giovedì 1 dicembre 2011

Musa

katsuni

“Se tendi a dissociarti diventerai il nulla”.
Così mi aveva detto la stupida al telefono, forse volevo diventarlo sul serio, ci ho spesso pensato, ricordando che alla fine ero riconducibile alla mediocrità umana anch’io, nonostante tentassi di tenerlo nascosto agli altri con gli inutili ornamenti della mia profondità.
Volevo farle credere, a lei come agli altri, che il mio genio fosse in continua evoluzione, mentre in realtà pagavo a caro prezzo la mia arte, sarei divenuto un genio solo se avessi definitivamente stretto un patto, rinunciando all’amore, al mondo e alla vita stessa.
A quei tempi questa consapevolezza era inconscia, anche se percepivo il desiderio della mia arte di divorare il mio senno, questo mi affascinava, e quando me ne resi conto in maniera più tangibile non seppi abbandonare il mostro impulsivo della mia fantasia.
Le mie muse erano morte, restavo solo e febbricitante nella mia sterile, ottusa prosa, ormai non attendevo più muse, bensì un moto che muovesse la mia penna morente, capace di innalzarmi da quel continente di nulla che sprigionava null’altro che impotenza.
Fu allora che giunse, in piena notte. L’invadente trillo del telefono spezzò il mio monotono ripetere a me stesso:
“Non potrò dormire, non potrò dormire mai più!”
Quando alzai il telefono udii una voce di donna che subito mi disse maliarda:
“E’triste lo sfumare delle cose, il fascino del torpore ieratico che provavi ora infranto; nemmeno il piacere che ricavavi dalla tua languida, apatica sofferenza ora ti rasserena!”
“Chi sei?” Dissi incuriosito.
“Verrò da te questa notte, una visita breve, e ti porterò un mio verso.” Dicendo questo riagganciò.
Ritornò il silenzio ad accarezzarmi la fronte come una presenza laida e perversa, faceva caldo, mi sentivo intrappolato in una pellicola di sudore.
Chi era quella donna non lo avevo capito, erano le tre del mattino, e sentii l’improvviso impulso di scrivere:

Cala la bruma,
nudi passi,
solo
t’attendo
dal gelo ghermito,
e quando sorgerà il sole
io sarò morto.

Quando terminai l’ultima frase squillò nuovamente il telefono.
“Pronto..”
“Allora? Ti piace?”
“La mia poesia.”
“Quale poesia? Ma tu chi diavolo sei?”
Era la voce calda e sinuosa di prima, ma a quella domanda di nuovo il silenzio nel mio petto spalancava le ali taglienti.

Quando mi ridestai il giorno dopo, sentii la sensazione di un triste evento, una sorta di gelo, apatico e subdolo strisciava in me suggendo frammenti d’anima.
Rilessi i versi che avevo scritto, cosa significava quella poesia? Eppure l’avevo scritta io.
Il telefonò trillò ancora scuotendomi, alzai la cornetta senza parlare.
“Puoi passare da me? Ho litigato coi miei, non vogliono che mi rifaccia le tette.”
Era la mia migliore amica, con o senza tette rifatte sembrava restia a curarmi con esse, ma con lei dovevo essere lucido, vivo, non dovevo lasciar trasparire alcun segno della mia alienazione. Così alla fine andai da lei; quando la vidi non provai null’altro che un impeto di tristezza, depressa e fottuta dal culto di una lontana Barcellona pensava compiaciuta alla sua illusoria bellezza, fragile come il suo pensiero, come i suoi sogni, come ogni venustà.
“Questa notte una donna mi ha chiamato dicendomi che mi avrebbe scritto dei versi, quando ha attaccato ho cominciato a scrivere, lei ha richiamato ed è stato come se avesse voluto dirmi che quello che aveva scritto era suo.”
“Forse è vero, forse è la tua musa che ti scuote.”
A quelle parole mi assalì un sospetto.
“Non è che sei tu che ti diverti con questi scherzi del cazzo? Sicura che non ne sai niente?”
“Non sai quanti ragazzi mi stanno dietro negli ultimi tempi.” Disse lei con occhi trasognati.
“E questo adesso cosa c’entrerebbe?”
“Con cosa?”
“Vaffanculo!”

