giovedì 1 dicembre 2011

L'angelo ubriaco e la gabbia d'oro


Sgraziate forme hai angelicato
Per essere a dio più simile.
Poi sei morto,
in un circolo di applausi che non t’ han  riempito l’ anima.
Uno spazio informe, asimmetrico
Era davanti a te,
molti corpi,
sudati, innumerevoli corpi.
Poi l’ amore s’ è nascosto come solo con te sa far e,
dentro te,
profondamente inabissato,
celato sotto vesti nere e l’oppressione del tuo crine.
Hai legato le tue chiome
e il tuo volto è apparso bianco,
nessuno s’ è voltato e ha visto in te divina luce.
*******
Una  solitudine  morbosa  fluttuava  su  ali  di  lene  silenzio,  scrosciando  nell’aria  come  gelido
disappunto,  posandosi fredda sulla sua pallida fronte.  La notte  non aveva  senso  ormai, era un attesa
delirante  ad  un  nuovo  giorno,  ove  lui  si  sarebbe  mosso  stanco  e  confuso  circa  le  sue  prossime
decisioni sul come abbellire la  vita.
L’angoscia  lo  abbracciava,  donava  bellezza  a  quel  corpo  di  giorno  orribile,  l’alta  figura  era
immobile,  aspettava,  l’attesa  febbrile  di  un  tragico  volo.  Solo  la  morte  l’avrebbe  librato  in  alto,  o
forse.  Chi  vuole  volare  deve  patire  molti  supplizi,  deve  vivere  con  la  consapevolezza  che  soffice
taglia  la pelle come  in  un  soave  bacio.  Il  complesso  universo  l’aveva  baciato, egli  forse  non aveva
mai chiesto  quel  bacio,  non  aveva chiesto  di interrogarsi  sul moto  delle  stelle, sulla  profondità  del
proprio io, sulla follia dell’amore in cui si rifugiavano gli esseri umani. Egli forse voleva solo essere
uno  di  loro,  voleva  scopare  con  mille  donne  diverse,  essere  incapace  di  pensare,  dedicare  i  suoi
giorni ad  abbellire la propria vita di fastosi e profumati eventi.
Ma non poteva, non poteva muoversi con disinvoltura  tra quegli esseri così simili agli insetti, non vi
è niente di  male nell’essere un insetto,  ma  non era colpa sua  se lui era diverso, nel bene  o nel male,
nel vino o nel sangue, nel coltello o nella ferita.
Egli piangeva  sangue  ogni  minuto della sua  vita, come  costretto  ad un  eterno tormento, l’afflizione
lo attanagliava, voleva essere un insetto e nutrirsi  dell’inebriante nettare di quel pianeta  che avrebbe
dovuto bruciare su se stesso, come lui, come il sole.
Ancora  le  dolci  vesti della notte  frusciavano  e  lui inghiottiva  la  sua saliva  malata,  era così passivo
da  disprezzarsi,  si  odiava  così  tanto  da  amarsi  profondamente,  si  amava  così  da  farsi  del  male,  da
provare  solo  selvaggia  furia  e  fragori  vaghi e  interiori  ogni  volta  che  il  mondo  lo  scacciava  da  sé.
“Non vi è un motivo, un motivo per cui io non possa essere un insetto.”
Gli sembrò  di stare per dormire, provò un  triste sollievo, finalmente l’oblio per lui che ormai  viveva
ai margini scoscesi e taglienti del suicidio.

