mercoledì 30 novembre 2011

GIOVANE SANGUE DI LUPO






Giovane sangue di lupo

Era il 1813,  non ero il tipo d’intellettuale che piaceva molto alle donne, sarà stato per le mie manie selvagge, o forse per i peli che non lasciavano vergini neanche le mani.
Mi trovavo in Grecia, dopo aver vagato per l’Italia del Sud, il mio spirito era assetato di qualcosa di ignoto, e ricordo ancora come mi accolsero le coste della Grecia dalla nave, le montagne altere e vetuste di Igoumènitsa che mi chiamavano alla vita ferale.
In quel paese conobbi Polidori, un dottore allucinato che frequentava le bische più malfamate del porto, sembrava cercasse qualche losco farabutto che gli tagliasse la gola, si, pareva proprio così.
Alla fine trovò me, che ubriaco di mirto lo fissavo con insistenza, avevo capito subito che quel figlio di puttana che si sarebbe giocato anche la Madonna era di sangue Italiano.
Fu lui ad avvicinarmi, era a distanza parecchio inquietante lasciando intendere qualche laido istinto omosessuale.
“Molto piacere, John William Polidori.”
Non so come darvi un idea di quell’espressione stralunata, ne come descrivervi il mio stato d’allora, diciamo che esteticamente ero riconducibile ad una sorta di torvo brigante.
Lo fissai dritto negli occhi senza profferire verbo.
Erano mesi che vagavo per le montagne, ho sempre avuto uno spirito poetico, ma troppo mi riempivano quei paesaggi,  ero giovane sangue di lupo, cercavo lo squallore.
Il vecchio Polidori non sembrava arrendevole, mi fissava invadente e io non volevo tagliargli la gola, intanto i turchi taglia gole, e gli ellenici facevano da sottofondo al mio silenzio coi loro scattanti e veloci dialetti privi di gesti, ero in Grecia, lo sentivo sulla pelle quel mare, quell’aria, quella notte diversa.
“Sei Italiano giusto?” gli dissi in cadenza marcatamente Napoletana, il mio fiato alcolico aveva speziato intanto anche la mia barba, me ne accorsi annusandomi il labbro superiore.
“Di origine, si, e che fior d’Italiano, ho parenti importanti, sono un intellettuale, ma che ci vuoi fare il gioco mi tenta! A quanto vedo siamo gli unici Italiani qui. Pittoresco vero questo loro parlare? Dire poi che io sia Italiano sarebbe come dire il falso, ho vissuto così tanto in Inghilterra…..”
 “ Calma, calma, stai parlando parecchio, che c’è? Non conosci il greco? Ti senti solo? Dille a questi qui queste storie, e poi dì un po’, che ci farebbe un nobiluomo come te tra questi monti?”
Polidori pareva cortese e allegro, ma nei suoi occhi scorgevo una palese schizofrenia buona ispiratrice di suicidio.
“ Stravaganze del mio principale, è venuto a isolarsi qui mentre cercava le meraviglie del mondo, chissà per quanto tempo rimarremo in questa valle.”
“ Non pensi che ogni luogo abbia una notte diversa? Un mare che canta con voce propria? Un odore proprio?”
“oooh sei un poeta?”
“Non si vede?”
“Anche il mio signore, Lord George Gordon Byron è un poeta, un grande poeta dicono.”
Diciamocela tutta, Byron non era certo Trant Ranznor, cioè Byron lo schiacciava il vecchio Trant, era uno che appunto in Grecia aveva attraversato a nuoto un tratto impossibile di mare pur essendo zoppo, uno che faceva duelli, un bel tipo per farla breve, eppure a me il nome non diceva proprio niente, ma era il 1813, e io ero giovane sangue di lupo.
“Il mio padrone è un uomo molto eccentrico, è raro qui un così fulgido esempio di archetipo Satanico, sono sicuro che la ospiterà qualche giorno da noi, ammesso che lei sia d’accordo.”
La faccenda non mi allettava, volevo annusare la notte, sentire addosso il di lei soffio, ma la poesia era troppa, bruciava alla nuca, dovevo mantenere un minimo di senno e sfuggire alla notte licantropa.
Seguii Polidori con sdegno, avrei bruciato l’intera villa ove stavo per andare se fossero stati tempi diversi, ma questa volta avevo il serio proposito di giocare all’intellettuale, avrei recitato la parte dell’artista estroverso che conversa con un esiliato nobile Inglese.
 Il viaggio in carrozza fu affascinante, la luna Greca si specchiava nel lago raveno della notte, i boschi cantavano magiche melodie di fascinoso smarrimento.

