mercoledì 30 novembre 2011

GIOVANE SANGUE DI LUPO






Giovane sangue di lupo

Era il 1813,  non ero il tipo d’intellettuale che piaceva molto alle donne, sarà stato per le mie manie selvagge, o forse per i peli che non lasciavano vergini neanche le mani.
Mi trovavo in Grecia, dopo aver vagato per l’Italia del Sud, il mio spirito era assetato di qualcosa di ignoto, e ricordo ancora come mi accolsero le coste della Grecia dalla nave, le montagne altere e vetuste di Igoumènitsa che mi chiamavano alla vita ferale.
In quel paese conobbi Polidori, un dottore allucinato che frequentava le bische più malfamate del porto, sembrava cercasse qualche losco farabutto che gli tagliasse la gola, si, pareva proprio così.
Alla fine trovò me, che ubriaco di mirto lo fissavo con insistenza, avevo capito subito che quel figlio di puttana che si sarebbe giocato anche la Madonna era di sangue Italiano.
Fu lui ad avvicinarmi, era a distanza parecchio inquietante lasciando intendere qualche laido istinto omosessuale.
“Molto piacere, John William Polidori.”
Non so come darvi un idea di quell’espressione stralunata, ne come descrivervi il mio stato d’allora, diciamo che esteticamente ero riconducibile ad una sorta di torvo brigante.
Lo fissai dritto negli occhi senza profferire verbo.
Erano mesi che vagavo per le montagne, ho sempre avuto uno spirito poetico, ma troppo mi riempivano quei paesaggi,  ero giovane sangue di lupo, cercavo lo squallore.
Il vecchio Polidori non sembrava arrendevole, mi fissava invadente e io non volevo tagliargli la gola, intanto i turchi taglia gole, e gli ellenici facevano da sottofondo al mio silenzio coi loro scattanti e veloci dialetti privi di gesti, ero in Grecia, lo sentivo sulla pelle quel mare, quell’aria, quella notte diversa.
“Sei Italiano giusto?” gli dissi in cadenza marcatamente Napoletana, il mio fiato alcolico aveva speziato intanto anche la mia barba, me ne accorsi annusandomi il labbro superiore.
“Di origine, si, e che fior d’Italiano, ho parenti importanti, sono un intellettuale, ma che ci vuoi fare il gioco mi tenta! A quanto vedo siamo gli unici Italiani qui. Pittoresco vero questo loro parlare? Dire poi che io sia Italiano sarebbe come dire il falso, ho vissuto così tanto in Inghilterra…..”
 “ Calma, calma, stai parlando parecchio, che c’è? Non conosci il greco? Ti senti solo? Dille a questi qui queste storie, e poi dì un po’, che ci farebbe un nobiluomo come te tra questi monti?”
Polidori pareva cortese e allegro, ma nei suoi occhi scorgevo una palese schizofrenia buona ispiratrice di suicidio.
“ Stravaganze del mio principale, è venuto a isolarsi qui mentre cercava le meraviglie del mondo, chissà per quanto tempo rimarremo in questa valle.”
“ Non pensi che ogni luogo abbia una notte diversa? Un mare che canta con voce propria? Un odore proprio?”
“oooh sei un poeta?”
“Non si vede?”
“Anche il mio signore, Lord George Gordon Byron è un poeta, un grande poeta dicono.”
Diciamocela tutta, Byron non era certo Trant Ranznor, cioè Byron lo schiacciava il vecchio Trant, era uno che appunto in Grecia aveva attraversato a nuoto un tratto impossibile di mare pur essendo zoppo, uno che faceva duelli, un bel tipo per farla breve, eppure a me il nome non diceva proprio niente, ma era il 1813, e io ero giovane sangue di lupo.
“Il mio padrone è un uomo molto eccentrico, è raro qui un così fulgido esempio di archetipo Satanico, sono sicuro che la ospiterà qualche giorno da noi, ammesso che lei sia d’accordo.”
La faccenda non mi allettava, volevo annusare la notte, sentire addosso il di lei soffio, ma la poesia era troppa, bruciava alla nuca, dovevo mantenere un minimo di senno e sfuggire alla notte licantropa.
Seguii Polidori con sdegno, avrei bruciato l’intera villa ove stavo per andare se fossero stati tempi diversi, ma questa volta avevo il serio proposito di giocare all’intellettuale, avrei recitato la parte dell’artista estroverso che conversa con un esiliato nobile Inglese.
 Il viaggio in carrozza fu affascinante, la luna Greca si specchiava nel lago raveno della notte, i boschi cantavano magiche melodie di fascinoso smarrimento.