Divine ombre oscurarono la stanza , e lui non seppe se viveva sogno o realtà.
L’effluvio della morte s’innalzava e un corvo comparve, un nero corvo dalle piume striate di sangue
scarlatto.  I  gelidi  artigli  segnarono  la  sua  spalla,  era  piacevole  avere  addosso  l’animale  che  in  un
volo  maestoso  si  era  posato  per  ferire  forse  innocentemente,  come  chi  anche  quando  accarezza
lascia  leggere  scie  di  sangue  dolci  da  ricordare,  dolci  come  una  madonna  decomposta  che  porge
malinconica il suo seno di vermi solcato.
Il corvo  sussurrò all’orecchio  di  lui  incapace  di muoversi:  “L’orso nero non vuole venire  qui per te,
dice che è troppo complesso, ascolta i neri messaggi che porta la notte, vieni tu, giungi sino a noi.”
Alzò gli occhi , aveva dormito due minuti, forse un’eternità.
Non  vi  era  traccia degli  artigli  del corvo,ma  ne sentiva  il dolore bruciante, evocava con malinconia
la reminescenza di quel sussurro gracchiante; voleva volare sulla schiena del corvo, senza esitazione
avrebbe  percorso  con  lui    le  strade  di  sangue  ove  l’avrebbe  condotto,  o  forse  il  rapace  sarebbe
disceso lento in una silente e sacra foresta, e lì un’eterna pace li avrebbe cullati.
Forse  il becco  del  corvo avrebbe spaccato il suo petto, anche questa supposizione era valutata come
affascinante,  come  una  goccia  ch e  avrebbe  mosso    le  immote,  eterne  acque  della  sua  inerzia,
l’immensità del suo nulla spirituale.
Si destò, tossiva  ripetutamente, si  vestì di  sporchi   e sgualciti abiti neri che  il  tempo aveva  sfumato
in un tono cupo e privo di vita.
Ultimamente  maturava  un’ossessione,  era  ubriaco  nella  pioggia  che  flagellava  il  suo volto  quando
tutto  ebbe  inizio  e  la  vide,  nonostante  l’oscurità  essa  sorgeva  maestosa,  la  sua  luminescenza

penetrava la tenebra, sembrava stagliarsi  al di là dell’universo stesso: una titanica gabbia d’oro.
Quella  notte  non  voleva  divenire  un  insetto,da  quella  notte  la  tristezza  si  sedette  sul  suo  grembo;
non  poteva  essere  sereno  sapendo  dell’esistenza  di  quella  gabbia  d’oro  che  imprigionava    nel  suo
abissale ventre il moto dei pianeti, che lo attraeva come una falena con la luce.
Sentì  ancora una  sensazione, come se  un’enorme mantello  si chiudesse su di  lui, un suono simile al
fruscio delle foglie si eresse nel silenzio, presto il fruscio divenne verbo:
“Sono  tutti  morti,  è  per  questo  che  non  odi  più  il  canto  degli  orsi,  il  loro  ruggito  forse  non  potrà
divenire le tue ali, vieni ugualmente!”
Egli era sul pavimento, sconvolto si interrogò madido di sudore:
“E’ un richiamo? E’ come la gabbia? Ma sono dissimili, se solo riuscissi a valicare la gabbia.”
Nello  stesso istante in  cui  formulò  la  domanda a  se  stesso  bussarono  alla porta;  chi  era? Era solo da
anni lentissimi.
Non  voleva  aprire  quella  porta,  qualunque  contatto  con  il  mondo  esterno  era  vano,  un  empio
progresso d ella gabbia d’oro.  Ma il suono  del  campanello era così dolce e ammaliante  che alla fine
egli si  decise, si  guardò nell’opaco specchio,  era stravolto,  al  di  là  di  esso  vide una  terra di immoto
dolore, la terra degli angeli consapevoli e prigionieri, il luogo da dove forse anch’egli proveniva.
Aprì  la  porta  e  osservò  la  magrissima  figura    che  attendeva  sull’uscio,  era  una  donna  dal  petto
scarno e  il viso malato, ella  stessa latrice   di fosca malattia, dagli occhi di quella  donna   si scorgeva
che la malattia era la su a stessa vita.
“Posso entrare?” Chiese lei in un lamento languido .
“Perché mai? Chi sei? Cosa cerchi qui?”
Lei sorrise e in quell’istante sembrò una bambina,  una pallida bambina malata di tossicodipendenza.
“I  miei  piedi  mi  hanno  portata  fin  qui,  tu   sei  l’oggetto  d ella  mia  visione,  ho  compiuto  un  viaggio
fatto di allucinazioni e so che tu cerchi qualcosa, qualcosa  ch e io non riesco a comprendere, ma io
conosco la via sulla quale tu f arai scorrere i tuoi evanescenti passi. Io voglio mostrartela per aiutarti,
non chiedermi il perché, è la chimica mescolata al mio sangue che me lo comanda”.
Egli ascoltava, triste dinnanzi a lei, quegli occhi erano smarriti proprio come i suoi, sembravano due
fanciulli cresciuti male, abbandonati al nulla incomprensibile.
Mentre  lei  parlava,  improvvisamente,  lo  baciò,  un  bacio  breve  che  fu  per  lui  un  sorso  di  ignota
magia, una magia malata, alienante.

