Spesso i peggiori nemici sono gli alleati perduti nel crepuscolo della propria cecità .
Davide Giannicolo
Necromania e puro amore per decadenza e violenza, poesia oscura, lirismo licantropico, monumentali astrattismi sanguinari, danza di catene e rasoi al chiaro di luna, letteratura notturna, solinga, antintellettuale. Questo è il manifesto del porto dei misfatti, e i viandanti che vi entreranno sentiranno gelidi moncherini carezzare il loro volto, o sinuose sirene, il cui bacio sa di prostituzione e antichità.
Spesso i peggiori nemici sono gli alleati perduti nel crepuscolo della propria cecità .
Davide Giannicolo
Improvvisamente il mio cuore si è chiuso.
Nero, come una notte senza luna.
Ricoperto da una crosta carbonizzata, arsa da fiamme infernali.
Non comporrò elegie su nessuna tomba.
Non scenderò a patti con gufi anglicani.
Non mi perderò in lamenti notturni e cimiteriali.
Non mediterò nella sorda eco d’alcun sepolcro.
Ho semplicemente una lama confitta nel petto.
Il mio cuore nero, di carbone gelido, sanguina, cinabro sinuoso scorre lungo le sue crepe vulcaniche, come fosse lava incandescente.
Una profonda ferita ha scalfito la sua corazza.
Il mio cuore s’era chiuso, colmo di violento rancore.
Serrato, pregno di disincanto e delusione.
Inabissato in gorghi densi di tristezza e abbandono.
Nessuna emozione era capace di percorrerlo, solo pipistrelli e scolopendre dimoravano nei suoi anfratti.
Ma il sangue ha sciolto l’incantesimo, vivo, in scarlatti zampilli.
E non so cosa sia peggio.
Il dolore, la battaglia, il vino rosso l’hanno disseppellito.
Il mio cuore era morto, ma è tornato in vita grazie allo strazio e all’intensa sofferenza.
Solo la tenebra del mio sterno ferito però, può contemplarlo mentre sanguina, come fosse un Vampiro, austero e vetusto, nascosto agli occhi dei vivi.
Testo e immagini di Davide Giannicolo
Davide Giannicolo
Sangue
Cagna
Mi scodinzoli davanti
e sei piccola
mentre io sono un grosso cane.
Mi guardi,
il bene e il male si confondono
nel languore dei tuoi occhi.
Piccola cagna,
stai supplicando
col languore dei tuoi occhi.
Non so se è estasi
o dolore
ciò che cerchi da me.
Certo è che vuoi guaire,
e improvvisamente mi ricordo
che noi cani
non facciamo certe differenze.
Grilli in Frak
Sono un gigante gentile,
ma la mia vescica
è gravida di sogni d'avorio,
ho visto noiosi diagrammi
disgregarsi sotto il mio sbadiglio,
eppure la notte mi solletica
con grilli in frak....
Desiderio
Un candito frutto,
cinto di carnale disio,
sulla terrazza arsa dal sole
indugia.
Allungo le mani,
deciso
nell’atto di coglierlo.
Soavemente le mie dita
all’apparenza brutali,
carezzano la superficie liscia e sinuosa
che sembra carne ardente.
Fremono le foglie
al mio tocco leggero
che man mano
di desiderio è impregnato.
Un mango succoso
o qualcosa di simile,
poiché in terra
mai ho scorto
qualcosa ad esso affine.
Si agita,
spasmodico,
il mio desiderio,
ed è più forte di qualsiasi moto interiore
l’impulso di posarvi le labbra.
La mia bramosia,
diviene ossessione,
assaggio avidamente
la vellutata scorza
che racchiude in sé
sapori riconducibili ad un metafisico incanto.
Ed eccomi ubriaco
del succo divino,
stordito,
ormai totalmente assoggettato
a quella malia delicata
dal vivido sapore.
