mercoledì 30 novembre 2011

Lo spettro del castello di Frontone(versione tagliata)

 
castello
Lo spettro del castello di Frontone
(Un piccolo, sadico gotico)

Eleonora aveva studiato a Urbino per molti anni, all’università aveva trascorso momenti memorabili, ma una volta laureata, si rese conto che ogni fase della vita è intervallata da un momento di confusione.
Era arrivato il momento di mettere in pratica ciò per cui aveva studiato, non tanto per un reale bisogno di soldi, suo padre in fondo era benestante e poteva ancora mantenerla, ma Eleonora aveva bisogno di dimostrare che in tutti quegli anni non aveva perso del tempo, che lei non era l’usuale figlia di ricchi, carina e nullafacente.
Naturalmente a trovarle il lavoro fu suo padre stesso, un impiego facile, comodo, e ben pagato.
Doveva semplicemente accogliere i visitatori al castello di Frontone, una rocca severa che si staglia su di un picco affilato nell’entroterra Marchigiano.
Eleonora di questo si sentiva molto orgogliosa, anche perché il lavoro le consentiva di vivere da sola, nella vicina città di Pergola, aveva scelto di prendere in affitto un appartamento in quel paese poiché vagamente più movimentato di Frontone, ma di notte, le suggestioni medievali di Pergola, non tardarono a carezzare la giovane pelle della novella castellana.
Inizialmente, nel suo vecchio appartamento del centro storico, inghiottito dai vicoli centenari che sussurravano storie silenti e mai dette, Eleonora provò un profondo disagio, non le piaceva rincasare da sola nella sera deserta, tanto meno restare di notte in quelle strade solinghe, ove i suoi passi riecheggiavano fra i mattoni facendo pensare a sinistri pedinaggi alle sue spalle.
Eleonora risolse con estrema facilità questo suo problema, era tutto dovuto alla sua improvvisa solitudine e all’antichità di quei luoghi che ancora erano impregnati di medioevo, dunque invitò le sue vecchie amiche dell’università a dormire da lei, ciò succedeva ormai ogni sera, la accompagnavano addirittura al lavoro e restavano con lei nella piccola stanza dei biglietti dove venivano accolti i rari visitatori.
Dunque anche quelle immense, pomeridiane solitudini al castello, immerse in silenzi inamovibili e pesanti come le pietre della rocca, furono esorcizzate dalle risatine delle ragazze di città.
Fu in uno di quei pomeriggi invernali, in cui Mario, uno dei suoi compagni, era giunto a trovare lei e Matilde, che cominciarono ad accadere sinistri eventi, storie equivoche come le carezze di un monco sulla guancia di una vergine casta.
Le luci al piano superiore del castello venivano trovate molto spesso spente, eppure il maniero era deserto, e vi si sentivano gli spifferi di vento riecheggiare tra i silenti corridoi, Eleonora era molto spaventata da questi avvenimenti, se fosse stata sola, non sarebbe mai andata a controllore, non avrebbe mai osato avventurarsi fra le buie sale del castello irte di sussurri e rumori indistinti.
Era di Mario il ruolo del coraggioso, fino a che una sera, poco prima dell’orario di chiusura, in un martedì privo di anima viva, egli discese le scale correndo, e pallido come un cadavere si rivolse sconvolto alle sue compagne.
“Dobbiamo andare via di qui, immediatamente!” Disse con il respiro strozzato.
Le ragazze, ovviamente spaventate, tentarono ugualmente di calmarlo.
“E’quasi orario di chiusura, mancano dieci minuti, poi chiudo tutto e andiamo!” Disse Eleonora.
“Io vado via adesso, voi fate come volete!”
“Ma cosa hai visto Mario, così ci spaventi!”
“Andiamo via ho detto! Mi dispiace Eleonora ma io non ci torno più in questo posto, anzi faresti meglio a licenziarti!”
“Ma che dici!? Si può sapere cos’hai? Hai fumato?”
“Vaffanculo! Io torno a casa stasera stessa, non dormo con voi, andate a fanculo!”


