Nei Balcani vi era la foglia di cristallo che Minè, assetata cercava, il suo obi bianco era stretto ai fianchi opulenti sui quali mai uomo alcuno aveva posato il tocco.
Attraverso le boscose foreste ella cercava, e i suoi occhi di mirabile lucore si imprimevano del chiarore delle foglie, come fossero stati di vetro specchiavano i silenti fruscii.
D’un tratto, lenta come una fiera tra gli alberi comparve una figura, alta e bruna la forma dell’uomo si stagliava ormai ferma a tredici passi da Minè.
L’uomo del Sud si fece avanti, cercava la piuma impressa nel ventre di lei.
Così Minè strinse le dita d’angelo lungo l’elsa dell’avvelenato pugnale, era quell’uomo che possedeva la foglia diafana della sua purezza.
Ma egli sorrideva, a petto nudo e magro dell’agilità d’un puma.
Minè abbrancava d’innanzi alla primitiva seduzione, sentiva fremere intorno ai fianchi la seta carnalmente maliarda del suo kimono, come fosse lama quel fruscio le incideva le anche di desiderio.
Quel lungo viaggio l’aveva fiaccata, la sua imperiale pelle di pesca d’un delicato nitore aristocratico era ora sporca e graffiata.
All’avanzare dell’uomo il suo corpo s’arrestò, d’ansia s’accese il suo ventre e sarebbe bastato un solo tocco di lui per far sì che la mente di lei svanisse come lo spettro soffuso della luna sull’acqua.
D’un tratto però, schizzi di un rosso purpureo le colorarono il volto, era stato come un loto che lacrima carezzato dalla brezza, l’uomo scuro che le si stava avvicinando era stato orribilmente trafitto.
Quando il suo corpo cadde fragrante sul manto di foglie, allora comparve l’uomo baciato dall’orso che Minè aveva visto in sogno molte volte, colui che brandiva la piuma del corvo e cantava con la voce delle foglie.
D’innanzi a lui Minè cadde in ginocchio, il suo primitivo sentore languido di masturbazione mutò, mutò senza però abbandonare l’esercitare d’una ignota, funesta seduzione.
Quando gli occhi di Minè si specchiarono scuri come il tronco del ciliegio negli arcani bagliori di profondissimo verde boscoso degli occhi di lui ella fu ammantata da una sensuale, truce visione:
Bianco il suo corpo era legato ad un albero, le catene stringevano immergendosi vampire nella morbidissima carne e in deboli rivoli il sangue scorreva abbeverando le foglie.
La bocca, in tragico languore soavemente s’apriva in un lene schiocco di fascinosa sofferenza.
Le catene ai seni le si avvinghiavano come gelide serpi, offuscata ella era in balia di quella duplice visione, attratta e respinta dalla voluttà di quel desiderio, l’impotenza fascinosa di pendere alla catena che strusciava lasciva al culmine del peccato contro il suo sesso.
Minè stava bruciando nella sua stessa carne di cigno.
Quando aprì gli occhi e si risvegliò dalla trance osservò l’uomo venuto per secondo che continuava a fissarla, muto egli estrasse la foglia di cristallo e la porse a Minè, come una bimba ella pianse e si gettò alle ginocchia dell’uomo:
“Grazie guerriero, grazie!”
“Hai attraversato un lungo viaggio alla ricerca della tua purezza ed io ho chetato il tuo fuoco, ricorda Minè, il giorno in cui infrangerai il tuo limpido cristallo sarai solo carne infilzata da ami da pesca.”
“Chi sei?” Chiese Minè quando l’uomo già stava svanendo tra gli alberi lasciando il cadavere dell’altro alla realtà incomparabile della forza dei boschi.
“Sei l’uomo del sogno che cavalca l’orso nottetempo non è vero? Sei il fruscio delle ali del corvo!”
Una foglia raminga cadeva fluttuante in risposta al quesito della donna, quanto era sensibile e sacra la dolce Minè.
©Davide Giannicolo
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