Sento quasi dei gemiti soffusi
innalzarsi,
mentre il sole ardente
infiamma questo singolare amplesso,
poiché io sono carne
che s’unisce sempre più con vigore
a qualcosa che è composta
dell’essenza di un fiore.
Maggiormente si dischiude,
aprendosi completamente alle mie labbra
ormai avide,
polpa sublime,
rossa,
intrisa d’effluvio divino.
Chiari sono i gemiti adesso,
di entrambi,
il frutto e la carne,
si mescolano divenendo un'unica cosa,
era forse intriso di un narcotico elemento
quel succo vermiglio
che ora cola dalla mia bocca mai sazia?
Poiché mi sembra d’entrare totalmente
in quella densa,
inumana porta,
che la buccia mi ha aperto
concedendomi l’estasi.
Fremo,
e pare che anche il frutto lo faccia,
s’innalza l’incanto,
unendoci in questo banchetto surreale.
Cos’ho realmente fra le mani
Se non desiderio?
Casa
Il sole,
in tiepidi sospiri,
si posa come uno spettro
anche negli angoli più bui
della mia essenza.
Silenzio
il battito d’ali
d’un doloroso sentimento:
l’assenza;
si dipana ora languendo
fra le pieghe stropicciate
del mio non esserci.
L’assenza
mi lacera.
La zoppa
Camilla è zoppa
ma ha un gran culo
e io la voglio.
Camilla è zoppa
e quelle chiappe
morbosamente fa ondeggiare.
Camilla è zoppa
ma è arrogante
chissà da chi si fa scopare.
Camilla è zoppa,
cammina strascicandosi
e io
l’osservo.
Le adolescenti del mio tempo
Quanta ostinata pornografia
nelle grosse,
dure tette
delle adolescenti del mio tempo.
Nei loro stretti,
minuscoli vestimenti
che mostrano gambe tornite
ricoperte di bionda peluria
simile alla vellutata buccia di una pesca.
Quanto carnale desiderio,
represso,
genera follia.
Il silenzio
Il silenzio logora le rocce
uccidendole.
Lembo di stoffa
Quel minuscolo, azzurro lembo di stoffa,
inghiottito dall’opulenza delle tue carni
rese succose, salate dall’acqua marina,
che non posso assaporare.
Occhi d’amore
Occhi d’amore,
leggiadre lame,
tessono l’arazzo di sangue
d’una cupa percezione.
Il castello d’avorio
della bellezza
si staglia lontano.
Ma vi sono le rupi,
la selva,
le nubi della furia
fanno sì che non lo veda,
luna cinta di spettri.
Le mie armi:
le braccia.
Lo spirito è labile,
incline al tormento,
poiché dal sogno mi desto,
a frantumare il sorriso,
il ghigno del magnate
alla giovane puttana.
Locuste di cristallo
Locuste di cristallo giganteggiano
innevando di spore
il volto sfregiato
del guerriero impazzito.
Poi il destriero divenne
mostruoso uccello,
meravigliosa furia alata
nitrente fuoco e furore.
Allora tutte le cose
del mondo
si frantumarono,
compresa la bellezza.
Davide Giannicolo
Non so più chi sono, in questo tetro labirinto di specchi infranti.
Narciso sfregiato, senz’anima, a cui è stato sottratto il proprio volto.
Il canto del cigno,
un suicidio sontuoso di ogni emozione,
Narciso dallo specchio vuoto.
Sensazioni morte
cadono come petali
sul pavimento marcio.
Sepolta,
l’anima dilaniata,
cerca un ultimo palpito.
Ma non sono più lo stesso,
mai più.
Di vermi e locuste,
di zampe rostrate,
ogni mio sentimento conduce alla morte.
Narciso sfregiato dallo specchio infranto, vuoto di desiderio e illusione.
La mano sottile mi illividisce le braccia ma sono ormai morto,
persino il dolore non ha effetto su di me,
tanto che ne sono ebbro.
