mercoledì 30 novembre 2011

Dimmi qualcosa riguardo la luce

 



Dimmi qualcosa riguardo la luce.
Di Davide Giannicolo

La civetta osservava con l’abisso dei suoi ambrati occhi nella finestra del monastero semi diroccato, all’interno flessuose ombre decoravano il chiaro di luna con vacue movenze inumane, simili alla seta sollevata delicatamente dalla brezza della sera.

D’un tratto la civetta si lanciò in un volo maestoso e attraversò la gotica e alta finestra, nella notte lo sbattere violento delle sue ali appariva flemmatico, lene come il silenzio.
Avviluppata dalla fitta ombra il rapace scorse un bassa figura bianca, vestita di stracci, un bianco topolino vestito di stracci.
La civetta si posò lenta e delicata sulla spalla di quella che si rivelò essere una bambina, pallida, consunta, palesemente cadavere.
La bambina sorrise, e quel sorriso fu inquietante quanto il sangue che si intravedeva sugli ingialliti denti di lei nell’atto di concederlo all’uccello.
Le sue manine erano livide, con una di esse porse un ratto all’uccello che con il becco le vezzeggiava le rade chiome d’un colore indefinibile.
“Questa notte avrò la mia prima figlia artiglietto, vieni.”
Il suono di quella voce infantile riecheggiò lungo i corridoi deserti del monastero abbandonato ove la tenebra ammantava ogni cosa, la civetta rise isterica , ubriaca di impazienza, doveva assistere alla nascita di una sua sorella.
Alle spalle del monastero vi era un antico cimitero in disuso, l’incombenza claustrofoba  di quel edificio ora liberava la bimba nella fresca brezza che ondeggiava leggera, mentre le lapidi tutto intorno sussurravano un fugace messaggio.
Di lontano tra le tombe si avvicinò una figura di donna, di sposa vestita, di morte truccata, incedeva mentre gli spettri del chiaro di luna baciavano la sua pelle inchinandosi.
La donna vestita da sposa era completamente imbrattata di sangue, ancora più scuro nella notte esso segnava il pallore del suo viso ed il nivore dei  vestimenti che indossava.
Ella si avvicinò alla bambina, le prese il mento fra le mani e in fine le sorrise, anche lei orribilmente inquietante, come lo era stata la bambina tra gli spettrali corridoi del monastero, vi era qualcosa di perverso in quel sorriso, rivelatore di laidi propositi.
La sposa afferrò la civetta e la sbranò impiastricciandosi di sangue il petto ed il volto sottile, poi ne gettò in terra il corpo morto e sorrise ancora più allucinata guardandosi follemente intorno.
“Io ti ho creata mia sposa. Tu mi accompagnerai lungo il cammino della notte, è stata una brutta azione quella di scotennare artiglietto, tieni a freno le tue zannette piccolo roditore, per riparare al tuo errore non mangerai per tre giorni, e se mi tradirai reciderò i tuoi seni e li getterò agli scarafaggi.”
La donna soffiò come fosse un gatto, con gli occhi folli onusti d’un lucore diabolico inchiodati in quelli della bimba.
Ma la bimba ruggì, un ringhio gutturale innaturale, feroce come una coltellata. Artigliò il volto alla sposa, la costrinse a stare in terra e le salì sui seni violacei, le artigliò il volto provocandole quattro profondissimi tagli obliqui, aveva conficcato gli artigli fino all’osso.
Il volto della ragazzina era imperativo e serissimo, mentre la sposa si lamentava  dibattendosi ed emettendo versi inquietanti.
Con ferocia di belva impazzita la  bambina le strappò di colpo la lingua e la gettò sull’erba del cimitero, la vittima a cui lei stava impartendo severe lezioni d’obbedienza emise un urlo che raggelò anche il frinire dei grilli.
“Tu devi prestare obbedienza a me soltanto, poiché dalla tua carne morta ho ridestato la vita, eri in punto di morte, avevi tagliato i tuoi polsi a causa del tuo amore tradito, questa cosa mi ha profondamente commossa, solo un anima come la tua, disposta ad annegare nel sangue il legame perduto può essere a me affine, non sarò più sola adesso, poiché è a me che hai sacrificato parte del tuo sangue, si, impaziente l’ho bevuto forgiando il nostro eterno legame.”
La sposa non poteva rispondere, ne parlare, la lingua le era stata recisa.
La bambina le fece una carezza, dopo averla lungamente fissata le baciò la fronte, prima con tenerezza, lasciando poi spazio ad un trasporto abbastanza lascivo. Infine liberò la sua preda,  leggera come un’ombra  raccolse la lingua dall’erba e vi  depose su un bacio soave.
“Questa la terrò io, se sarai buona te la ricucirò, così che tu possa interpellarmi.”
Non era molto dolce questa bimba.