Per molti giorni strani eventi seguitarono ad accadere nella dimora vetusta, Eleonora, che fino ad allora non aveva mai pensato di informarsi circa gli antichi abitanti del castello, cominciò a fare delle ricerche, visto che gli spifferi ventosi che aleggiavano lungo le immense solitudini delle sale deserte, e i rumori sinistri simili a scricchiolii seguiti da tonfi, cominciarono a divenire sempre più invadenti.
Ma non trovò nulla di anomalo nella storia della costruzione, nessun architetto suicida, nessuna dama uccisa per fattori di gelosia, ma certo era che in un centenario castello di omicidi certamente ce ne erano stati molti, non documentati, morti segrete, anonime, serve torturate, paggetti violati, cose che certamente nessun libro di storia riporterebbe mai.
Eleonora cominciò a convincersi di ciò, mentre nelle notti ventose di Pergola, spulciava tra vecchi volumi e stancava i suoi languidi occhi turchesi dinnanzi al luminescente schermo del computer, Matilde era ossessionata quanto lei, continuava però a starle vicino unicamente per un motivo, sapeva che di lì a poco sarebbe partita per raggiungere i suoi, dunque i borghi deserti e oscuri di pergola, uniti ai fitti bui delle latebre di Frontone, presto sarebbero stati soltanto un vago ricordo.
Ma Eleonora sarebbe restata, sola, tra quelle sale maestose e sussurranti, ed allora, solo allora, avrebbe fatto realmente i conti con la propria paura, poiché è la solitudine ad essere la più tenera amante dell’incubo.

Imbruniva molto presto in quel periodo, e già tra le solitarie stradine medioevali qualcosa di morboso aleggiava nell’aria, era come se qualcuno spiasse i suoi passi, come se al di là di quelle antiche porte marce, che celavano sconosciute cantine e sottoscala silenziosi, occhi iniettati di sangue la stessero osservando con insistenza.
Il silenzio era terribile, tangibile come un viandante vestito di stracci che avanza tendendo la mano, offrendoti la propria lebbra.
Matilde era partita quella mattina, ed Eleonora era decisa a non lasciare il proprio lavoro, non avrebbe fatto sorridere suo padre con le sue paure da bambina, ormai era adulta, ed era ora di dimostrarlo prima di tutto a sé stessa.
Era una sera fredda, il gelo stava arrivando, l’inverno, con le sue carezze taglienti, si annunciava rendendo il castello ancor più severo, mentre una luna alta e tonda, coperta da alcune nubi fluttuanti, sovrastava gli alti bastioni, come il luminescente occhio di un ciclope essa osservava Eleonora fissamente, attorniata dal cielo autunnale di un blu malevolo, seguì i passi della ragazza fino a che non entrò nella rocca.
Tutto taceva ed era deserto, il vento gelido percorreva ogni spiraglio, lanciando ululati malsani che evocavano dimenticate, oscure fantasmagorie.
La ragazza sedette al suo posto, fingendo di non sentire quei sibili lontani, simili ai sussurri di erranti anime in pena, trascorse un ora, Eleonora era terrorizzata, nonostante il silenzio, pesante come una scure, regnasse ormai incontrastato nel castello, poiché il vento si era calmato, e tutto sembrava immerso in una naturale tranquillità.
Ben presto l’occhio turchese di Eleonora poté notare una cosa a primo impatto agghiacciante, era come se i suoi occhi, assorti nella lettura di un opuscolo, avessero scorto un vago movimento all’altezza della porta.
Il suo cuore cominciò a lanciarsi in una sfrenata cavalcata.
Eleonora rimase immobile, fissò la porta per alcuni minuti, mentre il sudore le imperlava la schiena nonostante facesse relativamente freddo, dopo un po’ il suo sospetto divenne certezza, l’orlo di un tessuto bianco, fluttuante e leggero, sporgeva oscillando al di là della porta.
Dopo attimi di terrore profondo, improvvisamente, i sensi di Eleonora furono dominati dalla ragione:
“E se fosse una tenda? Un pezzo di stoffa strappato dal vento?”
Si alzò e decise di andare a vedere, con titubanza, varcò la soglia della porta, il cuore le si pietrificò immediatamente e svenne quando scorse ciò che vi si celava di fianco, e la osservava con crudele, muto sguardo.

