Sado
Claudia attendeva con fervente impazienza l’arrivo di Marco, il suo nuovo ragazzo, il fenomenale, bellissimo e forte Marco, l’unico che con la sua intelligenza sapeva capirla, non come quella bestia di Matteo, quell’ignorante anch’egli bellissimo ma che a nient’altro pensava al di fuori di discoteca e sesso.
Il sole era calato, deserto il parco cominciava a sussurrare il proprio verbo silente.
Finalmente Marco giungeva e Claudia cominciò a corrergli in contro, si abbracciarono, e dopo un lungo bacio sedettero giulivi come una giovane natica che sbeffeggia la morte.
Che bello era Marco, tra le sue braccia nulla sembrava poter giungere a turbarla, nessuno poteva nulla.
Le ore passavano, tra baci e singulti d’amore, si inoltrava la sera con adunche mani di vecchia signora bramosa di sesso violento.
Un uomo di grossa stazza apparve da dietro un nero cespuglio, si avvicinò alla coppia e sorrise inquietantemente, l’uomo era pelato e pallido, gli occhi chiazzati da profondi veli neri.
Claudia ebbe un moto di cupo terrore nel ventre, ma con Marco non vi era nulla da temere, Marco il mito di sempre che tra l’altro faceva karate.
Ma l’uomo era ormai a un dito dalle loro facce, piegato in avanti verso di loro emanava l’effluvio truculento di una macelleria accanto ad un cimitero.
Il volto di Marco mutò, nulla poteva accadere.
D’improvviso Claudia gridò e allo stesso tempo pisciò nel suo tanga tutta la sua patetica, impotente paura.
Quel suo tanga che doveva servire a renderla donna, che doveva caricarla di seduzione ora era tristemente fradicio della sua orina impotente,
“Piccole bestiole inermi costrette a nascondersi siete e resterete al cospetto della notte.” Questo diceva nel suo cupo latrato l’enorme cane randagio ai cancelli del parco, ma nessuno, nessuno poteva comprenderlo.
“Marco fai qualcosa!”
“Si Marco, penso proprio tu debba fare qualcosa.”
Così disse l’uomo e contemporaneamente estrasse un lungo coltello arrugginito con il quale sgozzò Marco in brutalissimo modo.
Marco giacque in una pozza di sangue mentre l’enorme tizio guardava Claudia con folle sorriso.
“Quanti anni hai?” infine disse.
“Tredici anni.” Rispose Claudia in incontrollabili singhiozzi.
“Sei solo una bambina.”
La caricò sulle spalle e la portò alla sua auto, l’aveva imbavagliata con del nastro isolante e legato le mani con manette opache.
Claudia ebbe modo d’osservare il tragitto, prendeva dimenticati sentieri di campagna che sembravano assorbire la vettura nella loro maestosa e sconfinata oscurità, nemmeno i fari riuscivano a falciare quella tenebra.
Quando giunsero ad un diroccato casolare Claudia fu consumata dal terrore, intorno era tutto silenzio e fittissimo buio.
L’uomo la condusse sempre in spalla discendendo delle scale di pietra che conducevano alla cantina, spalancò una robusta porta e subito un nefando odore di sperma, orina e sangue rappreso invase le narici virginali di Claudia, poi vide legata al muro una bambina di circa otto anni, i capezzoli le erano stati recisi, era cosparsa di lividi e segni di frusta, nel suo piccolo ventre vi era conficcato un cacciavite e la bimba non respirava, evidente.
Le pareti di pietra erano tappezzate di foto raffiguranti bambini denutriti, con occhi impauriti, orribilmente mutilati.
Al centro della stanza, austero come un medioevale strumento di tortura imperava un banco da lavoro coperto di sangue e sporcizia, sopra di esso, silenti nella loro mestizia erano posate seghe, coltelli e svariati strumenti di dolore.
Dal soffitto pendeva una catena terminante in un gancio.