Cadavere gonfio che affiora dalle acque di un lago nero.
Nessun sentore di vita sana il taglio profondo che mi percorre la faccia,
nessuna forza sorregge le mie ginocchia spezzate, costrette a genuflettersi.
Solo la spada del suicidio può tenermi in piedi un’ultima volta.
Eppure un tempo fui illuso e illuminato da una fulgida forza.
Eppure un tempo ruscelli d’aspirazione e desiderio irroravano i miei occhi fieri.
Ora non più.
Il Narciso non ha più il suo specchio,
Non ha più nemmeno,
addirittura,
il suo volto.
Dunque,
Il canto del cigno,
Nella stanza abbandonata,
Consunta dal tempo che non è più,
Può anche perire,
Decomporsi,
Appassire,
Svanire.
Come i cocci infranti che furono un tempo.
25 Novembre 2024
In vortici di tormento
A Majakovskij
Sul lago di sangue cuore tormentato, dilaniato, straziato da tetro incantesimo.
Un principe spastico cerca il suicidio mediante la spada dello stregone che si tramuta in civetta.
Forze maligne si increspano sulle acque tinte di spume scarlatte, scie di delirio, di angoscia, di morte.
Le ali volteggiano in danza elegante sullo specchio immoto, grigio, torbido, eppure venusto.
La bellezza del dolore, le carezze del suicidio.
Sono rasoi affilati le piume della regina dei cigni, cristalli di delirio gocciolano in ricami di vetro e sinfonie di ghiaccio.
L’orrore natante del cigno nero si tramuta in fanciulla.
L’amore spezza l’incantesimo rivelando l’inganno, per poi trasformarsi repente in lama.
Sul lago rosso sorge una tomba, la spada non ne intacca la muta stregoneria.
Porta sentore di morte l’aggraziato battito d’ali d’ogni cigno.
Solenne il silenzio ammanta la scena mentre la nebbia di novembre s’innalza su ogni leggiadria.
In quell’ora non precisamente scandita la morte regna incontrastata, in ogni tempo, in ogni luogo.
Esangue il cadavere della regina dei cigni giace sulla gelida riva, i polsi tagliati, il pallore eburneo simile al suo piumaggio prima che mutasse di venustà in venustà.
La nebbia di novembre si innalza dalle acque, spettro maestoso che ogni cosa accarezza, così come la morte, in quel sogno di cupo delirio.
Il suicidio danza con la bellezza e l’amore, come sempre e sempre sarà, con la morte.
Nessun suono ora giunge in questo novembre maturo sul lago dei cigni;
Solo lo scroscio delicato delle lente onde sulla riva oscura.
Davide Giannicolo
Allora, da dove cominciare? Naturalmente dal principio, che a quanto pare è tragico, ma non credo scatenante, poiché a quanto mi dicesti fosti abusata da bambina. Ma è vero? O volevi solo travestirti da agnello tra i lupi…
Tuo marito però, quel pelato di Cercola, non sa un cazzo di te, e se lo sa glie lo devo risbattere davanti agli occhi, perché me lo immagino lui quant’è convinto e pure un pò arrogante, allora l’aggia fa suffrì. Perché tu accompagni il tuo figlioletto a scuola e fai la brava mammina, ma la tua fica tra le mutandine ben selezionate è slabbrata come una fisarmonica suonata da un orco dalle mani tozze. Sei sempre stata una puttanella e facevi le seghe(il pesce in mano) a i cuozzi sotto i garage di Cercola, nelle casette popolari di fianco al tuo parco blasonato.
Hai scelto sempre i più infimi, forse per offendermi, offendendo te stessa, tanto lo capirebbe anche un minchione che quest’algoritmo è frutto della rabbia e celebra la tua eterna puttanaggine.