Si  guardarono  negli  occhi  ,  lo  sguardo  di  lei  era  umido  e  profondo,  profanava  la  mente  di  lui  che
non voleva parlare per primo.
“Sono  sicuro”  in  fine  disse  lui  “che  ora  mi  dirai  qualcosa  di  difficile,  mi  dirai  che  la  via  per  la
gabbia d’oro è il sole e  che io dovrò bruciare le mie membra e le mie  ossa scagliandomi  ci contro, e
poi, come arrivare fino al sole?”
“Shhhhh”. Disse  lei carezzandolo  dolcemente,  lui  non era eccitato, anche  lei sembrava  non esserlo,
quelle due creature trascendevano ciò che realmente sembravano essere, per un oscuro motivo erano
mascherate da  quell’apparenza,  i loro volti, le loro forme sembravano avere  luogo altrove, ed  erano
proiettate in quella diroccata stanza per un folle, inutile proposito.
I loro corpi s’unirono nudi, s’amarono passivamente, profondamente lenti in una triste danza.
Lei  aveva  le  braccia  esili,  livide  e  martoriate  dai  buchi,  ma  baciava  trasportata  da  un  tiepido
languore  la  rossa  bocca  di  lui  attonito,  che  si  lasciava  andare  con  goffa  ed  ebete  innocenza.
Sembrava un angelo spastico che s’univa carnalmente alla sua controparte.
Il magrissimo corpo di lei ora era fermo, stavano per dormire quando lui le chiese:
“Allora? Come sai della gabbia d’oro?”
“Di che  cazzo parli? Io non ho mai visto nessuna gabbia d’oro ”.
“ Sei stata tu a dirmi……”
“Io ho detto solo che  conosco la via, solo questo.”
“Dov’è, dimmi dov’è! ”
“E’ a Portici, a questo indirizzo……” e gli porse un biglietto.
“Portici?  Pazza!”  Si  alzò  dal  letto  sfondato  e  la  prese  per  mano,  voleva  scacciarla  ma  non  poteva
fare  a meno di stringerla  a sé,  la  trascinò di  nuovo a  letto e fecero l’amore, si  unirono per  due notti,
due  notti  ove  il  corvo  volava  in  cerchi  sull’edificio,  due  notti  ove  il  ruggito  dell’orso  pulsava  nel
sangue di entrambi.
“Sto male”. Disse lei, era mezzogiorno, il sole cercava di irrompere e investire i loro corpi nudi.
“Sento  che sto  per fare il mio ultimo viaggio, sento già dolci le piume della morte carezzarmi, dove
finirà il  mio  smarrito  e tremante  passo?”  Lui  era  confuso,  quella  donna  era  molto  strana,  e  lui  non
sapeva  neanche  come chiamarla, era giunta  come  una visione,  forse lo era realmente, ma il  reale  si
confondeva in indistinte sfumature in quella stanza.
Cercò  di aiutarla,  tentare di  annichilire quel fosco  presagio  che sembrava inquietarla, la baciò, fu  la
cosa che irruppe per prima, il primo suo pensiero di soccorso.
La baciò ed ella era gelida,  ancora più pallida sospirava febbricitante, tremava fragile e tragica  negli
spasmi  di  un’oscura  malattia,  lui  pianse  e  le  tirò  indietro  i  capelli  sudati,  bevve  le  sue  lacrime
mentre  quel  petto  scarno  ansimava  gli  ultimi,  surreali  soffi  di  quell’enigmatico  incontro.
Dolcemente  ella  morì,  e  la  sofferenza  malarica  che  dipingeva  quel  volto  si  levò  nell’aria
dell’opprimente mattino lasciando spazio ad un’esangue espressione,
ella era  cadavere,
fredde lacrime,
i fiori bianchi sul volto del cadavere.
“Vivi  ti  prego”  disse  lui  lacrimante,  pur  sentendosi  in  colpa  poiché  non  riusciva  a  provare  reale
dolore per quella creatura morta in agonia nel suo letto.
“Non morir e mai”  poggiò la di lei testa inerte sul cuscino e la  osservò  silente, la osservò per lunghe
ore nell’ombra  e nel silenzio.
Bevve  tantissimo.  Si  trascinava  per  la  città  che  si  stagliava  in  alto  per  poi  incombere  su  di  lui,  il
male  era  nella  sua  bocca,  nei  suoi  occhi, nel suo  dolore.  Era  pomeriggio,  un soporifero pomeriggio
deserto, il sole incombeva, e lui era solo, solo e senza senso.