Tornai a casa e dovetti ancora star sveglio, insonne, stanco, malato di nulla, un nulla che stringeva alla gola asfissiandomi.
Sul tavolo della mia cucina giaceva una lettera, la aprii avidamente strappando la busta e lessi, i caratteri erano scritti con la mia esatta calligrafia:
Ecco il mio suicidio,
posto a voi come sacro monumento,
di lacrime scolpito,
dal sangue modellato.
Ecco l’armonia del mio corpo
pendere alla corda.
Quelle parole si fusero alla mia mente, quando le avevo scritte? O meglio, chi le aveva scritte?
Ma ancora il telefono fendette la notte:
“Dolce, piccolo poeta, sei proprio fortunato ad avere una musa come me, visto che splendore?”
“Senti, ma perché non vieni qui?”
“Ma perché io sono già qui sciocchino, tutto ciò che hai creato, tutto quello che credi ti differenzi dalla natura umana è opera mia, io sono la tua arte!”
Rise di una risata smorfiosa ma attraente, e io restai con in mano la cornetta e gli occhi spalancati ad ascoltare la conversazione ormai interrotta, dopo qualche minuto attaccai anch’io, sordo ormai ad ogni percezione.
Trascorsi l’intera notte a pensare, e se fosse vero? Se nulla di ciò che ho creato fosse di reale mio pugno?
L’indomani, all’alba, dopo una pensierosa notte insonne, bruciai tutti i miei scritti, un fuoco morboso che s’innalzava al cielo.

Erano tre mesi che bevevo più di sempre, immobile nel letto depressivo, sudato, ansimante, non dormivo mai e mangiavo nicotina.
“Piccolo nichilista, smettila di giocare con la morte!”
Una voce soave, sbarazzina, era lei, finalmente dopo la sua rivelazione al telefono si era rifatta viva, era venuta a trovarmi.
Si avvicinò al letto ove giacevo ubriaco e semicosciente, era una donna stupenda. Capelli d’ebano le coprivano fluenti il volto affilato lasciando scorgere solo una pallida striscia del suo volto, che al buio emanava un candido riverbero.
“Tu non sarai mai un grande scrittore!”
“Lo so”. Le dissi con un sorriso rassegnato.
“Questo perché hai una musa troia come me, una musa crudele!”
Mi incantavo nel guardarla, volevo restasse per sempre con me, non mi interessava della sua crudeltà, il desiderio di essere stretto dalle sue braccia mi indusse a morbide, copiose lacrime.
Poi si avvicinò, si chinò su di me di modo che io potei sentire la soffocante oppressione del suo crine di seta sul mio volto, succhiò il mio sangue in un bacio divino, lentamente, eppure a me parve che quel dolce, confuso istante fu troppo breve per essere esistente.
“Liberami!” Le dissi.
Ella mi guardò, profonda e mesta, dai suoi capelli estrasse un fermaglio d’argento, era simile ad un biforcuto stiletto lavorato con delicata maestria, me lo porse dolcemente, e sorrise intrappolando per sempre il mio senno nel suo sguardo di vampira.
“Scrivi su di me il tuo ultimo poema! Il tuo capolavoro.”
Io annuii, ma volevo piangere ancora, volevo andare via con lei pur sapendo di non potere, non so, sentivo dentro me di dover assecondare ogni suo capriccio.
Incisi tutta la notte una elegante poesia su quel bianco corpo, un’opera d’arte scritta col sangue, mentre ogni rima era accompagnata da un sensuale sospiro d’agonia della mia musa.
Quando finii, all’alba, ella spirò, non lasciando traccia alcuna del suo corpo e della mia opera massima, si dissolse tra le mie braccia come una liquida nebbia, divenendo solo sangue, null’altro che sangue, l’inchiostro del vero scrittore.
Da allora non scrissi mai più.

©Davide Giannicolo

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