giovedì 1 dicembre 2011

Il fiore affilato

 
  mara
       Il fiore affilato
 Erano anni che Vito stuprava le signore e rubava pensioni, anni in cui la polizia sorvegliava inutilmente in  cerca di un colpevole mai identificato.
Viveva nella sua topaia, affittata per pochi spiccioli in uno sporco e mal frequentato alberghetto della stazione centrale, i suoi compagni di stanza erano scarafaggi e  pidocchi, solo che tra loro non erano molto amici,  li scorgeva continuamente a farsi la guerra saltando di qua e di là.
Almeno aveva uno svago originale, una volta aveva visto uno scarafaggio aggredito da uno sciame di pidocchi, uno spettacolo degno di un arena.
Vito non sapeva perché viveva così, sapeva soltanto che la vita per lui non aveva particolari attrattive, era un tipo selvatico, strano, totalmente fuori dal mondo e forse ne era anche inconsapevole, nel senso che credeva che quella fosse la normalità.
Se ne stava sdraiato sul sudicio letto sfondato mentre i pensieri si rincorrevano, fluttuando come fantasmagorie evanescenti dalle tinte ineffabili.
Le vecchiette non gli davano più soddisfazione, cominciava a sentirsi disgustato. Era anche stanco delle puttane da due soldi, aveva bisogno di qualcosa di veramente suo, qualcuno da allevare, capace di fargli compagnia, una bambina magari.
Quel folle pensò addirittura all’adozione, chi gli avrebbe affidato un ragazzino?
Le sue condizioni erano simili a quelle di una bestia, mangiava cibo precotto, carne rancida, pane duro, doveva minimo visitare dieci vecchiette al giorno per beccare abbastanza soldi da consentirgli di cambiare stile di vita.
La bottiglia di bourbon scadente emanava ambrati riverberi attraverso la sua liquida consistenza, appariva come uno sguardo carezzevole ma allo stesso tempo pericoloso, denso fondale di un lago composto unicamente di passiva malinconia.
Si addormentò stringendola fra le mani, meditando su questa assurda fantasticheria e il giorno dopo tutto fu oblio.