Lo conoscevo bene quel posto, ci ho fumato hashish assistendo i miei amici fare cover dei Nirvana in quelle cantine claustrofobiche. Mi ci sono fatto un piercing mentre bevevo whisky in un appartamento sopra. Tu invece facevi il pesce in mano a Marcello nei sotterranei, e quando me lo disse, Marcello, un tamarro esagerato, un cuozzo senza storia, come ci rimasi male, hai sempre amato questi soggetti, questi bifolchi. E se ci rimasi male io, ci deve rimanere male pure il pelatone della Cercola, che sicuro è un cuozzo pure lui. È normale che tutto ciò non ha valenza letteraria, che il mio pubblico non deve prendermi sul serio, deve solo sapere che hai la fessa sguarrata e questo è il tuo algoritmo.
Crescendo ti lasciai un po’ perdere, chissà quanti te ne sei chiavata, conto bifolchi di San Sebastiano al Vesuvio che non parlavano nemmeno l’italiano, i tristi rappresentanti della razza umana li sceglievi tutti tu, e adesso la troietta accompagna il figlio a scuola.
Poi a chi ti sei chiavata? È così difficile tenere il conto.
Arrivò internet, nei primi del duemila, e ti aprì un mondo di possibilità. Scopasti gente in camere d’albergo sperando che ti facessero fare l’attricetta (stai ancor a Cercola e accumpagn o creatur a scol). Portasti la tua fica in Grecia, ho pure le foto, a farti sbattere da un certo aspirante pilota di aereoplani, e io venni con te, glie lo dico io al pelato, come mi piacerebbe averlo qui davanti adesso per raccontarglielo bene, sentivo i tuoi gemiti attraverso la parete, ma non soffrivo no, poiché già mi facevi schifo come un polipo che si agita nella melma, il tuo algoritmo già ci aveva separati in maniera indissolubile, fu per questo che venni anch’io, fu una definitiva amputazione della cancrena che eri tu.
Decidesti di fare l’animatrice nei campeggi in Sardegna, mi ci volevi trascinare dentro, fortunatamente rifiutai grazie a qualche Angelo ribelle che mi fece riflettere. Puttana, anche lì scopasti sfigati assurdi, tutte le tue azioni finivano nel bidone infinito della tua fessa sfondata. Il pelato le sa queste cose?
Andasti all’università e ti lasciai perdere, perché non ce la facevo più, riuscisti anche lì a trovare un tamarrello senza macchina che ti eiaculava in giro, in giro credo sia su tutto il corpo che per tutta Napoli nella cinquecento giallo canarino che ti aveva comprato il babbo per chiavare là.
Andasti a Londra, sempre coi soldi di tuo padre, e non oso immaginare quanti cazzi, di quante razze, ti facesti ficcare dentro. Il mio algoritmo è per forza di cose impreciso, quello perfetto puoi tracciarlo solo tu, forse…
Poi hai trovato questo coglione che ti ha sposata, che probabilmente non sa un cazzo di te, che dorme al tuo fianco ogni notte e magari ti schifa pure. Hai un figlio, che non sa quanto sei Troia, ma un giorno forse lo saprà, se incontrerà Marcello, che abita vicino a te, a cui facevi il pesce in mano, o Peppe, che ti scopava in macchina, o me, che ti volevo solo bene, e stanotte ti ho sognata, trauma irrisolto della mia vita disperata.
Dovevi rimanere nella cloaca di Londra, dove tutte le zoccole vengono dimenticate, dove ogni algoritmo si annulla, invece sei voluta tornare riaffiorando dall’oblio come un ratto espulso da una fogna intasata.
Salutami il Pelato e digli che non deve offendersi, perché sono anch’io senza capelli.
Davide Giannicolo
Il treno sferraglia sul ponte di fronte al balcone, inquieto ed inquietante il fantasma della carnalità resta immobile sui binari e fissa la donna dalla pelle ambrata nella casa fatiscente.