Claudia vomitò, mentre lei si contorceva l’uomo la legò al gancio mediante le manette mentre lei ancora vomitava, sollevò la catena in modo da far pendere nel vuoto quel delizioso corpo delicato e piccino, la scorsa vittima a giudicare dalla posizione di prima della catena doveva essere più bassa.
Piangeva disperatamente la dolce Claudia e l’uomo le strappò i vestiti scoprendole i piccoli seni, ora pendeva al soffitto completamente nuda tranne che per il fradicio tanga.
Il gigante afferrò un frustino dal tavolaccio e dette inizio ad una violenta punizione, i suoi grugniti si accesero e così celebrò una laida masturbazione fino a che non si fermò a contemplare una penzolante, inerme Claudia ornata dai sanguinanti segni del frustino.
L’uomo si spogliò completamente, il suo ventre era enorme, le sue nudità ricordavano quelle di un fauno, forse era proprio così, quell’uomo portava con se l’eredità dell’istinto d’un vetusto fauno dei boschi.
Così si armò d’un coltello e cominciò a giocherellare passandolo lievemente sul corpo tremante della giovane ragazza, le provocò un leggero taglio sul seno sinistro, poi su quello destro e cominciò a leccare il sangue, il sangue che in rivoletti scorreva dalle ferite sulla nivea pelle di fanciulla. Le allargò le gambe e recise anche gli interni coscia leccando e suggendo avidamente anche lì, gli affanni del perverso gigante crebbero e così egli cominciò a leccare la piccola vagina di lei, dolce fiore di carne dalla divina fragranza, più che leccare l’uomo la stava mangiando, la stava assaporando in una sorta di violento e cannibale rituale d’amore.
La strinse a se e tentò di baciarle la bocca divina, ma ella si retrasse e cominciò a dibattersi impazzita, l’uomo le mise il coltellaccio alla gola e finalmente parlò:
“Il dolore è la naturale antitesi del piacere, il dolore è un sentimento, stai ferma o ti scoperò da morta!”
Mentre la lama premeva contro la sua delicata gola Claudia si lasciò baciare, s’innalzavano solo il cigolio sinistro della catena e gli affanni del viscido, solo di rado ella gemeva nella seduzione del gemito languente di chi viene mangiato.
Infine l’uomo la penetrò, la prese violentemente con la foga d’un animale, le sputava sul volto di fata, passava la sua lingua fatiscente sulle guance di lei che non poteva far altro che piangere.
Poi l’uomo le andò alle spalle, le praticò un lungo taglio verticale lungo la schiena, poi ancora un altro sanguinante sfregio sulla natica destra, in ultimo la sodomizzò.
Claudia era inerme, la testa riversa in avanti chiedeva alla sua coscienza di spegnersi, ma il fauno notturno proseguì la sua opera, penetrò lentamente un enorme fallo artificiale nel vergine ano di lei senza nemmeno ungerlo, di conseguenza prese svariati, lunghissimi spilloni dal bancone lercio e li conficcò tutti nelle morbide natiche della ragazza. Ella voleva la morte, ma riceveva solo dolore e sofferenza.
Esauriti gli spilloni, piantati anche nelle cosce e nella vagina di lei l’uomo fece qualche passo indietro e la osservò soddisfatto come uno scultore che contempla la sua opera.
Quando Claudia vide attraverso il velo di lacrime che l’uomo rovistava indaffarato in un cassetto scoppiò nuovamente in lacrime, ma ormai aveva esaurito anche quelle.
Il robusto pelato si riavvicinò a lei munito di spille da balia che conficcò nei capezzoli di Claudia, poi prese il coltello, le aprì le gambe e penetrò lentamente la lama nel sesso di lei.
Il dolore era lancinante, fuori un concerto d’ululati di lupi infuriava in macabra sinfonia mentre il vergine sangue in fluenti rivoli scorreva e irrorava il male.
Sempre più a fondo penetrava la lama mentre l’uomo ghignava, un ghigno maligno come quel posto, la lama giunse a metà e Claudia svenne.