Il giorno seguente Vito si ritrovò a vagare per le strade della città come faceva spesso, dopo allucinate notti di ubriachezza passiva e delirio.
Si ritrovò davanti ad una casa famiglia, e guardando dei ragazzi giocare in cortile gli balenò  nuovamente nella mente la folle idea dell’adozione.
Una ragazza formosa, di giovane età e vagamente infantile nonostante avesse già varcato la soglia della maturità, si avvicinò alle sbarre del cancello per raccogliere una palla, era la creatura più bella che avesse mai visto, candida innocenza intrappolata in un corpo vezzoso che sembrava non poterle appartenere. Il suo volto era piccolo e ovale, tinto da un morbido pallore, come fatto di porcellana, i capelli neri e lucidissimi, tagliati corti, le cascavano lungo il mento, portava dei calzoncini elastici, rivelatori di opulenta generosità; le ginocchia sporche non sfumavano le piene e bianche gambe della ragazza sulle quali la bocca di chiunque sarebbe stata attirata come una calamita. La maglietta bianca e anch’essa un po’ sporca di terra mostrava senza pudore due grossi seni  troppo sproporzionati per appartenere a una ragazza di quella corporatura, tra l’altro portava quei seni in maniera goffa, come non conscia della loro violenta sensualità, i capezzoli in fine, sbocciavano svettanti e parevano ardere al di sotto della stoffa, letali cuspidi di carne, sicuramente rosei come le labbra di una fata voluttuosa.
Lei guardò Vito timidamente, e quando si voltò, mostrando le sue anche danzanti e ipnotiche, lui cominciò a eccitarsi palesemente, era rimasto impalato, completamente immobile dinnanzi a quelle lente movenze, cominciava a sudare, mentre i sussulti del suo cuore inaridito spingevano contro lo sterno in una danza eccitata.
C’erano altre ragazze, alcune disabili, altre palesemente affette da problemi psichici, Vito si chiese cosa ci facesse lì quella sorta di Dea, nonostante le sue empie inclinazioni non si sognava neppure di posare lo sguardo sulle altre donne che vagavano nel cortile come spettri perduti in un limbo di afflizione, lei era diversa, qualunque uomo cosiddetto normale avrebbe smarrito la ragione se avesse affondato il proprio volto in quei seni.
Restò lì pietrificato lungamente, lo sguardo fisso su di lei; la ragazza si faceva notare, si voltava verso di lui e sorrideva, provava certamente piacere nel sentire quegli occhi rapaci insistentemente fissi  sul proprio giovane corpo,  come se avessero voluto denudarla, lambirla, cingerla brutalmente; si sa che a volte l’innocenza è la più forte arma di seduzione.
Quando le suore arrivarono  dettando ordini Vito corse via, folgorato da quella ragazza decise di mettere in atto il suo folle progetto, era un uomo molto ignorante, non sapeva che sicuramente gli avrebbero sbattuto la porta in faccia, che non era così facile avvicinare una ragazza in un posto come quello, specie con delle tette così grosse, probabilmente non era stato il primo a credersi così furbo, magari una folla di magnaccia ci aveva già provato.
In meno di sei mesi, procurandosi ogni tipo di lavoro sporco e anche uccidendo all’occorrenza, riuscì a trovare abiti decenti, una casa e un lavoro rispettabile, sognava di poter varcare la soglia della casa in cui lei si trovava con un sorriso da benefattore sulle labbra, dichiarare di voler aiutare quella ragazza oramai maggiorenne a crearsi una nuova vita, per poi possederla brutalmente una volta trovatosi solo con lei, avrebbe recitato la parte dell’angelo custode, del caritatevole, gentile padre putativo, per poi raggiungere i suoi laidi scopi.
Così sposò Consuelo, una cicciona Cilena che aveva ereditato molti soldi da un vecchio bavoso, il povero uomo  le aveva lasciato praticamente tutto, morendo felice tra quelle burrose e giunoniche forme, rannicchiandosi tra le pieghe lardose delle sue cosce e spirandovi maledettamente appagato, esalando gli ultimi suoi respiri con la faccia affondata in quella grassa vagina.
Consuelo prima faceva la puttana ma adesso aveva documenti in regola e tutto il resto, si era lasciata coinvolgere solo per fare un piacere al povero Vito che gli faceva tanta pena, lo aveva conosciuto sessualmente anni prima, quando ancora batteva in sordidi vicoli e sotto i ponti.
Naturalmente una volta avuta la ragazza Vito era intenzionato a  fuggire ove nessuno sarebbe poi stato capace di trovarlo, aveva bisogno della sua amica Cilena per apparire ancor più disinteressato, era sicuro che quella ragazza aveva colpito infiniti altri malintenzionati con la sua avvenenza, sicuramente era affetta da problemi psichici, dunque debole e facilmente circuibile.
Così tornò gonfio di soldi al centro dove l’aveva vista per la prima volta, lei non c’era, cosa avrebbe dato per incontrarla.
Giunse una suora e Vito gli spiegò di esser rimasto colpito da quella giovane, che nonostante dimostrasse una ventina d’anni si comportava come un’adolescente, quell’anima smarrita dall’aria triste; con lui c’era Consuelo, nonostante i vestiti sgargianti e i modi ricercati avevano comunque tutta l’aria degli accattoni, non ci voleva molto per capire che erano palesi impostori.
“Capisco di chi parla, Maria è un po’ grande ormai per essere adottata, ha già venticinque anni, non ha genitori,  sarà felice di avere trovato una famiglia, vede è una ragazza strana, di solito non affidiamo i ragazzi al primo che capita, ma questo è un caso umano, altrimenti quella poveretta sarà costretta a fare tutta la vita da comunità in comunità! Sempre che lei sia d’accordo a venire con voi, ma sicuramente lo sarà, sembrate una coppia così deliziosa.”
La suora era troppo accondiscendente, il suo fare troppo laconico e ambiguo, non fece nemmeno le consuete domande, come se tentasse di nascondere qualcosa, tuttavia Vito fu contento, era stato più facile del previsto, si era immaginato fasulli corteggiamenti, intere giornate trascorse a recitare una parte che non sapeva di poter portare avanti, invece la monaca gli metteva la ragazza su un piatto d’argento, volevano sbarazzarsene, era chiaro ormai, d’altronde la ragazza era maggiorenne, forse però incapace di intendere e di volere.
Ci furono vari accertamenti e dopo nemmeno due mesi ecco la chiamata, Maria era un caso raro di abbandono, aveva problemi psichici forse, e le suore volevano liberarsene senza troppe congetture legislative, dando in maniera così leggera l’innocente nelle mani di un mostro, convincendola che era per il suo bene, che quei due signori l’avrebbero trattata come una figlia, una figlia ormai troppo cresciuta e avvenente per non destare sospetti.
Vito però, nella sua ignoranza, non si chiedeva qual’era il reale motivo di una tale fretta da parte delle suore, anzi, aveva atteso quell’attimo con insana impazienza.