Si risvegliò nuda, legata mediante catene che le tenevano gambe e braccia allargate orizzontalmente, il suo sesso nudo, ricoperto da una bionda peluria, riceveva le carezze del freddo, il gelo la cospargeva di brividi, che rizzavano dolorosamente le piccole, rosse protuberanze sormontanti i suoi piccoli seni.
Si trovava in una sala sconosciuta del castello, un sotterraneo illuminato da molteplici candele.
Dinnanzi a lei vi era la creatura che le aveva fatto perdere i sensi, una vecchia decrepita, dallo sguardo profondamente maligno, il volto severo, sottile, aristocratico, le labbra sottili, curvate in un espressione di sdegno e superiorità, la donna, che pareva centenaria, era vestita da sposa, un abito pomposo, recante perle e ricami, decori sontuosi di un’epoca svanita, sontuosi ma mestamente casti, ligi al silenzio del corpo devoto all’alabarda dello spirito, un lungo strascico infine cadeva dal capo della vecchia silenziosa, cascando come un getto di latteo vapore fino al centenario pavimento di mattoni consunti, rendendo ancora più inquietante quella tetra, agghiacciante visione.
La pelle pendente e gli occhi tondi, inespressivi nella loro albagiaca vacuità, le membra sottili, quasi scheletriche, racchiuse in quell’abito nuziale, il crine canuto, sciolto come uno spettro danzante sulle spalle, tutto in lei insomma, trasmetteva profonda inquietudine, ma ciò che più agghiacciava l’inerme ragazza legata era lo spettrale silenzio del fantasma, che non faceva altro che fissarla con disprezzo, se solo ci fossero state delle parole ad infrangere quella mortale immobilità di suoni, se solo quelle labbra raggrinzite si fossero mosse, allora forse la realtà avrebbe preso il sopravvento.
Ma ciò non accadde, e lentamente dall’ombra emerse una nera figura, e così una colossale ombra si impadronì dei tremolanti lucori della stanza; un boia seminudo e incappucciato, alto il doppio di Eleonora, dalle membra possenti e lucide, avanzava verso la ragazza ignorando i suoi muti, nevrotici singhiozzi.
Dita salde strinsero il mento di Eleonora, poi vide la vecchia avanzare, lentamente, come fosse di cartapesta, non riusciva a indugiare in quegli occhi straripanti crudeltà, così abbassò lo sguardo dinnanzi al torvo, tondo sguardo che la vecchia le volgeva, simile a quello di una civetta, poiché umidi, sadici scintillii vi aleggiavano come spettri erranti visti al di là di uno specchio.
Solo allora sentì il calore, e guardò in basso, verso il proprio ventre, la vecchia stringeva una candela fra le proprie  dita ossute, così simili ad artigli adunchi.
La fiamma era puntata all’altezza del pube, così prima la fulva peluria, e poi la rosea carne presero a bruciare liberando un fosco, pregnante effluvio.
La vecchia mutò leggermente la propria gelida, fissa espressione, le sue labbra si atteggiarono in un vacuo sorriso.
“Questo castello è appartenuto ai miei avi per generazioni, non senti il loro amabile sussurro?”
Dicendo ciò avvicinò maggiormente la fiamma della candela al sesso di Eleonora,  che danzò  sulle labbra esterne della sua vulva con la delicatezza leggiadra e tagliente di una pattinatrice suicida.
Le grida divennero acute e disperate, ma la vecchia non sembrò battere ciglio, era come se il suo volto centenario fosse avvolto in una maschera di cera.
“Possiedila Volcidor, massacrala con il tuo possente membro, poi scorticala con il tuo flagello, infine rompile le ossa con la tua mazza ferrata!”
La vecchia, profferendo queste parole come se fossero i versi di un poema, si rivolse al colosso mascherato.
E realmente egli la possedette mediante il suo membro mostruoso, realmente la fustigò fino a rendere purpuree e grondanti sangue quelle rosee e candide membra, spappolando infine le fragili ossa di quel corpo flessuoso, pregno di morbida giovinezza.
Gli schizzi purpurei inondarono la candida veste della sposa centenaria, che soddisfatta, con gli immacolati abiti macchiati di sangue, baciò le potenti braccia sudate del tenebroso boia.

Una lussuosa auto nera depose il proprio fulgido sguardo attraverso il declivio che dal castello di Frontone conduceva a valle, qualcuno di ricco, raffinato e aristocratico stava abbandonando il castello avvolto dalle tenebre della sera danzante, le poche luci del borgo accompagnarono la vettura, fino a che non fu inghiottita dalla angosciosa oscurità circostante.
Il cadavere di Eleonora fu ritrovato nella campagna, legato ad un albero, seviziato e violato, le ossa spappolate, il cranio reso poltiglia, i seni recisi da colpi di frusta.
Mario, l’amico di Eleonora, fu uno dei primi ad essere interrogati, disse di aver visto, in quella famosa sera, una vecchia vestita da sposa, accompagnata da un colosso mascherato, avanzare verso di lui.

La Contessa Giantini, sorrise al proprio domestico, poche settimane dopo il delitto, leggendo di quelle notizie. Il suo gigantesco servitore era nudo, e le stava innanzi con il membro eretto nell’attesa di essere ricompensato dalla sua vecchia padrona.
“Sei un gigante spastico Volcidor, eppure assurgi così splendidamente ai tuoi compiti!”
Davide Giannicolo
Tutti i diritti riservati
La versione originale di questo racconto è andata perduta insieme alle ultime tracce del suo autore, forse da lui stesso distrutte.

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