Si risvegliò e tutto era buio, era nel suo letto o così sembrava, era dunque stato tutto un orribile incubo?
Si voltò e accanto a lei vi era la testa di Marco, recisa di netto.
Fuori dalla finestra un enorme cane grigio la fissava, quando si rese conto che lui e i suoi compagni, che stavano giungendo ringhiando, avrebbero mangiato i suoi resti quasi esanimi e che in realtà era in una fossa, scoppiò di nuovo in lacrime.
FINE
L’ALLEGRA BANDA
Erano le dieci passate, Vomit era lì ad aspettare Totila sulla porta del suo palazzo, lui e Totila non si chiamavano sul serio così, loro erano due fottutissimi black metallers, suonavano in un gruppo e avevano l’assoluto bisogno di nomi cazzuti, a scuola potevano anche chiamarli con i loro stupidi nomi, ma nella band era tutta un’altra storia.
Totila sembrava non arrivare, eppure si erano telefonati e Vomit aveva raccomandato dodici volte puntualità a quel bestione che sicuramente era lì a farsi una sega mentre lui aspettava con svariati grammi di speed addosso.
Faceva veramente freddo, la strada era squallida e deserta nella sua urbana struttura del cazzo, pochi lampioni davano luce oltre alle finestre emananti luci di neon nell’ozio serale.
Di tanto in tanto si udiva l’eclatante esclamazione seguita da applauso di qualche esagerato coglione televisivo.
D’un tratto Vomit cominciò a leggere i nomi sui citofoni come passatempo, si stava spaccando veramente le palle.
Poi ecco il suono dell’ascensore che viene chiamato e in un attimo il grosso Totila è giù, un veloce saluto prima che i due si incamminino, gli altri li stavano aspettando.
“Se continua così la storia qui me ne vado in Norvegia, sento il richiamo del gran freddo del nord.”
Disse il gracilissimo Vomit mentre era in cammino con l’amico, Totila annuì in silenzio rannicchiandosi nella sua giacca di pelle, era buffo vedere quel gigante fare gesti da bambino. Totila era il cantante, il miglior cantante della città, o almeno così diceva lui.
Giunsero nella semideserta piazza del paesino in cui non era molto difficile essere il miglior cantante black, Fango, Splash e Blakky li aspettavano già carichi di birra e anfetamine.
Eccola lì l’allegra combriccola, tutti adolescenti pronti alla distruzione.
Si incamminarono barcollanti e giunsero al loro posto, un piccolo boschetto di solito popolato da tossici e reietti, ma costoro sapevano che c’era poco da scherzare con quei bimbi satanisti, che facevano sul serio e sparavano contro per diletto, era in fondo un paesino dove non esisteva una reale criminalità al di fuori del teppismo.
Poi c’era Fango, fottuto da svariate droghe e psicofarmaci presi abitualmente con quantità di alcolici abominevoli, nella sua testa c’era solo il Black Metal e la chitarra, non aveva ne scopi ne obbiettivi.
E infine Blakky, così viscido da fare ribrezzo, quella lingua la ficcava ovunque senza pensarci due volte, la coca lo aveva reso iperattivo, aveva sempre i capelli sugli occhi e quando li tirava in dietro scopriva due bulbi striati di rosso che schizzavano via dalle orbite.
E così passava il tempo la band, a farsi e a parlare di filosofie troppo grosse per le loro teste casiniste, filosofie che forse solo Vomit riusciva a carpire con vera passione e completezza.
Totila era perseguitato dagli orribili spettri di una profonda crisi depressiva, così passava il tempo a farsi e a mangiare come una bestia tra una sega e una puttana beccata in strada per caso o per ricerca, quella era una di quelle serate in cui Totila non aveva voglia di fare niente tranne che sfregiare impunemente prostitute, ma la pseudo messa che si era organizzata non si poteva evitare, Vomit ci teneva un sacco, era tutta una vita che cercava veri satanisti come rimpiazzo a quei bifolchi persi in loro stessi.