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Quando andò a prenderla e la portò alla sua macchina fu perseguitato tutto il tempo da una mostruosa erezione, sentiva il bisogno pressante di parcheggiare e prendere ciò che ora era suo, ma qualcosa nell’inespressivo viso d’angelo di lei lo tratteneva, con la coda dell’occhio si limitava ad osservare quelle cosce nivee, percorse da vene violacee, quasi come se la pelle di lei fosse tanto pura da apparire trasparente.
Arrivati a casa si sedettero per la cena, lei aveva un vestitino delizioso e casto, una lunga gonna a campana impediva a Vito di viaggiare con la fantasia.
Maria notò subito che non c’era nessuno in casa e mostrò un certo disagio, era silenziosa, vigile, dov’era la grassa madre che le avevano promesso? La donna opulenta e sorridente che avrebbe dovuto concederle le carezze che non aveva mai avuto? Una sublime aria di fragilità aleggiava su tutto il suo candido volto, gli occhi, liquidi gioielli scuri percorsi da languidi bagliori, raramente si sollevavano per osservare le cose intorno, erano fissi nel piatto in cui la ragazza mangiava, Vito le sarebbe balzato addosso se quello sguardo si fosse confitto in lui, poiché in esso albergava l’innocenza inviolata che egli aveva sempre desiderato.
Parlarono del più e del meno, a Vito stava scappando un po’ di verità riguardo i suoi affari con le vecchiette, era stato il vino a renderlo pericolosamente loquace, ma poi si schermì affermando che prima si occupava di anziani.
Poi, dopo cena andarono a letto, ognuno nel proprio, ma Vito ebbe il tempo di vederla seminuda, e questo bastò a invadergli la psiche di una nube rossa, dilatatasi come una macchia di sangue precipitata nell’acqua..
Restò un paio d’ore  rigido al centro del letto con un orrendo turgore al basso ventre che non svaniva ne si chetava, non resistette e visitò la stanza di Maria.
Lei non dormiva, ma chiuse gli occhi non appena sentì la porta aprirsi, lui le si avvicinò, le carezzò le forme carnose che riempivano le mani, lo fece però da sopra le lenzuola, lentamente, fino ad accrescere i propri sospiri, violentemente scossi da quel tocco.
Selvaggio come un lupo impazzito sollevò le coperte e le lanciò alle sue spalle, la guardò per qualche minuto, quel ventre morbido e ondeggiante come un deserto di carne sul quale serpeggiano dolci dune di desiderio, era in mutandine e reggiseno, e la biancheria pareva così piccola ed elastica su quel corpo massiccio da indurre a strapparla.
 Fece scivolare le mani su di lei, strinse forte i suoi seni e ne sentì la pienezza vibrante, con l’altra mano frugava nelle mutandine incontrando l’elettrico e soave tocco del vellutato pube.
Perse la testa e affondò la bocca nelle sue floride carni, voleva morderla, annegare con in gola quella massa profumata proveniente da un magico mondo.
Maria cominciò a piangere in silenzio e lui se ne accorse, ma ormai nulla poteva più fermarlo, quando la sua mano cercò il sesso di lei, per affondarvi le dita nell’umido fiore, provò un orribile dolore, c’era stato uno scatto secco, come di una cesoia, ed il sangue aveva cominciato a tingere le lenzuola impregnandole di scarlatte sfumature.
Vito urlò, un urlo disperato e animale, poi strappò violentemente gli slip di Maria e fu testimone di un orrore inconcepibile, naturalmente la sua erezione si era afflosciata di botto.
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La vulva di Maria era deforme, dentata, possedeva due file di lunghe zanne affilate, una per ogni labbra, come una mostruosa bocca ansimante troneggiava tra quelle stupende cosce tornite, smaniosa di mordere ancora, sbavava sangue e saliva, poi, con un gesto convulso la vagina vomitò le dita sanguinati di Vito espellendole sul materasso.
“Maledetta puttana! Ma tu sei un dannato mostro, per fortuna che non ci ho messo dentro il cazzo!”
Provò un orrore indicibile al pensiero di una evirazione tanto grottesca e violenta, ma il fatto di essere stato ugualmente mutilato, privato delle dita,  non lo consolava affatto.
“E adesso che faccio puttanaaaa!”
Maria continuava a piangere, conscia della sua malformazione da sempre, quel bellissimo corpo apparentemente non poteva essere violato.
Vito il pazzo andò all’ospedale e disse di essersi buttato le dita per terra falciando il prato.