Il corpo  esamine di quella donna era ancora nel suo letto, forse  ci sarebbe rimasto per  sempre, come
un’ombra ch e aleggia  fluttuante nella debole luce dell’eternità.
Barcollò  fino  all’indirizzo  mosso  dall’ignoto,  nell’assurdo  orbitava  inerme,  volteggiava  trascinato
da esso come un a foglia lambita dal vento.
Un vecchio casermone cadente era il posto che lei gli  aveva indicato, antichi spiriti erano appollaiati
eterei  come l’angoscia  sull’imponente edificio,  la  tristezza del tempo  lo  incrostava come  lacrime  di
sangue  rappreso,  una  fosca  atmosfera  s’ergeva  morbosa  come  una  donna  folle  e  altera,  decadente,
ornata sontuosamente da un maestoso squallore.
Valicò l’alto  portone,  era  umido  dentro,  tutto  veniva  cinto  con  cupa  leggiadria dalla  penombra, u n
effluvio  acre  di  cibo  lo  investì,  si  udivano  delle  voci  confuse,  lontane,  che  sapeva  non  gli
appartenevano.
Salì  le  scale,   una  magica  angoscia  gli  opprimeva  il  petto,  un  profondo  senso  di  solitudine;  quel
luogo sembrava morto, nemmeno il fruscio del moto soffiava sul suo volto.
Un  nano  uscì  da  un  buco  nel  muro,  i  suoi  vestimenti  erano  laceri,  sembrava  atrocemente  crudele,
appariva  come  un  male  grottesco  che  sbuca  dal  nulla,  sorrideva  nella  sporcizia  di  quel  luogo
diroccato.
“Vieni, vieni qui eh eh  eh…vieni, vieni”.
Lui  andò, più si  avvicinava e  più  scorgeva  l’assurdità di quell’essere,  il  senso  di  sconforto  che  egli
emanava  dal  suo  sudicio   buco,  furono  l’uno  di  fronte  all’altro,  quell’essere  sembrava  irreale  nella
sua estrema, viscida consistenza; aveva paura di lui, o forse si sentiva solo smarrito.
“Vieni,  entra d entro”  e  in  questa  espressione  il  nano  era  stato  rassicurante  e  gentile,  come  se  quel
buco fosse stato una sontuosa dimora.
Sparì  all’interno  ed  egli  lo  seguì  poco  dopo,  sentiva  di  star  penetrando  qualcosa  d’ignoto,  quel
luogo era al di la della realtà,  l’unico principio che lo accostava saldo alla  fisicità era lo squallore, il
resto non aveva luogo: odori, sentimenti, temperatura e atmosfere a lui sconosciute lo investivano in
quella  buia  latebra  ove  non  scorgeva  il  nano  ne  né  udiva  la  presenza.  Forse  quella  era  la  stasi,
quell’istante di tenebra  che ci squarcia nel momento in cui decidiamo.
“Vuoi  farti  una  sega  ragazzo?  Sei  un  rompipalle,  credi  che  sia  facile  prendermi  a  pugni,  brutto
stronzo, brutto stronzo, brutto stronzo…”
Udiva  il  nano  lontano  nel buio, la  sua  voce  era un  eco  arcigno,  ignorava  quella  voce, essa  passava
su di lui come una soffice nube di fumo.
“Dove sono le mie ali” .  Pensava.
“Testa,  testa,  testa  di  cazzo,  ti  sparo  se  non  ti  muovi,  giuro  ch e  ti  sparo,  ti  sparo  nelle  palle  e  la
finisci  di  fare  il  talebano  terrorista  con  la  barba,  ti  sparo  e  ti  massacro,  ti  odio  stronzo,  stronzo,
vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo.”
Il  nano  continuava  con  il  suo  folle  monologo,  la  nube  di  fumo  delle  sue  parole  prendeva
consistenza, cominciava a infastidire la sua  passività, era armoniosamente atroce  e  costante  nel  suo
innalzarsi come il ronzio di uno strumento elettrico, il lamento dell’opaca follia umana, le ali.
Finalmente vide il  nano  nel  buio,  restarono  immobili,  poi il  nano  disse: “Tu  stai  cercando  qualcosa
che va al di la di una scopata  con le troie che stanno qui, magari anche quello  ma a te serve un’altra
cosa, una cosa  che  solo io ho, che ti  fa passare la voglia di sgropparti quelle negre, io  te la darò  ma
tu dovrai fare una cosa per me.”
“Cosa?” Disse lui.
“Dovrai uccidermi, ah  ah” e la sua risata rimbombò sulle umide mura.
Il  piccoletto  cominciò  a  correre  in  cerchio  ridendo ancora,  in  modo  sguaiato,  disgustoso.  Poi  lui lo
afferrò e lo sollevò, vinse  la paura, quel nano era un coglione,  non poteva opporgli  molta resistenza,
ma era reale?
“Mi hai rotto le palle nano, io sono un tipo paziente, ma non sto capendo molto…”
Il  nano  rideva  ancora,  e  lui  seppe  che  non  c’era  niente  da  comprender e,  nulla  da  svelare,  non
avrebbe ucciso quel nano perché quella bizzarra recita voleva trarlo in inganno, come al solito.