Giungemmo alla sontuosa residenza di Lord Byron, tralascio le cazzate dei domestici letteralmente sconvolti dalla mia presenza, decisi che avrei presto mangiato le tenere carni della domestica piccola piccola che timida mi guardava di fronte.
Ma presto il padrone stesso uscì a darmi il benvenuto, zoppo figlio di puttana completamente imbottito di laudano e oppio.
“Vieeeniii dottore!” urlò, “vieni! Arrivi giusto in tempo per i giochi della notte!”
“Quest’uomo si gode la sua arte.” Dissi a Polidori.
“Già, senta io vado a farmi una puntatina.”
“Una puntatina? Dove?”
“Diciamo che è un gioco d’azzardo molto azzardato, ci giochiamo ogni notte le cervella, come si chiama da voi? Roulette Russa, le ho detto che ho un debole per il gioco.”
Dove ero capitato? I signori Italiani avevano smarrito il senno o questo era un po’ sopra agli altri?
Entrammo dentro anche noi seguendo la corsa efferata di Lord Byron, lo spettacolo fu breve, Polidori fu il terzo a premere il grilletto del moschetto, perse il quarto: un maggiordomo.
Byron rideva isterico e proprio non si reggeva:
“Dottore, dottore, che noia pervicace, tu pensi di potermi battere a duello?”
Polidori afferrò un tavolino di vimini e lo fracassò sulla testa ricciuta del suo padrone.
“Sono ben stanco di queste sue provocazioni!” disse il folle medico, “ Forza si faccia avanti!”
Byron s’alzò e annaspò vacillando fino al caminetto, sopra, incrociate vi erano due grosse spade.
Byron ne afferrò una e cominciò a menare fendenti con gli occhi accesi e l’espressione Satanica.
Il povero Polidori se la svignò, non senza però lanciargli contro qualche rara porcellana che il nobiluomo fracassò a colpi di spada.
“ Vede caro lei che razza di infingardo essere è il mio medico personale? E gira armato sa ?
con  tanto di pistola, e mi ha sparato anche contro un’infinità di volte. Gira per i campi al crepuscolo e spara alle contadinotte come fossero tortorelle.”
“Quello sei tu, maniaco!” gridò Polidori  sbucando di scatto e mostrando solo la testa alle spalle della porta, Byron gli lanciò contro la spada che fracasso qualche antico mobile settecentesco.
Intanto la camerierina che avevo giurato di mangiare era giunta a dare una ripulita, per terra vi era ancora il cadavere del domestico uscito perdente dalla roulette.
“Juliette vieni qui, inginocchiati e succhiamelo.” Disse Byron con nonchalance alla cameriera.
“Si padrone, ma non faccia come il signor Polidori che mentre lo faccio mi percuote con forti pugni alla testa, la prego signore.”
“Conosci la mia raffinata eleganza dolce bocciolo.” E la piccola fremette.
Dannata casa di pazzi, non sarei rimasto certo ad assistere al pompino di Lord Byron. Andai via amareggiato, almeno la cameriera potevano lasciarmela.
Mentre andavo via, in giardino incontrai Polidori che s’era giocato tre dita e un orecchio ai dadi con il cuoco negro e aveva perso la scommessa, ora il cuoco esigeva il risarcimento alla sua vincita e Polidori era indeciso e logorroico.
Non badai neppure a loro, contemplai la luna che mi chiamava alla poesia dei boschi, dalla finestra vidi Byron, quel gran bastardo mi sparava contro con un grosso fucile da caccia, fanculo quei nobili, io cercavo la pienezza ancestrale della Grecia, solo oggi penso a quello che mi sono perso con quei figli di troia a causa della mia licantropa misantropia.

©Davide Giannicolo

 

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