Così il secco chitarrista tracciò un cerchio per terra con della vernice, Splash recitò goffamente le parole, le parole che a detta di Vomit avrebbero convinto il Demonio a metterli in contatto con i morti.
I cinque in cerchio chiesero al presunto ospite evocato chi fosse.
“Il Barone”
fu la risposta tracciata dalla moneta sul rozzo foglio per niente suggestivo che blakky aveva procurato importunando una studentessa tredicenne.
Un vento gelido d’immane potenza s’eresse sollevando ogni cosa inaspettatamente, e nonostante i ragazzi avessero tutti una singolare attrazione per questo genere di cose scapparono tutti insieme di gran carriera.
Era ormai giunto il tempo di tornare, ma Blakky propose un giochino attuo a scaricare la tensione generata dall’incidente nel bosco, lo stato confusionale in cui si trovavano gli avrebbe concesso di fare qualunque cosa alla luce del sole, erano tutti fatti di brutto veramente.
Così Blakky indicò una grassa suora che aspettava tutta sola, a quell’ora tarda alla fermata dell’autobus.
“Fermi tutti, in una cosa come questa penso sia d’obbligo il face paint!” disse Fango con voce da schizoide.
“Ho sempre il trucco con me dolcezza!” rispose Vomit.
Così i cinque si truccarono velocemente specchiandosi nei vetri di una macchina, poi si diressero verso la monaca.
“Che Satana vegli le tue notti lussuriosa tettona rattrappita, ti infilzeremo il rosario nel culo bagascia.” Disse Splash eccitatissimo, subito il terrore si dipinse sulla faccia grassoccia della suora che tentò di alzarsi dalla panchina.
“Stà ferma!” era Totila, che con la sua grossa mano l’aveva messa a sedere con un imperiosa spinta alla spalla, l’altra mano di Totila afferrò con violenza un grosso seno della suora inerme, poi scese più in giù, sollevò la veste e si insinuò tra le sue gambe. Da prima la suora gemette, poi tentò d’urlare ma l’altra robusta mano del gigante subito le afferrò il collo dimostrandogli quanto fosse facile per lui romperglielo.
Gli altri si unirono a lui, le strapparono le vesti e tra urla d’ebbrezza afferrarono le carni grasse e i seni flaccidi riempiendosene le bocche folli.
La trascinarono sull’asfalto e per terra la presero a turno irrorandola del loro sperma e costringendola a berlo, Fango volle consumare il suo piacere tra i seni di lei, il suo sogno si realizzava, gli enormi seni flaccidi di una suora ora erano impiastricciati del suo seme malato. La picchiarono lungamente, infine scapparono, lasciandola nuda in un’orgia di risate.
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La combriccola era abituata a questo genere di pratiche, era quello il loro divertimento, il loro life style, quello era puro black metal, il male nella quotidianità.
Qualche mese prima della storia della suora era accaduto un altro bizzarro e analogo avvenimento.
Era un pomeriggio estivo in cui il caldo si appiccicava alla pelle sudata, Splash si dilettava nell’appartamento dei suoi in pratiche sadomaso con Fiamma, una puttana da due soldi fottuta dalle droghe che si riempiva di borchie e si vestiva in lattice per il piacere di Splash, praticamente Fiamma era stipendiata da lui, negli ultimi anni Splash dovette darsi sempre più spesso al furto e alla rapina per sovvenzionare la troia e le enormi quantità di alcol e droga che insieme consumavano.
D’un tratto alla porta bussa un testimone di Geova individuato dallo spioncino da Splash subito divenne ispiratore d’un nuovo passatempo. Mandò fiamma ad aprire e lui telefonò gli altri quattro, poi raggiunse i due in soggiorno vestito solo d’un collare.
Dopo un laido sorrisetto lanciato con sdegno seguì l’aggressione, munito di una corta spranga d’acciaio Splash pestò lo sventurato tra le risate della troia.
