaio 2015

Destati




Il farfugliare è per i pusillanimi e i sodomiti,

l'indugiare poi
mi repelle
sfregiandomi il cuore.

La menzogna

uccide la coscienza,
stimola l'efferatezza
e finisce
quasi sempre
sulla lama del coltello.

Davide Giannicolo

venerdì 2 dicembre 2011

Il Ragazzo è la Svastica in Catene


Scese dall’autobus penitenziario con dignità regale, aveva tatuati su gran parte del corpo i suoi pensieri, poiché il pensiero era la sua chiave distintiva, il pensiero che si fonde all’azione. Questo binomio era ciò che rappresentava per lui l’esistere secondo una logica eccelsa.
Se l’uomo riesce a fondere l’azione con il pensiero allora renderà l’umana razza l’ultimo stadio di un’ era, e si sa essere gli ultimi stadi è importante, l’ultimo è la fine, è l’ultimo invitato quello più atteso.
Doveva scontare sei mesi, aveva percosso un grosso uomo di colore con una tenaglia. Lo sventurato era quasi morto, il ragazzo bianco era però incensurato.
Incensurato per modo di dire, due anni prima aveva sfasciato la casa di una ragazza e aveva picchiato a morte, a mani nude lei e il suo amante, anche quella volta l’uomo era nero, però riguardo questi accadimenti nulla la legge aveva scoperto.
A quei fatti stava pensando nell’istante in cui entrò nel carcere, a quel giorno di due anni prima in cui il suo odio s’era acceso.
Quando egli stava salendo le scale che portavano alla porta di Greta e carpì un gemito, poi un altro, poi un altro ancora.
Fu preso dal pensiero di Greta che scopava con qualcuno, ma quasi ci scherzava su; poi quel gemito riapparve fra i sensibilissimi padiglioni auricolari dell’ormai quasi iracondo giovane, quei gemiti venivano proprio dalla porta di lei.
Si liberò del giaccone di pelle e apparvero nude le sue braccia a testimoniare il furore, forse infondato, quelle braccia erano gonfie di rabbia e sospetto. Indossava una maglietta stretta, di quelle con le maniche tagliate, l’aderenza di quel tessuto lo stava opprimendo.
Fin che non sfondò la porta con un paio di calci anfibiati, al di là di essa vi era la troia: bionda, candida come un boccone di neve, era nuda e in ginocchio sul pavimento dell’ingresso, in piedi d’innanzi a lei vi era un negro che con un orribile membro le carezzava le guance e la bocca, mediante un ignominioso glande marrone scuro intento a sborrarle in faccia, con lo sdegno d’una cavalletta che mangia la carcassa di un cavallo bianco; lei glie lo teneva fra le mani, e tutto ciò per il ragazzo fu quantomeno traumatico, specie per il fatto che i due sembravano non aver badato allo sfondamento della porta.
Il negro sembrava disinvoltissimo, ma presto ebbe un calcio in petto, poi infiniti altri, il ragazzo gli mise il capo in terra per poi schiacciarlo con il ginocchio una ventina di volte, poi lo sollevò artigliandolo per le orecchie fino a farlo sanguinare e lo fracassò contro una parete attrezzata.
Greta appariva scioccata , nuda, patetica, sporca di sperma.
Ci sorrideva su il giovane, che intanto entrava in cella, con lui c’era un vecchio tatuatissimo, pensava al fatto che magari lei era stata più turbata dalla sua reazione violenta che dall’esecrabilità dell’atto che lei aveva commesso.
Greta finì molto male, percossa con tavoli, sedie e suppellettili vari, sollevata di peso e scagliata nel muro più volte, poi impalata sui piedi del tavolo.
Greta era straniera, erano in un luogo balneare e fu facile per lui, profondamente turbato, partirvene il giorno dopo.
Di rado pensava a macabri dettagli tipo il corpo opulento di Greta impalato a morte ma comunque pervaso da una certa sensualità. Il ragazzo non era uno psicopatico, forse però lo stava divenendo.

Il vecchio tatuato della cella entrò nel raggio del suo chiaro, seppur cupo e assorto sguardo.
“Perché sei qui ragazzo?”
“Perché non riesco a fare qualcosa di più gotico.”
Il vecchio non comprese, il giovane con quella frase voleva intendere di essere meno violentemente nazi e un po’ più elegantemente attaccato alla vita.
“Che hai fatto? Quello volevo dire!”
“Ho quasi ucciso un nero!”
“E perché?”
“Perché quel grosso maiale era nudo e sudato a fottersi una tipa di diciassette anni massimo, non so se lei era d’accordo, sembrava di sì, dovevi vederli, sudata carne ondeggiante dinnanzi a me che lavoro spaccandomi il culo per essere un ingranaggio di una società del cazzo, fanculo!
Gli ho detto che se un bianco scopa una nera è perversione, se un nero scopa una bianca è ignominia, gli ho dato dell’animale, il grosso coglione con il cazzo da fuori voleva aggredirmi, mi faceva schifo toccare quello schifo in erezione, così ho preso una tenaglia e l’ho spappolato, l’ho sfondato fin quando non è arrivata la madre della puttanella che mi ha anche ringraziato.”
Notò che il vecchio si stava masturbando, forse la storia lo aveva eccitato, aveva infatti tatuati un gruppo di uomini che stuprano e torturano un paio di donzelle, c’era da immaginarsi il tipo. Non vi era differenza tra l’atto deplorevole d’un uomo bianco o di uno nero, questo il ragazzo lo sapeva, lo sapeva bene.