Lasciò cadere  il  nano  e tornò  sui  suoi  passi, lo  sentì  bestemmiare  lontano,  contorcersi  nella  rabbia
che  s’incarnava  nella  sua  piccola  figura:  “La  società  ti  riaccoglierà,  la  società  è  fatta  di  coglioni,
festeggeranno anche il tuo ritorno coglione ah ah ah”
Uscì  dal  buco  e  fu  invaso  ancora    dal  silenzio  del  vecchio  palazzo,  il  verbo  taceva,  i  pensieri
svanivano, solo morbide e lente immagini.
Una  meretrice  silenziosa  gli  si  avvicinava,  sbucata  da  un  corridoio,  flemmatica,  mistica  come  una
visione  d’assenzio,  surreale  come  un tragico  fantasma.  Paralizzato  era  ogni  suono,  silente  anche  il
buco  nel  muro,  nulla si  muoveva di quelle oscure  forme, nulla  tranne il  letargico respiro  della    vita
che muore e che  dunque è  più  viva  nell’avvicinarsi alla morte. L’aria sembrava fluida,  fatata come
l’angelo della non esistenza, l’angelo della malattia.
La  donna  lo  toccò, era  fredda  e  i  palmi  delle sue mani  erano  lisci  come il  marmo, neri e profondi i
suoi  occhi,  di  cenere  la  sua  pelle.  Lo  condusse  in  alto  per  le  scale  ancora  in  penombra,  l’edificio
restava  immutabile,  il  silenzio  vagava  per  quei  corridoi  come  un  fantasma  e  lungo  la  ringhiera
compiva  la  sua  danza  incessante.  Erano  in  un’ampia  stanza  diroccata  e  sudicia,  la  luce  penetrava
opaca,   sporca,  il  pavimento  era  rivestito  da  un  sontuoso  tappeto  di  rifiuti,  alcuni  colombi
svolazzavano  inquietanti  intorno.  Il  silenzio  era  infranto  ma  entrambi  ancora  tacevano,  la  donna
sembrava  straniera,  lo  sguardo  zingaro  era  eloquente,  comprensivo,  lo  avviluppava  con  la  sua
languida  dolcezza.  Il  silenzio  di quella donna  ergeva un a  sorta  di  oscuro,  inscindibile  fascino,  egli
l’amò in un  cosmico  istante,  l’amò  mediante lo sguardo che  avvolse  lo  sguardo  di  lei,  ed  entrambi
gli  sguardi  umidi  e  malinconici  volteggiarono  in  alto,  oltre  il  soffitto  sgretolato,  in  alto  ove
dimorano gli angeli.
Poi senza  toccarsi,  senza che  egli bramasse  le sue  forme coperte si allontanò  da  lei,  non riusciva  a
provare  una  carnale  eccitazione,  non  riusciva  a  comprendere  l’alchimia  di  quella  sensualità.
L’accarezzò  dolcemente  ed  ella  sorrise,  come  faceva  a  non  temerlo?  Come  poteva?  Poi  la  baciò
sulla fronte……e si gettò dalla finestra.