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Si era rimesso, e aveva tenuto Maria con se, un po’ per vendetta, un po’ perché era troppo bella e ne era innamorato.
Quando tornò dall’ospedale e la rivide vestita in maniera casta starsene tranquillamente seduta in cucina le piombò addosso, le ficcò avidamente la lingua in bocca come se volesse trafiggerla con essa, strappò via i vestiti e ricominciò la sua opera fallita.

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Maria, opulenta nel suo triste e passivo abbandono, con le carni danzanti in balia del suo genitore adottivo, era veramente seducente, emanava l’acre effluvio della brina sessuale che scorreva lungo le cosce carnose, lo stesso viscoso liquido scintillava sulle aguzze zanne serrate della mostruosa vagina, esprimendo desiderio e negazione in ugual modo; lui artigliò la polpa delle sue anche e non se ne staccò per lungo tempo, baciandola, mordendola, quasi volesse inghiottirle le cosce e le natiche, i fianchi ed il ventre burroso.
“Ho pensato a te tutto il tempo, ti prenderò in altro modo, c’è sempre un modo, non ti lascerò certo così, guardati, guardati maledizione, quanto sei bella.”
Vito non poteva capire la preziosa bellezza di quell’essere maledetto, la sodomizzò spingendo da dietro, mentre i fianchi burrosi andavano avanti e indietro sorretti dai fremiti delle scosse.
Le lacrime di Maria furono silenziose, come la triste eiaculazione di Vito, che sfinito si adagiò sulle grosse natiche nude di lei.

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Ci furono tante sere dello stesso tipo, anzi forse più macabre e violente, Maria si era rassegnata a quella vita e chiudendo gli occhi pensava alla sua mostruosa anomalia, nessun ragazzo poteva amarla, chiunque sarebbe fuggito dinnanzi alla mostruosità del suo fiore dentato.
La rabbia di Vito era continuamente tinta dalle scarlatte sfumature di una romantica passione, e nonostante egli umiliasse Maria con i suoi continui rapporti, nonostante la costringesse a sottomettersi e tacere ogni volta che le forme di lei ridestavano il suo desiderio, egli non si sarebbe mai separato da lei, le avrebbe dato tutto ciò che avrebbe voluto, a patto che divenisse all’occorrenza un pezzo di carne attuo ad assoggettarsi completamente al suo possessore.
Presto però questa passiva condizione della ragazza cominciò a stancare Vito, si sentiva un ospite indesiderato, strisciante fra quelle lenzuola bagnate da lacrime e sperma.
“Preferivi restare in quel posto? Essere adottata da un circo? Essere mostrata nuda davanti a una folla di zotici arrapati? Le suore ti avrebbero affidato a chiunque, erano ansiose di liberarsi di un mostro come te, devi ritenerti fortunata, cosa ti manca?”
Diceva ciò sodomizzandola, mentre i grossi seni di lei sobbalzavano a causa delle spinte furiose, le guance arrossate, gli occhi semichiusi avvolti da una soave aura di martirio, le candide carni imporporate dalle feroci strette del lubrico padre adottivo, le dita affondavano nella carne delle anche segnandola come fossero corde voraci.
Ma quando Vito veniva, spruzzando la sua frustrazione nelle viscere di lei, egli si pentiva di quanto detto, delle amare offese, della violenza iraconda dettata dalla crapula.
“Io ti amo bambina, ti amo”.
Con le dita monche tentava di carezzare l’umida vulva dentata, chiusa come un frutto marino proveniente da blasfeme profondità, cavità inviolabile; voleva passare seppur lievemente le dita su quel frutto proibito, sentirne il liscio tocco d’avorio, subitaneamente però le zanne scattavano, fauci mostruose e convulse, fiore carnivoro bramoso di sangue, allora Vito ritraeva la mano provando nuovamente infinita rabbia.
  