Scrisse a sua Madre:
 
Mandami qualche libro di Filosofia mamma, te ne prego.

 SCRITTO DA:
DAVIDE GIANNICOLO

giovedì 1 dicembre 2011

Dio è un'osmosi universale draconiana




I° STATO DELLA COSCIENZA
DIO
 Ciascuna dimora di ciascun Dio è riposta nell’universo, Dio rappresenta la luce divina del sole e la mesta tenebra del cosmo, Dio è l’amplesso simbiotico tra esse.
L’ignoranza dell’uomo ha scomposto e scisso queste due parti dalla loro estatica, primitiva fusione.
Solo i culti orientali conservano una reale ispirazione mistica che si avvicina alla reale idea di divinità.
Il buio e la luce sono Dio, e non credo ci chiedano di servirli.
Credo ci chiedano di fonderci ad essi.

  II° STATO DELLA COSCIENZA
IL LANGUORE è LA CHIAVE CHE BISOGNA POI DISGREGARE

Attraverso l’ascensione si è obbligati ad oltrepassare la soglia del languore, ogni sbaglio è già scritto, un’orma dell’orso sul manto di aghi di pino.
L’avvicinarsi a Dio significa abbandonare la propria condizione umana, porsi al di fuori, o meglio al di sopra di ogni sbaglio.
Penso sia impossibile crogiolarsi nella luce fulgente di Dio senza trascendere, se così fosse tutto accadrebbe come se una fata luminescente si gettasse leggiadra tra le fauci di un drago, in un volo leggero, d’altera letizia.
Tuttavia l’espiazione monastica non avvicina a Dio, essa è una pratica introspettiva legata alla tenebra, una pratica che conduce ugualmente al mare nero popolato di astri del cosmo, ma la strada che percorre è nelle tortuose e introspettive caverne dell’individuo, questa strada è molto dolorosa, spesso un guerriero però decide di percorrerla.

XXXXXXXXxxxXXXXXXX

Il mio nome è Sturlak Ombra di Orso, la strage che ho compiuto ha scatenato praticamente tutti i clan del fiordo di Yglak, in realtà volevo solo rubare un cavallo, poi ho visto questa donna avvicinarsi, che Odino la fotta a sangue quella troia, mi ha spaventato e di colpo l’ho sgozzata. Ho ucciso proprio la stramaledettissima stupra muli figlia unica di jijark l’assassino.
Ora non mi resta che nascondermi tra i boschi, all’ombra, dove le cose fanno dannatamente paura, qui, dove la notte è padrona.
Sento i cani avvicinarsi e le voci dei peggio rissosi tagliagole spartirsi verbalmente le mie membra torturate.
In realtà io non sono uno di loro, ho origini Italiche, sono scappato dalla confusione bastarda di Roma, Roma è ormai un puttanaio, solo lupanare e vomito.
Una fitta tenebra mi sta abbrancando il cuore stordendolo di sangue, ecco, mi abbraccia, penso  CHE questa tenebra sia Dio venuto in terra a dare un calcio in culo a Dioniso.

In realtà un lupo, enorme e nero, stava dilaniando le membra ubriache di stanchezza e dolore di Sturlak Ombra di Orso, e solo in quel istante, brandito dalla morte, egli sentiva vicini gli Dei.

Il cavallo il povero Sturlak, lo stava rubando per mangiarlo.

XXXXxXXXXXXXXxXXXXXXX
                                           
  III°STATO DELLA COSCIENZA
STATO PRIMITIVO DELL’ESSERE

L’uomo è un animale bramoso di sangue scisso da Dio. Colui che vuole avvicinarsi a Dio deve cessare di essere uomo. Ogni via è individuale. La morte è trascendenza. L’universo non appartiene alla carne. In ciascuno di noi vi è una goccia di esso. Qualcuno la chiama anima. Altri essenza.
                                                                                                                   