Cadde di lato e si lussò una spalla, provò  sollievo nel  sentire il dolore  che si  diramava in tutto il suo
corpo  come  un  cancro,  schegge  di  vetro   lo  ricoprivano  facendolo sanguinare  dolcemente.  Si  voltò
sulla  schiena  assaporando  il  patetico  abbandono  di  quella  situazione,  guardò  verso  il  cielo  con  lo
sguardo  annebbiato  dal  sangue,  l’angoscia  lo  oppresse,  al  di  là  del  cielo  vi  erano  ancora  quelle
sbarre d’oro, egli le vedeva, le scorgeva brillare in una tetra luminescenza.
Poi sentì delle  gocce  sul   volto,  pensò fosse quella  meretrice che piangeva sul suo corpo scempiato,
ma era la pioggia, la pioggia che cadeva abbondante mescendosi al suo sangue.
Quando  rinvenì  era  sera,  la  pioggia  scrosciava  flebile  inzuppando  il  suo  dolorante  corpo,  tentò  di
muoversi  ma  era  assalito  da  fitte  lancinanti,  l’aria  penetrò  gelida  nel  suo  petto  come  una  nube  di
evanescenti  rasoi  e  lo  squarciò  dall’interno,  tossì  lungamente,  contorto  nella  sua  drammatica
impotenza,  tossì  sino  a  sputare  sangue,  provando  tragico  dolore.  La  pioggia  si  mescolava  alla  sua
agonia carezzandolo incessantemente, donandogli  brividi gelidi;  sembrava che  quella stessa pioggia
volesse  scioglierlo  sull’asfalto.  Riuscì  a  strisciare  per qualche metro,  rientrò nel  palazzo  ancora più
buio, tremendamente silenzioso  come un cimitero senza croci, sperava  che  quella puttana  tornasse a
curarlo  coi  suoi  baci,  ma  sapeva  che  poi si sarebbe  lanciato  ancora,  in  un  ciclo  inguaribile  di  volo
discendente.
Ora che era al coperto e la pioggia schizzava al di  là del portone aperto sentiva ancora più  freddo, la
polvere gli si era appiccicata addosso,  era penetrata nelle sue ferite mescolandosi al sangue.
Era  rannicchiato  e sudicio,  tremante  tossiva  in  spasmi  d’agonia,  zuppo  e  moribondo, eppure  udiva
la pioggia fuori scrosciare, la udiva confusa invaderlo in un armonico fragore ch e riecheggiava nella
sua mente, il suo sguardo  si annebbiò, e  provò un languido  torpore  che sapeva sarebbe durato poco,
come una carezza  d’hashish,  udiva  la  pioggia,  sentiva  il dolore,  ma  non  vedeva  più  nulla: la  cecità
del volo discendente, la furia elegante che ottenebra la furia selvaggia.
“L’orso nero sta venendo a prenderti, odi il battito delle mie ali chiamarti in  dolce musica?”