Il testimone fu trascinato in garage, ove presto il resto della band giunse, fu legato per bene.
Ci fu da divertirsi per un intero pomeriggio ove le urla dell’uomo erano assorbite dalle pareti insonorizzate del garage sala prove di Splash, in seguito, con sbadata follia si liberarono del corpo bruciandolo nel bosco in onore degli spiriti del male più incontrollabili e perversi.
Questo gruppo di pazzi teppisti satanici restava impunito per un semplice motivo, tutti erano insospettabili giovani ricchi o borghesi poco più che diciassettenni, insospettabili a vederli tranne forse che per Totila e per Splash che era ventunenne e aveva avuto già i suoi tatuaggi da galeotto a testimoniare i suoi guai con la legge. Aveva infatti tatuata una donna nuda e in posa oscena che a gambe aperte viene impalata, il tatuaggio aveva i tipici colori del tatuaggio fatto in galera o sotto le armi, gli sbirri infatti rompevano di continuo le palle a Splash.
Ma una sera le cose andarono diversamente dal solito, e i cinque si ritrovarono nell’incubo peggiore della loro vita.
Era domenica sera, le crisi depressive di Totila raggiungevano ormai apici intollerabili perfino dal gruppo, sotto effetto d’anfetamine era soggetto a improvvisi e incontrollabili scoppi di violenza, così per distrarre il cantante i ragazzi decisero di attuare finalmente il piano che da mesi si progettava soltanto: ovvero incendiare il cimitero.
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Il cancello era imperioso, antico. I loschi figuri vestiti di pelle nera lo scavalcarono con la velocità di creature sbucate dalla notte, ma Totila era troppo grosso e poco agile per riuscire nell’impresa, così si limitò a sfondare una parte del cancello a calci.Nel cimitero era veramente come stare a una festa, giù le lapidi a calci, revolverate ai loculi con fucili da caccia e storie così.
Blakky pisciò su di una lapide veramente antica mentre Fango che era in stato pietoso stava semplicemente in terra a vomitare e a imbrattarsi delle sue stesse frattaglie.
Sul volto di Totila invece era tornato il sorriso.
Vomit si fermò su di una tomba, stupenda, monumentale.
Sulla lapide vi era inciso:
DIVERRO’IL TORMENTO DI CHI VIOLERA’ IL MIO PLACIDO SONNO- BYRON RAVEN- 1807-1839.
“Ma tu guarda un po’ questo coglione!” disse Fango asciugandosi il vomito, poi proseguì il suo schizzato pensiero filosofico nichilista,
“Ma chi cazzo si credeva di essere questo qui? Ho un’idea, fumiamo le ossa di questo stronzo.”
Detto questo diede uno schioccante bacio alla guancia di Vomit che ancora indugiava ipnotizzato dal fascino maliardo della lapide, Fango intanto era corso risibile nella sue movenze drogate ed euforiche all’eccesso a chiamare gli altri sparpagliati a far casino.
Senza profferire verbo Toitila afferra una vanga dimenticata nella terra e comincia a scavare, gli altri lo seguono anche loro rapiti da un accondiscendente silenzio.
Raggiunta la bara fu tirata fuori e profanata.
Nel vedere le ossa Totila fu investito da una perversa luce che intorno al suo volto creava una maschera di perversa soddisfazione.
Vomit al contrario sentiva che qualcosa era sbagliato, mai come in quella sera era più convinto del fatto che doveva abbandonare quei ciglioni confusi per darsi seriamente alla magia, da solo, con dedizione misantropica e fervente, Vomit voleva seriamente apprendere in tutta la loro pienezza le occulte arti della trascendenza mediante il buio.
Ma Totila frantumò quelle ossa secolari, Blakky estrasse il suo cylum e tutti, anche Vomit, fumarono a turno le ossa del povero Byron.
Splash tossì e disse: “Ora sodomizziamo quel cazzo di prete e diamo fuoco a tutto.”