Durante il sonno nella bara la sposa tentò di fuggire, lei, la bambina, la rincorse e le recise le mani, poi la gettò in una fossa , lasciandola lì per tre giorni.

Milena, questo era il nome del piccolo, inquietante essere, era nata così, partorita forse da un essere della sua stessa razza o forse figlia di se stessa.
Viveva nel monastero da quando aveva ricordo, ed era sempre stata sola.
Per lunghi, lunghissimi anni aveva esplorato l’edificio sia nelle sue più recondite fondamenta, sia all’esterno nella più accorta prudenza.
Aveva capito durante i primi anni della sua vita che poteva dominare i sussurri degli antichi, innumerevoli spettri che erano i patroni di quei luoghi sconsacrati. Non ne era stata mai spaventata, nonostante le inquietanti, fievoli voci l’avessero sempre accarezzata con lasciva, intimidatoria perversione.
La civetta era  stata la sua prima ed unica eterna amica, solo con lei Milena cessava di essere mesta e imperiosa per divenire dolce, infinitamente dolce, solo a lei aveva confessato i suoi segreti, le sue paure inconfessabili che la spingevano a volte a suicidarsi con la luce.
Era suo istinto evitarla, non concepiva il perché, sapeva solo che immergersi nella fonte dorata di un raggio di sole le sarebbe costato puro, insondabile dolore.
Questo era il segreto di Milena, l’attrazione peccaminosa e letale nei confronti del bagliore del sole la poneva d’innanzi alla morte, cosa poteva desiderare un essere come lei, dominato dalla tenebra, dannato nel sempiterno oblio della negazione, un essere solo al cospetto della pura bellezza del cielo limpido che bacia il mare mediante sinuose lingue di ardente sole, cosa poteva desiderare Milena se non una danza soave con la morte?
Quando anche la civetta morì, mangiata dalla sposa che lei stessa aveva reso come lei, la bimba eterna fu perforata da un lancinante strazio, il fatto di essere stata privata dell’unico essere che l’aveva capita, cullandola con le carezze del suo becco, fu insopportabile presa di coscienza, si ritrovava sola, come era suo destino ignobile sin da principio, e al posto della sua unica amica vi era una ribelle sposa puttanella che lei stessa aveva creato per colmare il vorticoso baratro della sua solitudine.
Milena si sedette su di un catafalco di pietra, era nelle cripte del monastero ove vi era anche la sua bara, vi si appoggiò morbida e leggera, poi posò delicatamente la sua fronte nel mezzo della piccola manina bianchissima, scoppiò in una violenta crisi di pianto, i suoi singhiozzi divennero convulsi, fino a quando una presenza non si rivelò come un soffio di argentea luna.
Quando Milena alzò gli occhi velati dal pianto intravide il diafano spettro della madre superiora.
Era una donna bellissima, era priva di vesti monacali e appariva nuda, non era suo solito rivelarsi a Milena così.
“Pensi che la tua eterna solitudine sia incolmabile? Almeno tu puoi morire bimba demoniaca che hai invaso questi luoghi inviolati da anni con il tuo passo caprino. Io sono confinata qui, in eterno, a causa dei miei peccati innominabili. Dimmi, quale sorte sia la peggiore?”

“Dimmi almeno qual è il mio peccato spettro, dimmelo e io andrò in contro al mio destino in maniera solenne.”


Il peccato di Milena era quello di essere  nata così, di essere figlia della tenebra, e di essere sempre stata sola con la civetta.

Ma questo la suora non lo sapeva, così non potette far altro che tacere.

“Tu cos’hai fatto spettro? Dimmelo! Dimmi chi poi giudica le azioni degli esseri come me!”