Denti bianchissimi addentano un frutto troppo acerbo, labbra grosse, laide, suggono il nettare come fosse sangue bianco.
Il fantasma del desiderio, immobile sui binari, estrae un membro liscio e inizia a carezzarlo; La scimmia glabra lo fissa, paralizzata, il frutto nelle mani, silenziosa sul balcone, la veste da casa stretta sui capezzoli turgidi e lunghi come dita.
Il treno che sferraglia nella giungla di cemento, non c’è un albero, sole artificiale, ratti nascosti, mattoni marci, pietre vetuste.
Il fantasma della carnalità sui ciottoli dei binari mentre il treno violenta il silenzio con scintille di metallo, eiacula.
Scene del ghetto, emulo di Masoch ma più terra terra.
La vulva rossa della donna ha delle scosse, proprio come quelle provocate dal treno che sferraglia. La veste da casa scostata da mano tremante sua propria, adesso anche il suo frutto di carne, dall’acre odore esotico, produce un latte denso che cola lungo le cosce tozze. Dita che frugano irrequiete nel fradicio, luminoso, nerissimo pelo che sormonta la scarlatta bocca affamata e implorante.
Tremore, calore, fuoco nel ventre.
Orgasmo sul balcone nel deserto di cemento, non c’è un albero, non c’è un’anima, il treno si allontana, degrado, vergogna, tremore, sporcizia, bruciore tattile, ferita umida, spossatezza, appagamento, colpa, morte dei sensi, tristezza, olezzo di carne, pelle semisvelata.
Il fantasma della carnalità sorride, anche la scimmia glabra ricambia, masturbazione reciproca, platonica, corpi che vibrano e non si toccano in una magica stregoneria di lontananza.
Tornerà il giorno dopo, proprio come il treno, in un gioco adulto di trasgressioni urbane e domestiche.
Lui prigioniero dei binari della stazione, lei incarcerata nella cadente casa serraglio dall’intonaco scrostato.
Il silenzio del primo pomeriggio uccide ogni cosa nel quartiere remoto.
Tutto è finito come le gocce viscose e luminescenti del desiderio.
Fino al prossimo treno.
Davide Giannicolo
Il sole tramontava, rosso come sangue sul rovente asfalto di fine estate. Il vecchio sedeva a una panchina, all’ombra di un grande albero, nessuno sapeva da quanto tempo fosse lì, non era stato visto da anima viva, un reietto, un invisibile di cui non si cura neanche un passante.
Osservava il campetto da basket, tutto in cemento, di fronte a lui, cinto da pali gialli e una rete verde arrugginita e sfondata. Immobile fissava i ragazzi giocare, adolescenti sudati che tiravano al canestro e ragazzine che pattinavano intorno a loro come mosche ronzanti su una carogna.
Ammirava i ragazzini con un leggero sorriso sulle labbra, dietro gli antiquati occhiali da sole il suo sguardo era simile a quello di una faina che da lontano, ma abbastanza vicino da avere la bava alla bocca, tiene d’occhio le grasse galline che svolazzano goffe in un pollaio, in attesa del momento giusto in cui ingozzarsi spargendo in un tetro banchetto piume insanguinate.
Un ragazzo alto dall’aspetto di un rapper lo urtò facendogli cadere gli occhiali da sole, la figura esile e trasandata del vecchio si chinò per raccoglierli.
“Che cazzo vuoi vecchio bavoso? Guardi le nostre ragazze? Vattene a fanculo e gira a largo da qui!”
Avrebbe voluto saltargli in faccia e mangiargli quel volto arrogante, ma non poteva, poteva solo incolpare sé stesso per essere uscito così presto. Tutto da attribuire alla noia e alla sua attuale, squallida sistemazione che non gli consentiva svaghi.
Così si allontanò tra le risate di scherno delle ragazze.
“Bravo vattene! Ci scommetto che avresti tirato fuori l’uccello e avresti cominciato a menartelo qui davanti a tutti vecchio pervertito!”