Il prete viveva in una stanzetta nel retro della chiesa del cimitero, consumava riviste porno ed era il peggiore nemico dei Blackers di periferia perché voleva le loro stesse cose ma allo stesso tempo voleva anche dar loro la colpa. Il prete voleva bambine, e a tutte diceva di stare attente a quei quattro invasati dai demoni.
Vomit fu il primo ad entrare e senza parole calciò lo stomaco dello sbigottito sacerdote, presto tutti gli furono addosso in un corteo di furore. Totila infine lo fracasso nelle panche mentre Fango e Blakky davano fuoco alla chiesa.
I cinque si allontanarono correndo nella notte, di tanto in tanto si voltavano, corrosi dall’adrenalina ad ammirare la loro magnifica opera.
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Quella notte Totila fu tormentato da strani e terrificanti incubi, infatti il panciuto cantante era il più forte fisicamente ma anche il più fragile mentalmente.
Il giorno dopo Vomit fu beccato a scuola a fumare una canna nel cesso e dopo essere stato platealmente espulso come monito e presunto capro espiatorio egli raggiunse a casa sua uno sconvolto Totila reduce di una notte di delirio.
“Ciao bestione, cazzo tieni quel cane più in là!”
“Ho sognato cose orrende stanotte.”
“La reale cosa orrenda e che sono stato sospeso a tempo indeterminato. Questo cane devi rinchiuderlo quando vengo io, fottuto gigante bavoso come il padrone.”
Squillo il telefono, era Blakky che pretendeva d’aver trovato un nuovo modo per evocare i morti attraverso lo stupro di una andicappata di qualsiasi genere. Vomit si meravigliava di come quella idea non fosse stata partorita da Splash, la malignità di Fango giungeva a tali futili pretesti, per lui che aveva sempre la testa nei grimori e nei tomi medioevali ed ebraici, se non orientali e tribali, quella di Blakky era proprio un’offesa. Ora desiderava accoltellarlo come un maiale, voleva il sangue di quel perverso in un oscuro duello omicida, sempre di più Vomit si rendeva conto di stare nel posto sbagliato a sprecare le sue facoltà, per questo forse Nemesi l’avrebbe punito.
Così Vomit confermò un appuntamento, Totila depresso e allucinato volle restare a casa.
Così il grosso Totila si rinchiuse come seppellito nella sua stanza, vi restò tutto il giorno soppresso da un fosco, inviolabile presagio.
Verso sera un violentissimo vento si abbattè contro le sue finestre, una voce profonda e altre mille più lontane ripetevano in continuazione la stessa parola:
“Morte, Morte, Morte!”
“Vaffanculo, vaffanculooo”
Dopo aver urlato isterico queste parole Totila uscì di casa, era il bene che si vendicava, questo pensava, che immane cazzata pensava il vecchio Totila.
Entrò nella chiesa del paese e cominciò a buttar giù tutte le preziose statue, afferrò l’enorme crocefisso e lo scaraventò in terra.
D’un tratto però la porta della chiesa si chiuse con feroce impatto facendo sussultare lo sconvolto Totila in fase di distruttiva espiazione.
Un uomo dalle lunghe chiome nere e i verdi occhi onusti di malia si avvicinava a Totila, era alto e possente il doppio di lui.
Totila piangeva in ginocchio, i suoi folli occhi traboccanti lacrime, odio e paura si fissarono come chiodi in quelli del misterioso uomo.
“Vieni avanti bastardo, ti spezzo e ti mangio, forza, avanti,AVANTI, AVANTI CAZZO!”
Infine disse.
L’unica risposta fu una risata profonda, Totila s’alzò, serro i pugni e con un ringhio d’odio si scagliò contro lo spettrale tizio.
Colpì, colpì con tutta la forza delirante che aveva in corpo ripetutamente, ma solo dopo essere caduto in ginocchio sfinito si rese conto d’aver preso a pugni l’aria.