Giungemmo alla sontuosa residenza di Lord Byron, tralascio le cazzate dei domestici letteralmente sconvolti dalla mia presenza, decisi che avrei presto mangiato le tenere carni della domestica piccola piccola che timida mi guardava di fronte.
Ma presto il padrone stesso uscì a darmi il benvenuto, zoppo figlio di puttana completamente imbottito di laudano e oppio.
“Vieeeniii dottore!” urlò, “vieni! Arrivi giusto in tempo per i giochi della notte!”
“Quest’uomo si gode la sua arte.” Dissi a Polidori.
“Già, senta io vado a farmi una puntatina.”
“Una puntatina? Dove?”
“Diciamo che è un gioco d’azzardo molto azzardato, ci giochiamo ogni notte le cervella, come si chiama da voi? Roulette Russa, le ho detto che ho un debole per il gioco.”
Dove ero capitato? I signori Italiani avevano smarrito il senno o questo era un po’ sopra agli altri?
Entrammo dentro anche noi seguendo la corsa efferata di Lord Byron, lo spettacolo fu breve, Polidori fu il terzo a premere il grilletto del moschetto, perse il quarto: un maggiordomo.
Byron rideva isterico e proprio non si reggeva:
“Dottore, dottore, che noia pervicace, tu pensi di potermi battere a duello?”
Polidori afferrò un tavolino di vimini e lo fracassò sulla testa ricciuta del suo padrone.
“Sono ben stanco di queste sue provocazioni!” disse il folle medico, “ Forza si faccia avanti!”
Byron s’alzò e annaspò vacillando fino al caminetto, sopra, incrociate vi erano due grosse spade.
Byron ne afferrò una e cominciò a menare fendenti con gli occhi accesi e l’espressione Satanica.
Il povero Polidori se la svignò, non senza però lanciargli contro qualche rara porcellana che il nobiluomo fracassò a colpi di spada.
“ Vede caro lei che razza di infingardo essere è il mio medico personale? E gira armato sa ?
con  tanto di pistola, e mi ha sparato anche contro un’infinità di volte. Gira per i campi al crepuscolo e spara alle contadinotte come fossero tortorelle.”
“Quello sei tu, maniaco!” gridò Polidori  sbucando di scatto e mostrando solo la testa alle spalle della porta, Byron gli lanciò contro la spada che fracasso qualche antico mobile settecentesco.
Intanto la camerierina che avevo giurato di mangiare era giunta a dare una ripulita, per terra vi era ancora il cadavere del domestico uscito perdente dalla roulette.
“Juliette vieni qui, inginocchiati e succhiamelo.” Disse Byron con nonchalance alla cameriera.
“Si padrone, ma non faccia come il signor Polidori che mentre lo faccio mi percuote con forti pugni alla testa, la prego signore.”
“Conosci la mia raffinata eleganza dolce bocciolo.” E la piccola fremette.
Dannata casa di pazzi, non sarei rimasto certo ad assistere al pompino di Lord Byron. Andai via amareggiato, almeno la cameriera potevano lasciarmela.
Mentre andavo via, in giardino incontrai Polidori che s’era giocato tre dita e un orecchio ai dadi con il cuoco negro e aveva perso la scommessa, ora il cuoco esigeva il risarcimento alla sua vincita e Polidori era indeciso e logorroico.
Non badai neppure a loro, contemplai la luna che mi chiamava alla poesia dei boschi, dalla finestra vidi Byron, quel gran bastardo mi sparava contro con un grosso fucile da caccia, fanculo quei nobili, io cercavo la pienezza ancestrale della Grecia, solo oggi penso a quello che mi sono perso con quei figli di troia a causa della mia licantropa misantropia.

©Davide Giannicolo

 

Il licantropo e la studentessa

francesca woodman marò
Il licantropo e la studentessa.
Di Davide Giannicolo.
 