Era buio, ed egli si alzò, non seppe per ché, non seppe cosa cercava d a quell’agonia.


Barcollava  ubriaco  di  dolore,  annaspava sulle  scale polverose  strisciandovi  come un  verme  sagace.


Giunse al buco ove  aveva avuto  il colloquio con il nano, per terra vi era una bottiglia  di vino  bianco


piena per metà, con  le mani  spaccate e doloranti l’afferrò,  con  flebile forza, la  scolò  mentre  l’alcol


gli  bruciava  le  labbra  e  la  gola  per  poi  infrangersi  con  subdolo  impeto  all’altezza  del  suo  petto


spaccato.


“Nano,  nano  di  merda  esci  fuori,  farò  come  vuoi,  ti  ucciderò.”  Il  silenzio  regnava  vetusto,  solo  la


pioggia  si  udiva,  l’orso  e  il  corvo  giungevano  a  prenderlo,  questo  lo  rendeva  felice,  ma  voleva


valicare la  gabbia  d’oro,  voleva  volare al  di  là  di  essa.  Entrò nel  buco  e  tossì  ancora  a  causa  della


polvere,  sentiva  il  sangue  impastargli  la  gola,  era  buio,  fitto  e  impenetrabile,  buio  che  era  ansia,


ansia nociva al sinuoso retrogusto di fluoxetina cloridrato.


“Nano” urlò sputando sangue, e il grottesco  esser e spuntò da un pendio di rifiuti, sardonico  e cattivo


come sempre:  “Sei tornato strano coglione, cosa vuoi?”


Egli afferrò una pietra tagliente  e  l’appoggiò sulla  fronte,  la  fece  scorrere  verticalmente  lungo tutto


il suo volto, poi sussurrò: “Voglio la via, ti ucciderò.”


Abbrancò il nano e lo violentò di colpi confusi e imprecisi, il nano rideva, rideva implacabile.


Afferrò  una  pietra  più  grossa  e  schiacciò  quella  piccola  testa,  il  nano  morì  rivelando  il  segreto:


eloquente  vi  era  nella  su a  mano  destra  una  siringa  di  eroina,  lui  la  prese  e  il  suo  corpo  dimenticò


ogni  dolore,  la  sua  mente  sulle  ali  di  una  sbiadita  coscienza  guidò  la  mano  verso  la  vena,  la  vena


che  era la  sua unica  via  verso un  sentiero  introspettivo, lui  era  l’eroina  che  percorreva  un  fiume  di


sangue che era la  sua vita, quel fiume che non poteva avere esistenza in altro luogo se non dentro di


lui; la sua vena era la fosca strada.


Si iniettò il vivo liquido  ebbro di  una mistica estasi, il suo corpo  svanì, volteggiando evanescente in


un’abbagliante  cortina  di  luce, fluttuando nel  surreale  scenario della sua  esistenza. Vedeva la  città,


la terra, l’universo rimpicciolirsi, scomporsi, sfumare sotto il suo volo.


La gabbia d’oro si avvicinava, la scorgeva in tutto il suo virulento bagliore, lo abbagliava di febbrile

trepidanza.  Fu  a  pochi  centimetri  da  essa,   stava  per  toccarla,  sentì  di  stare  per  sfiorarla  in  un


morbido,  frusciante  tocco,  ma  di  colpo  cadde.   Cadde  ancora  nel  buio  senza  appiglio  alcuno,


precipitò in basso come un angelo, un angelo in un  volo discendente.


“L’orso nero sta venendo a prenderti”.

©Davide Giannicolo

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