Quell’uomo era una visione? Manifestava la sua paura di essere sopraffatto da un nemico la cui forza era in opponibile? La paura di non essere più l’imperativo, feroce, grosso più di tutti Totila?
Stava diventando pazzo, era l’unica spiegazione poiché non aveva preso niente ancora quel giorno di allucinogeno o giù di lì.
Si rese presentabile e andò a casa, aveva gli occhi stanchi e gettò via la sua ultima sigaretta per metà. Era stanchissimo e si abbandonò sul suo letto con borchie e catene ancora addosso a rigargli la pelle ed il sonno.
Stava per cadere nell’oblio del sogno quando ancora il vento violento cominciò a imperversare sfasciando le finestre, ancora una spettrale cantilena che agghiacciava Totila rannicchiato e piangente come un bambino. Questa volta la parola pronunciata con l’enfasi d’un sussurro perverso non era più “Morte”, l’uomo della chiesa lo fissava con una smorfia satanica che mostrava due ingialliti canini acuminati come chiodi da bara.
Le parole che questa volta rimbombavano nella mente di Totila erano le seguenti:
“Byron Raven, 1807-1839- diverrò il tormento di chi violerà il mio placido sonno.”
Era una cazzo di follia.
“Basta!” Gridò Totila , continuò a gridare ma la cantilena sopraffaceva la sua voce capace di spostarti i capelli con un growl, fin che non resse più, prese la corda con il nodo a scorsoio che abbelliva la sua stanza, la fisso al soffitto mediante una trave, salì su di una sedia per poi lasciarsi pesantemente andare, negli ultimi istanti della sua miseranda vita Totila non aveva nemmeno il tempo per pensare, pochè nella sua testa ancora incalzava quella tetra e assordante cantilena.
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Vomit intanto affilava un largo coltello, meditava ossessivamente sulla morte di Blakky, sul come aggredirlo. Vomit era troppo fragile per il nerboruto e cattivo Blakky, ma questo rendeva ancora più affascinante il duello di cui egli solo era a conoscenza, mosso da propositi di conservazione circa il suo ordine ermetico.
Ancora il telefono violò i bagliori della sua lama, era Splash, riferiva la fosca notizia della morte di Totila.
“Abbiamo perso il miglior cantante sulla piazza!” disse il malinconico Vomit.
“Lo sapevo che sarebbe finito così, era sempre depresso, per me è tutta colpa delle donne.” Ribattè il misogino Splash.
Fango intanto, ignaro dei fatti poiché ritiratosi in campagna per suonare da solo, maturava la decisione di bucarsi.
Si era procurato tutto l’occorrente, era tempo che portava in grembo questo letifero proposito.
Era solo, nelle sconfinate campagne inghiottite dalla tenebra.
Ma prima che potesse sollevarsi le maniche un’orda di pipistrelli invase la campagna, l’uomo dagli occhi verdi e dai lunghi capelli si avvicinava da dietro il macabro stormo come fosse una Faustiana visione.
“Chi cazzo sei? Sei uno sbirro? Stai lontano stronzo!” ringhiò Fango, era patetico, aveva una fottuta paura ed era così ubriaco da potersi a malapena reggere in piedi.
Dalla bocca della vampirica presenza s’eressero le parole più musicali e profonde che egli avesse mai potuto udire.
“Vieni qui!” disse l’uomo.
Fango s’alzò e andò verso di lui piangendo, colui che gli stava d’innanzi spezzò quella maliarda seduzione generatrice d’impotenza che aveva magicamente generato squarciando la gola di Fango coi denti, lasciandone in terra il prosciugato corpo senza vita.
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Blakky picchiava sulla sua batteria, era veloce come un fulmine e cattivo come un tuono, quando Blakky suonava assumeva un’ aria sovrannaturale, appariva come un’inviolabile demone che esplicava la sua furia inumana sui tamburi attraverso una marcia di eccelsa violenza.