Dietro all’albero dove c’era la panchina vi era un terreno incolto e brullo che conduceva a un declivio, che a sua volta portava a un fosso di edera ed erbacce malsane, lì sorgeva una baracca fatiscente e abbandonata, lui viveva in quel posto, o meglio ci si nascondeva, in completa decadenza. Tra ratti, vermi e larve consumava il suo sonno mattutino, nel tardo pomeriggio si destava affamato e soprattutto in estate l’attesa della notte era insopportabile.
Stava per compiere un errore fatale, quei ragazzi erano così pericolosamente vicini al suo nascondiglio, come quando rubò accanto alla panchina la carrozzina con dentro il neonato, nonostante il pasto sublime come non ne consumava da anni fu un miracolo che polizia, pompieri e volontari non lo stanarono da quel fosso impervio in cui rimase nascosto per giorni mangiando topi e luridi insetti, non voleva ripetere quella terrificante esperienza.
Si diresse allora verso la fermata dell’autobus che dalla periferia lo condusse nella cittadina vicina. Scese in una zona malfamata e buia, sotto una sopraelevata che faceva da tetto a molti reietti tra lampioni tremolanti intorno ai quali orbitavano sciami di gialle falene notturne. Allora finalmente si nutrì, scelse un africano ubriaco che giaceva su un sudicio materasso sfondato coperto di stracci. Il suo sapore però era disgustoso, sapeva di cibo in scatola e alcool scadente. Mentre gli squarciava la gola con un coltellaccio arrugginito da macellaio e affondava le labbra nella ferita per suggere il liquido nero, in rantoli bestiali, contrariato e deluso pensava:
“Non sarebbe stato meglio cibarsi del sangue di quelle ragazze giovani e in fiore? Anche a costo di farsi scoprire e morire, compiere un ultimo pasto decente, piuttosto che nutrirmi di questa immondizia?”
Era tardi ormai, la sera lasciava spazio alla notte, una pallida luna piena si stagliava al di là del ponte della sopraelevata, scempio urbano che squarciava il cielo. Decise di tornare a piedi alla sua tana tagliando per i campi che separavano la piccola città dalla periferia residenziale. Il cammino fu lungo, i ragazzi non c’erano più
al campo da basket, tutto era deserto, un’immensa solitudine circondava quella landa desolata di cemento silente.
Tornò alla baracca, sazio ma disilluso, col pesante fardello di un’angoscia incontenibile sul petto, il vampiro era infelice, triste, nel suo giaciglio sperduto nella brughiera, ma aveva un sogno, che forse era un suicidio: l’indomani la faina, si sarebbe lanciata nel pollaio, nutrendosi a sazietà in un sanguinario banchetto…
Davide Giannicolo
Talvolta accade, in una notte di luna rossa, soprattutto in autunno o nel gelido inverno, che le tombe dei cimiteri si scoperchino e aiutate dalla pioggia scrosciante, tra veli di nebbia spettrale, le mani dei morti affiorino dal terreno come funghi malvagi.
Corpi decomposti, scheletri nefasti, bocche verminose, si muovono barcollanti in cerca di carne, mosse da un oscuro desiderio, abomini innominabili e blasfemi, offensivi alla natura stessa, varcano i cancelli del camposanto dirigendosi verso le case ove dimorano i vivi.
