Pensiero di un aspirante guerriero suicida occidentale
Di Davide Giannicolo
Aldilà dell’ombra vi era un declivio, lì egli ascoltava le foglie, carpendo il tempo; debole velo sui suoi occhi si posava assopendo le palpebre segnate d’ombra.
Quanti istanti di vita serpeggiavano tra quelle foglie carezzate dal vento!
In esse fluttuava un opaco segreto, un sussurro impercettibile generato dall’essere, composto di verdeggiante grazia, severo brusio frusciante che schermisce il sole.
Doveva tentare di annientare se stesso o di proseguire, o semplicemente star fermo, immobile, ad attendere le foglie rivelare quel muto, celato segreto da esse custodito e in criptico codice arcano cantato.
Il suo essere occidentale, il suo profondo legame con la rude e barbara essenza dell’uomo guerriero d’occidente, il canto fragrante del mediterraneo sul volto, tutti questi elementi gli concedevano di pensare a quell’attesa come qualcosa di affascinante, ne individuava la sottile grazia, ma non poteva pensare ad essa come qualcosa di utile.
Egli non era infatti come un’orientale, disposto ad attendere il metaforico cadavere fluttuare sul fiume dell’esistenza; egli invece avrebbe superato questa attesa non senza un profondo calvario, dedicandosi a spasmi di frustrazione e auto lesione.
Anche se esteriormente appariva freddo, distaccato, dentro di lui però, sotto la sua cipria di morte, scorreva una violenta lava vulcanica ghermita da tagliente ghiaccio.
Così egli carpiva la grazia ma era incapace di scovarne il flusso, ignaro della sua profonda, segreta essenza offuscatrice.
Si ridestò dai suoi pensieri ermetici e cominciò a camminare in discesa lungo il declivio, in quel momento pensò alla capacità della totalità delle cose di mascherare, si, il tutto intorno a lui lo ingannava sempre, quella silenziosa pineta ove stava camminando era in grado di mascherare il triste cemento circostante, l’infinita distesa di inquietante, patetico cemento che ricopriva la terra uccisa.
Dunque gli ultimi spiriti della natura si rifugiavano lì, in quella macchia mediterranea a picco sul mare, nascosti fra i rovi attendevano la notte.
La pineta si raccoglieva mesta intorno a lui evocandogli una cupa sensazione d’onta, profonda e muta, da espiare con il sangue del suicidio.
Assaporò tutto ciò che riusciva ad assimilare coi suoi sensi, ma non era mai abbastanza, sembrava che ogni cosa, compreso il tappeto intricato di ricami di aghi di pino che lui carezzava col piede ignudo, fosse legata alla sofferenza.
La sua pelle in quei giorni era divenuta bruna, i capelli stupendi e compatti grazie alla salsedine, camminava senza trovare refrigerio tra i pini, il suo corpo sudava incredibilmente.
Dopo un sentiero arido circondato da cespugli spinosi incontrò la sabbia, così la sensazione di morbosa espiazione svanì, sostituita da un sentimento impetuoso, divagante, che colmava per intero l’anima e l’essenza impregnandola di languida tristezza.
Sotto di lui vi era il mare, non maestoso e poetico, bensì sporcato da bagnanti e imbarcazioni, non il mare puro, archetipo cosmico e unico che di notte chiama a sé il saggio.
Era giorno, il mare era triste, un mare d’agosto stuprato.
Pianse, si percosse il petto con un pugno al fine di rinsavire, si stava lasciando sedurre troppo dal canto supplichevole di quel mare violato.
Tornò indietro sul sentiero sabbioso e rientrò nella pineta, dei ragazzi fumavano hashish accanto ad un grande albero, lui li guardò di soppiatto, poi istintivamente si unì a loro, voleva evadere da quei pensieri troppo ciclopici per la sua giovane anima diciottenne.
Così sentì svanire ogni primitiva sensazione, la magia di quei luoghi era sfumata, morta in un solo istante mediante un fendente inferto da lui stesso.
Poiché aveva parlato, sporcando il silenzio e se stesso con la futile promiscuità di quell’incontro, allora si sentì come quel mare, un tempo vergine e puro, ora sporco di boe e canotti, violato dal compromesso dell’esistenza.
Passò una donna in bikini, e nuovamente, nell’osservare le ambrate carni ondeggianti e prospere, sicuramente salate, egli fu mosso da un istinto di strage, questa volta differente dal suicidio, un istinto di violento possesso, di rinuncia alla grazia e all’umano, un istinto indomabile che rifiutava ogni legge, persino quelle della natura e della venustà.
“Voglio fare un macello!” Pensò.
“Voglio distruggere tutto poiché in tutto c’è dolore, il mare soffre poiché esiste, dunque se non esistessimo ne' io, ne' il mare, ne' la felicità….”
Il suo pensiero s’arrestò, e provò vergogna per averlo postulato, era tutto troppo semplice e allo stesso tempo troppo complesso, come lo erano del resto quelle opulente forme ondeggianti di lontano.
©Davide Giannicolo
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