D’un tratto la finestra fu sfondata, una busta nera rotolava subito dopo sul pavimento portando un cupo messaggio di minaccia che eccitò il batterista desideroso di sangue.
Blakky depose le sue bacchette e si accinse ad aprire curioso la busta di plastica, si aspettava un gatto morto o qualcosa del genere mandato da qualche satanista da strapazzo appartenente a chissà quale invidioso gruppo rivale, forse qualche setta finalmente voleva iniziarlo a cose più serie.
Ma dentro alla busta c’era la testa marcescente di Fango, Blakky rise per nulla turbato dalla morte dell’amico, incapace di provare dolore si leccò le labbra.
“Bello scherzo, davvero di ottimo gusto.” Estrasse il suo coltello e con occhi maligni si guardò in torno con sospetto ghignando malignamente contento.
“ Ma adesso vieni fuori coglione, ti farò divertire.”
Una mano ornata di lunghi artigli gli si avvinghiò velocemente alle ossa delle spalle come fosse stata un serpente fuoriuscito dalla tenebra.
Blakky fu brutalmente sollevato dall’uomo dagli occhi verdi che aveva gli artigli ancora saldamente serrati.
Questa volta il terrore imperava sul volto di Blakky.
“Chi cazzo sei, che vuoi da me? Non c’entro niente con le minacce al Sacro Dentice, non sei uno di loro vero? Volevo solo che mi prendessero con loro.”
“Io sono il Barone.” Disse l’uomo, poi stacco’ via il braccio sinistro dal tronco di Blakky con la sola forza di una mano, con esso lo percosse senza ritegno alcuno.
Blakky moriva, ucciso dal suo stesso braccio.
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Splash era nella sua stanza e si masturbava pensando al corpo morto di sua sorella. Terminata la frenetica operazione decise di andare a farsi un giro.
Le strade erano deserte, solo i lampioni proiettavano deboli spettri di solitudine austera.
Ma improvvisamente una bellissima donna attraversò la strada, benevola gli si parò innanzi fissandolo con insistenza con i suoi verdi occhi riverberanti splendida ipnosi.
Lentamente la donna si avvicinò, tutti i sogni di splash si stavano realizzando, infatti la donna silente gli prese la mano e lo condusse con se verso quel cimitero che tanto a Splash era familiare. Quell’accadimento era così magico, così onirico, quella donna sembrava provenire da poetiche regioni di tenebra.
Ella si distese sulla fredda pietra di una lapide e aprì le gambe.
Splash si avvicinò ma la donna cominciò a mutare, divenne il carnefice dei suoi amici, che gli afferrò la testa e lo schiaccio con la faccia contro la lapide.
“Leggi, leggi cosa c’è scritto verme!”
Le parole erano più che familiari: Byron Raven- 1807-1839- diverrò il tormento di chi violerà il mio placido sonno.”
L’uomo sodomizzò Splash che piangeva dal dolore, ma trovò il coraggio di pronunciare le seguenti, estreme parole:
“Avresti potuto uccidermi nella forma di prima, avresti potuto farti dare un paio di colpetti troia mutaforma di merda.”
Splash non si rendeva conto mai di un cazzo di niente.
Il Barone gli strappò il cuore, gli estirpò il pene e lo depose delicatamente tra le labbra di Splash, poi si diresse verso l’ultimo del gruppo.
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Vomit dormiva un sonno irrequieto, sognava i suoi amici che si mangiavano a vicenda sulla lapide del tipo a cui avevano fumato le ossa.
Si svegliò di colpo con la fronte madida di sudore, ma quella non era la sua stanza, era buio, non poteva muoversi liberamente.
Gli mancava l’aria a poco a poco.
Si trovava infatti in una bara sotto un metro di terra. Urlò il saccente e filosofico Vomit, urlò fino allo sfinimento.
La sua lapide portava inciso:
Byron Raven- 1807-1839- diverrò il tormento di chi violerà il mio placido sonno.
FINE
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