“Io non so tu cosa sia bambina eterna, so che bevi il sangue degli uomini nottetempo e dormi in una piccola bara, riguardo a chi o cosa giudichi sia me che te è impossibile risponderti, io ignoro molte più cose di quanto non sappia!”


Milena scattò dal catafalco e furente si rivolse allo spettro:

“E allora perché vieni qui a tormentarmi bastarda? Perché non strisci nell’oscurità e sparisci dal mio sguardo che brama dilaniare le tue informi carni? Vuoi consolarmi patetico essere? Non puoi e non osare mai più girarmi intorno con i tuoi patetici singhiozzi.”

Lo spettro mutò la sua espressione di tormentata tristezza e s’accinse a liberare le cripte di Milena, aveva già svoltato il primo angolo quando la sentì gridare:


“Aspetta fantasma!”


La suora ritornò cautamente lungo il percorso che prima aveva attraversato saettando, vide Milena nuovamente seduta, con le piccole gambine dondolanti al di la del catafalco.


“Non mi hai più raccontato del tuo passato donna morta, cos’hai fatto, ti sei suicidata?”


L’espressione di Milena era dolce e tristissima, gli occhi velati da una liquida nube di pianto.

Si scorgeva in quegli occhi una solitudine eterna, una solitudine da ella stessa non ancora compresa, poiché troppo immensa da sopportare.
E lo spettro questo lo notò, notò che l’infante creatura notturna non aveva ancora accettato la sua condanna ed era per questo che cercava compagnia nella notte.

“Io sono stata uccisa dalla mia passione, ho amato un’ uomo che non m’amava ed un’ uomo che non amavo ha amato me, quest’ultimo ha ucciso sia il primo che me, in questo convento, cento anni or sono.”


“Ed eri una suora?” sussurrò Milena un po’ ripresa, metà infantile, metà mesta regina vampira.


“Si, avevo preso i voti poiché l’uomo che amavo mi aveva ripudiata, e l’altro giunse qui di notte mostrandomi la testa di lui, un folle sanguinario brutale. Voleva condurmi con lui, ma quando io mi opposi egli mi uccise.”


“Dovevi pensare al suo amore, l’amore d’un altro è una cosa che si deve sempre rispettare, io non ho mai avuto l’amore di un altro.”


La suora trasalì, quella bambina emanava la tristezza più insopportabile che una qualsiasi entità possa emanare, la solitudine era il fondamento di quella esistenza che sembrava essere composta di buio immenso.


“Dovevi pensare al gesto che aveva compiuto quel uomo, ha ucciso per te, si è bagnato nella tragedia per te, e tu invece amavi un altro.

Beffardo non credi? Per me ha fatto bene.”

La suora non sapeva cosa dire, effettivamente aveva pensato spesso alle sagge parole di Milena anche prima, ma adesso che senso aveva, ora che dimoravano nella torre a metà fra il sogno e la vendetta?


Milena proseguì indispettita:

“Per una persona come me, che è nata sola e non conosce niente al di fuori della propria solitudine non sai quanto sarebbe importante trovare un uomo disposto ad uccidere per me!
Da questo deduco che tu sei una gran troia madre superiora, e che non tollererò mai più la tua vista.”

Lo spettro fuggi pavido lasciandola nuovamente sola, giacente sul catafalco di marmo.

La piccola decise di dormire lì, non aveva voglia di stare nella sua bara. Il suo sonno stava sollevandosi leggermente verso i castelli del sopore quando avvertì sottili mani carezzargli le gote, quel tocco era gelido velluto, eppure familiare amore materno, ma il tocco mutò indirizzo carezzandola più in basso, verso il ventre.
Milena riconosceva la morte in quel tocco, riconosceva la familiarità della morte che l’aveva generata, ma la tenerezza di quel gesto fu infranta da un sentore lascivo, qualcosa di malevolo che da sempre accompagnava il sonno di lei, di Milena la bimba eterna nata dalla morte.

“Dimmi qualcosa riguardo la luce, te ne prego!”


Questo sussurrò Milena un istante prima di svegliarsi ed era nuovamente notte, eterna notte dagli infranti sogni vacui ove mai luce alcuna si scorge.


©Di Davide Giannicolo 03 05 2005

 Dedicato alla solitudine, alla tetra malinconia, alla mancanza di sbocco.


  

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