venerdì 16 dicembre 2011

IL VOLO


Un fiore bianco fluttuava nei grigiori dell’alba, abbandonato alla danza della brezza, evocando delicatezza pacata, eppure maestosa nel suo volteggiare.
Un petalo di quel fiore si staccò da esso, posandosi leggero sul volto dell’uomo che camminava solingo.
Cinta al fianco l’uomo portava una spada; nudo il petto esposto alla fredda brezza. Lungo gli impervi sentieri del monte egli vagava, cercando se stesso nel proprio sangue.
Velati i suoi occhi dal violaceo sfumare di notti insonni, trascorse a udire il suono della notte in quel luogo sinistro, meditando la morte sulle placide note del torrente scrosciante.
Una lugubre bruma circondava il monte mentre il sole nascente si faceva spazio, ma cattive nubi offuscavano il cuore dell’uomo, una grigia tempesta si scatenava nella sua ribollente anima.
Udì il canto degli uccelli, ebbro di solitudine, trascinava se stesso lungo un sentiero che non conduceva all’immensità del mare, ove impetuosi dormono i sogni, ove fertile s'erge la vita e sorge la speme, frenesia di dolci passioni.
Il suo cammino invece portava in alto, sulla cima del monte, in alto verso le stelle, verso l’infinito, l’ignoto del Tutto; il suo cammino conduceva alla morte.

Sedette ad una roccia, era stanco, le sue braccia gelate tremavano, tirò con l’arco una freccia mirando verso un punto lontano, il dardo si scagliò saettando verso il cielo, smarrendosi nell’immenso, turchese abbraccio del mattino appena sorto.
L’uomo sorrise e si rialzò, muovendosi lento verso il silente picco, la notte prima aveva parlato col fuoco, si era immerso nei sussurri delle fate, che già dal crepuscolo lo avevano persuaso al suicidio.
Aveva purificato il proprio spirito in quella notte, allontanato da sé ogni demone della sua antica pazzia, ogni macabro sussurro capace di offuscare la sua mente.

Giunse presso un tempio imperioso, severo il crocefisso troneggiava sul tetto, mentre il giardino di quel luogo maestoso cantava di pace e riposo; un morbido giaciglio per le sue stanche membra, un luogo d’esilio dove avrebbe espiato ogni colpa, soffocato ogni desiderio.
Attese dinnanzi all’alto cancello, la brezza lo avvolgeva nuovamente, donando arcani brividi alla sua pelle.
Un monaco lo raggiunse all’ingresso.
“Pax Vobiscum!” Disse il sottile uomo ottenebrato dalla grande stazza del guerriero, che fu subito accolto.
Silenziosi, entrambi, percorsero il giardino ove statue di santi imperavano immote.

Fu condotto nella sua cella, dove avrebbe consumato il proprio esilio, una volta lì, fu nuovamente lasciato solo.
Dopo aver sospirato depose la spada, prima nascosta abilmente agli occhi del servo di Dio, poi giacque sfinito sullo scomodo letto, solo, nel delirio di un sonno dettato dal male.

Erano trascorsi molti giorni nell’isolamento in quella roccaforte tra le montagne, si era fustigato ogni notte con un rosario che aveva aperto rosse piaghe sulla sua schiena, si era cinto di spine; aveva portato di notte, in preda al delirio, un enorme crocefisso sulle spalle.
Aveva ascoltato il silenzio della chiesa notturna, illuminato dal flebile danzare di pallide candele, circondato dallo sguardo dei Santi e dall’enorme, sanguinante Cristo.
Intanto il male gli cresceva dentro, come un’insana prole, affondando di notte nel delirio dei suoi sogni; di nascosto impugnava la sua spada e fendeva l’aria foriera di spettri.

Un monaco bussò un giorno alla sua cella:
“Ti aspettano di sotto!” Furono queste le sue sterili parole.
Scese le scale di marmo, in basso altri monaci lo attendevano al fine di celebrare un rito.
Servile, come mai era stato, egli si inginocchiò dinnanzi al superiore, posò la testa cinta di nero crine sulle sue ginocchia in un atto di totale sottomissione, attua a imitare l’immolazione dello stesso Cristo.
Il suo capo fu rasato, ed era come se le ali di un angelo fossero state tarpate, ora le sue chiome giacevano in terra, ali prive del moto di un tempo, di quando si libravano lucide nell’aria mossa dal vento.

La decadenza si impadroniva di lui ogni giorno, la malinconia di una creatura che si era sepolta viva, rinchiuso in quel sepolcro, schiavo del proprio onore perduto.
Un giorno, molti anni prima, aveva visto una donna pazza danzare alle fiamme guizzanti di un fuoco, quella donna gli aveva insegnato a udire il dolore, aveva aperto il suo cuore fanciullesco al mondo del martirio e quella stessa notte aveva carpito l’ululare dei lupi e il fruscio delle foglie persuaderlo nottetempo a un rituale suicida.
Dormì abbrancato a tali foschi ricordi, un insetto volò nella stanza per poi posarsi sulle lenzuola, un piccolo segno nero, in quella bianca distesa d’angoscia, poi sognò:
Gonfio era il suo ventre , gravido di un’insana progenie, una nera piuma si posò accanto al suo letto, udì un batter d’ali lontano, un’oscura rivelazione.
Si svegliò di colpo, madido di sudore e gelido, fasciato da bianche bende in vita afferrò la spada e uscì nella notte.

Fuggì dal monastero, percorse lo stretto sentiero che lo aveva condotto lì, offuscato da un’ignota forza, ignota malia che lo allontanava dalla vita, conducendolo verso quel cammino  di morte e auto annullamento.
Si chiese quanto immensa fosse la tenebra, si chiese inoltre se la freccia che aveva lanciato si fosse arrestata o se continuasse ancora il suo volo, implacabile e sottile nell’aria, nel tempo, nel tutto.
Giunse ad un precipizio e sospirò, stava albeggiando, nuovamente si innalzava il canto degli uccelli.
Dall’alto del  monastero si udiva il lugubre suono delle campane, il guerriero premette la punta della spada contro il proprio ventre, trafisse la sua anima annegandola nel sangue del di lui sacrificio.
La sua bocca divenne  rubiconda,  percorsa da purpurei rivoli simili a essenza di cinabro, con la spada confitta nel corpo egli si gettò nel vuoto, spalancando le braccia come fossero grandi ali bianche; per un attimo gli sembrò di librarsi in volo, di potersi innalzare come un’aquila e fondersi con le profondità turchesi del cielo, fino a squarciare le nuvole, poi, nell’estasi della morte, si infranse rovinosamente contro le rocce.
Spappolato il suo cadavere giaceva immobile, dolcemente il sangue irrorava la roccia, accanto a lui riposava una freccia, che lì aveva cessato il suo fiero volo.

©Davide Gianncolo

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