Fu proprio ciò che accadde quella notte, in cui la donna si risvegliò di soprassalto in seguito alle carezze gelide di oscuri sconosciuti, mani viscide come pezzi di macelleria le scorrevano lungo il corpo, stringendole i seni, insinuandosi tra le sue gambe, penetrando invadenti nelle mutandine e poi nei recessi della sua intimità. Inutili le grida, inutili i singhiozzi e il pianto disperato. Cazzi verdi, in cui brulicavano vermi, erano già all’altezza della sua faccia, come arieti invadenti chiedevano di sfondare il portale della sua bocca serrata umida di lacrime. Le verghe pulsavano, vibranti come molle impazzite, le mani adunche e scheletriche afferravano i suoi capelli costringendola ad avvicinare la bocca a quei turgidi randelli minacciosi, mentre altri strappavano i suoi vestiti e la sua biancheria intima.Sentì la bocca di uno di loro infilare la grigia lingua decomposta nella sua vulva, allora aprì la bocca cercando di gridare e subito un fallo putrido e viscoso le si infilò nella trachea spingendo con prepotenza. Altri cazzi di zombie la penetrarono, instancabili, lacerando ano e vagina, intanto denti famelici e mani nodose staccavano brandelli sanguinanti della sua carne, mangiandola in un tetro banchetto mentre fiotti scarlatti imbrattavano le lenzuola, le pareti candide ed il di lei corpo nudo.Presto sangue e materia organica furono un tutt’uno mentre fuori la pioggia scrosciava irruenta. Sazia, la gang di non morti continuò tutta la notte a fottere un cadavere scempiato di cui ormai si vedeva parte di scheletro in alcuni punti. Quando giunse la plumbea alba dalle nebbie angoscianti, il gruppo tornò al cimitero, ricoprendosi di terra come fossero lenzuola nei loro giacigli funerei.Attenti dunque alle notti di luna rossa, serrate bene porte e finestre quando scroscia la pioggia e imperversa la tempesta d’autunno, poiché la gang dei non morti non è mai stanca dei propri bagordi e carnali voglie.
DavideGiannicolo
La spuma delle onde si tinge di rosso cinabro infrangendosi contro scogli ostili, neri rasoi che celano incubi e lamprede, fino a condurre alla sabbia frastagliata di cocci di gusci marini e cadaveri di granchi bianchi come spettri, la mia prigionia.
Ulisse, sette anni, ricordi ancora il tuo nome?
Incantesimo, stregoneria, l’eterna solitudine di Calipso. Non mi libererà mai, non tornerò, o sono io a non volerlo?
Olezzo di alghe marce, isola deserta, letto di conchiglie, inerzia, sortilegio, non riesco a muovermi.
Cuore straziato.
Nostalgia.
Costrizione.
Isocrono dolore.
Non voglio, non riesco ad abbandonarla.
Il mare si scaglia contro le rocce giorno e notte, luna sanguinante, sole nero, monotonia, ipnosi, sogno.
Il suono di una malia senza tempo che il tempo cancella, non sono più me stesso, non esisto più, prigioniero dell’amore di Calipso. La amo anch’io? Me ne sono convinto o mi ha persuaso il meccanico lamento delle onde?
Non è come essere preda delle mostruose fellatio di Scilla e Cariddi, di viscose zanne e taglienti bivalve.
No, questo è ugualmente un incubo, composto però di immobilità ed eterno silenzio, impotenza arrendevole, catena invisibile, peso schiacciante sul petto, paura dell’ignoto e del domani lontano da lei, anche se ella mi repelle come la carezza di una medusa tra i fluttui notturni.
Non posso, non voglio tornare, non posso non voglio abbandonarla, la amo, ho paura, l’isola mi inghiotte, incantesimo, malia, affascino, sortilegio.
Il suo sesso rosso e salato m’annega in un mare di sogno, polpi e murene m’avvinghiano senza che io possa formulare nemmeno un pensiero.
Penelope, mia amata, dimentica i giorni felici, non attendermi, io sono perduto.
Davide Giannicolo
Il ghetto era molto antico, i suoi scantinati avevano visto i secoli e ne avevano anche l’odore. Ora era un coacervo di tutte le razze, persone provenienti da remote regioni dell’Africa e dell’Asia minore occupavano palazzi cadenti e popolavano quegli antichi scantinati, vagavano per scale silenziose, spacciando spezie e droghe, hashish e magia nera.