Davide Giannicolo

Pensiero di un aspirante suicida occidentale



Pensiero di un aspirante guerriero suicida occidentale
Di Davide Giannicolo

Aldilà dell’ombra vi era un declivio, lì egli ascoltava le foglie, carpendo il tempo; debole velo sui suoi occhi si posava assopendo le palpebre segnate d’ombra.
Quanti istanti di vita serpeggiavano tra quelle foglie carezzate dal vento!
In esse fluttuava un opaco segreto, un sussurro impercettibile generato dall’essere, composto di verdeggiante grazia, severo brusio frusciante che schermisce il sole.
Doveva tentare di annientare se stesso o di proseguire, o semplicemente star fermo, immobile, ad attendere le foglie rivelare quel muto, celato segreto da esse custodito e in criptico codice arcano cantato.
Il suo essere occidentale, il suo profondo legame con la rude e barbara essenza dell’uomo guerriero d’occidente, il canto fragrante del mediterraneo sul volto, tutti questi elementi gli concedevano di pensare a quell’attesa come qualcosa di affascinante, ne individuava la sottile grazia, ma non poteva pensare ad  essa come qualcosa di utile.
Egli non era infatti come un’orientale, disposto ad attendere il metaforico cadavere fluttuare sul fiume dell’esistenza; egli invece avrebbe superato questa attesa non senza un profondo calvario, dedicandosi a spasmi di frustrazione e auto lesione.
Anche se esteriormente appariva freddo, distaccato, dentro di lui però, sotto la sua cipria di morte, scorreva una violenta lava vulcanica ghermita da tagliente ghiaccio.

Così egli carpiva la grazia ma era incapace di scovarne il flusso, ignaro della sua profonda, segreta essenza offuscatrice.
Si ridestò dai suoi pensieri ermetici e cominciò a camminare in discesa lungo il declivio, in quel momento pensò alla capacità della totalità delle cose di mascherare, si, il tutto intorno a lui lo ingannava sempre, quella silenziosa pineta ove stava camminando era in grado di mascherare il triste cemento circostante, l’infinita distesa di inquietante, patetico cemento che ricopriva la terra uccisa.
Dunque gli ultimi spiriti della natura si rifugiavano lì, in quella macchia mediterranea a picco sul mare, nascosti fra i rovi attendevano la notte.
La pineta si raccoglieva mesta intorno a lui evocandogli una cupa sensazione d’onta, profonda e muta, da espiare con il sangue del suicidio.
Assaporò tutto ciò che riusciva ad assimilare coi suoi sensi, ma non era mai abbastanza, sembrava che ogni cosa, compreso il tappeto intricato di ricami di aghi di pino che lui carezzava col piede ignudo, fosse legata alla sofferenza.
La sua pelle in quei giorni era divenuta bruna, i capelli stupendi e compatti grazie alla salsedine, camminava senza trovare refrigerio tra i pini, il suo corpo sudava incredibilmente.
Dopo un sentiero arido circondato da cespugli spinosi incontrò la sabbia, così la sensazione di morbosa espiazione svanì, sostituita da un sentimento impetuoso, divagante, che colmava per intero l’anima e l’essenza impregnandola di languida tristezza.
Sotto di lui vi era il mare, non maestoso e poetico, bensì sporcato da bagnanti e imbarcazioni, non il mare puro, archetipo cosmico e unico che di notte chiama a sé il saggio.
Era giorno, il mare era triste, un mare d’agosto stuprato.
Pianse, si percosse il petto con un pugno al fine di rinsavire, si stava lasciando sedurre troppo dal canto supplichevole di quel mare violato.

Tornò indietro sul sentiero sabbioso e rientrò nella pineta, dei ragazzi fumavano hashish accanto ad un grande albero, lui li guardò di soppiatto, poi istintivamente si unì a loro, voleva evadere da quei pensieri troppo ciclopici per la sua giovane anima diciottenne.
Così sentì svanire ogni primitiva sensazione, la magia di quei luoghi era sfumata, morta in un solo istante mediante un fendente inferto da lui stesso.
Poiché aveva parlato, sporcando il silenzio e se stesso con la futile promiscuità di quell’incontro, allora si sentì come quel mare, un tempo vergine e puro, ora sporco di boe e canotti, violato dal compromesso dell’esistenza.
Passò una donna in bikini, e nuovamente, nell’osservare le ambrate carni ondeggianti e prospere, sicuramente salate, egli fu mosso da un istinto di strage, questa volta differente dal suicidio, un istinto di violento possesso, di rinuncia alla grazia e all’umano, un istinto indomabile che rifiutava ogni legge, persino quelle della natura e della venustà.
“Voglio fare un macello!” Pensò.
“Voglio distruggere tutto poiché in tutto c’è dolore, il mare soffre poiché esiste, dunque se non esistessimo ne' io, ne' il mare, ne' la felicità….”
Il suo pensiero s’arrestò, e provò vergogna per averlo postulato, era tutto troppo semplice e allo stesso tempo troppo complesso, come lo erano del resto quelle opulente forme ondeggianti di lontano.

©Davide Giannicolo