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Un giorno Vito la portò al mare, in bikini Maria era spettacolare, e naturalmente ragazzi di ogni tipo non le staccavano gli occhi di dosso. Quella ragazza fresca e carnosa sfigurava accanto al vecchio monco dal fisico flaccido che continuava a carezzarle il viso con fare laido.
Maria capì la sua posizione di dea deforme, e si accontentava di giocare con quegli sguardi bramosi che le divoravano il corpo con il loro platonico, astratto magnetismo.
D’un tratto Vito andò a fare il bagno lasciando Maria tra gli avidi sguardi, lei ne ricambiò uno in particolare, pareva una bagascia che si prodiga in sconce moine, era rimasto ben poco della sua antica purezza.
Quando Vito tornò non trovò altro che aria, Maria era sparita, e anche il tizio alto e moro che le stava di fianco.
Furioso si diresse verso la cabina che aveva affittato, già dai suoni  che da essa provenivano il suo cuore cominciò a raggelarsi, i rumori del sesso si innalzavano come un crescendo immondo nell’angusta cabina, una musica strisciante, che sembrava farsi beffe di lui violando sardonicamente lo scrosciare delle onde.
“Voglio vedere cosa fa la puttana!”
Da una fessura cominciò a spiare la sua amante e figlia adottiva, la troia era a gambe aperte, sorrideva con malizia, invitava il giovane e gli diceva di non aver paura, la sua vagina, la stessa che lo aveva orribilmente mutilato, si apriva alle carezze di lui in rosee convulsioni.
Le zanne erano retrattili! Si maledizione, quegli aculei letali si erano ritirati nella carne e adesso la vulva di lei era del tutto innocua.

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Il bel giovane la penetrò, e subito il corpo di lei cominciò a danzare scosso da fremiti sinuosi.
Vito da fuori si guardò le dita monche, distorse il volto in una mostruosa espressione di rabbia e gridò furente: “Ma io ti ammazzo maledetta troia!”
La bastarda aveva finto tutto quel tempo e aveva mutilato Vito intenzionalmente, nel guardare quella faccia da vile puttana godere mentre con lui aveva sempre pianto Vito sentì il sangue montare alla testa, le grida di isterico piacere di lei lo confusero per qualche minuto, poi corse a estirpare un palo per gli ombrelloni dalla sabbia.
Tornò alla cabina, sfondò la porta e li aggredì ferocemente, fracassò prima la testa del ragazzo, poi, completamente imbrattato di sangue guardò Maria con occhi pregni di odio.
“Cosa vuoi fare? Io ti amo!”
Lui tacque, le aprì con forza le gambe e in quell’istante le zanne ostruirono il passaggio
incastrandosi le une nelle altre, lui senza badarvi vi piantò il paletto appuntito, spinse con macabra forza sfondando la mostruosa dentatura che lo aveva mutilato, i denti si spezzarono, alcuni vennero via in grandi fiotti di sangue, mentre in preda ad atroci dolori Maria sentiva il palo salire lungo il suo corpo sfondandogli il ventre, conficcandosi nelle viscere come se avesse voluto estirparle.
L’operazione fu lenta e dolorosa, le grida acute e agghiaccianti, fino a che Maria morì con il paletto infilzato tra le gambe che vomitavano  fiumi di sangue.
Molta gente accorse attratta dalle grida, ma Vito era sparito, arrivato in città si incamminò verso la casa d’accoglienza  più vicina.

Davide Giannicolo

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