Lara stava giocherellando con il suo lecca lecca al limone e vi passava la lingua di sbieco come se volesse levigarlo in una stranissima, indefinita forma. Il crepuscolo uccideva ogni bagliore e la fatiscenza dei cassonetti dei rifiuti tentava di invadere le strade semideserte della città borghese.
La ragazza pensava in maniera sbarazzina a cose assurde e irrealizzabili, frivole ma quasi complesse nella loro incompiutezza.
“Pensa se fossi una spice girl, strafiga su tutte a dominare gli uomini tra feste d’ogni tipo, invece sai che palle papà a casa con la tele che mi aspetta e si masturba le cervella, l’autobus che non arriva e gli albanesi coi coltelli che sbucano dagli angoli.”
Effettivamente un Albanese fuoriuscì poco dopo da una piccola collina di rifiuti accatastati. Aveva pantaloni di pelle e maglietta nera unta e ricoperta di lattughe, cominciò a fissare Lara con insistenza da necrofilo.
“Ed eccolo manco a farlo a posta che sbuca l’albanese, cazzo fanno sempre più paura.”
Ma l’albanese in realtà si fermò in mezzo alla strada e vomitò un cerbiatto blu, poi ci si mise a cavallo e sgommò nella sera incombente.
Lara strizzò gli occhi, poi si mise a posto le mutandine, a sedici anni a volte ti vengono le traveggole se la tua sessualità è repressa.
Finalmente spuntò l’autobus all’orizzonte.
“159 Scordate poesia e cose profonde” vi era scritto sulla didascalia luminosa, ma Lara non vi badò.
Nel pullman vi era una vecchietta e una ragazza, erano le uniche persone oltre il conducente e se ne stavano sedute l’una accanto all’altra.
Lara si divertiva a sentirle parlare come spesso faceva quando non aveva niente di meglio da fare.
“Cosa fai dunque bella principessina?”
“Studio igiene filosofica del sadomasochismo vaginale, ma in realtà vorrei fare la scrittrice, ho scritto già un libro, si chiama Socrate contro Dracula.”
Al che la vecchietta si alzò dal sedile e cominciò a vomitare addosso alla ragazza, poi si strappò con le unghia le carni di dosso, in una cruenta, sanguinolenta e violentissima esibizione scenica la vecchia si scuoiò aprendosi in due come avesse una cerniera dalla quale svettavano immani quantità di sangue maleodorante.
La ragazzina era tutta impastata di vomito e sangue e ne Socrate ne Dracula potevano spiegarle cosa stava succedendo.
La vecchietta aveva rivelato la sua vera identità, era un diabolico essere metà DeFilippi metà Costanzo con al posto dei genitali un enorme fucile da caccia a doppia canna.
Un colpo sfondò il fegato della fanciulla aspirante scrittrice che si spiaccicò sul finestrino alle sue spalle colando come un pomodoro marcio.
Lara era sconvolta mentre osservava la scena, e intanto però notava che nuovamente le mutandine erano bagnate, che strana storia, che cazzo era quel essere mezzo Maria mezzo Maurizio? E l’albanese sul cerbiatto blu?
L’essere mostruoso gettò in terra la sua prima, sanguinante pelle di vecchietta, si avvicinò a Lara con fare laido e lascivo da cui si intuivano propositi di sadismo e affilata penetrazione.
Ma d’un tratto l’autobus si arrestò di botto, il goffo essere fu catapultato e fece un capitombolo fino ai piedi dell’autista che ora s’era alzato in piedi.
Era un grosso Licantropo peloso e ringhiante, era talmente grosso che poteva strappare via le lamine del pullman con gli artigli, probabilmente era un Ursus Cimiterialis, uno dei più grossi lupi mannari sulla piazza.
Il grosso licantropo fece a pezzi l’essere diabolico e ne disseminò i pezzi lungo tutto l’autobus, lo sfracellò senza emettere nemmeno un ringhio.
Lara sussultò, e ancora le sue mutandine, e non solo, si rivelarono esser bagnate.
Il lupo la fissò e le disse:
“Posso penetrarti con il mio grosso membro peloso?”
Ed allora le mutandine di Lara furono inondate, letteralmente travolte da una diga affluente. Il mannaro  le strinse le morbide carni nelle mani artigliate, la denudò ferocemente e le fece vivere il rapporto sessuale più brutale ed estatico della sua sedicenne vita, stare qui a raccontare i particolari sfocerebbe nel pornografico, insomma Lara fu penetrata ovunque e in ogni modo plausibile dalla licantropa foga. Umida lingua titillava umide parti intime con trasporto grottesco, membro peloso le carni faceva pulsare con il suo attrito dissacratore. Spinte violente, gemiti disumani, carni in movenza sublime oltraggiavano il pudore e la logica.
 
Quando si risvegliò e capì che era tutto un sogno Ezio Greggio era sopra di lei e la fotteva a sangue con in testa un frontino con le corna da satanasso.
Lara aveva sedici anni, e avrebbe dato il culo per fare la velina.
 
Dedicato a coloro che vogliono circondarsi solo di stronzate, che non meritano poesia ne sublime metafora, che forse non se ne accorgono, ma sono proprio dei coglioni.
 
©Davide Giannicolo

Testamento di un poeta

Ero un poeta, ma non stavo bene con me stesso,
ora non so più molto di me stesso,
dormo e lavoro
mentre produco insensatezza
.
bocklin

Dimmi qualcosa riguardo la luce

 



Dimmi qualcosa riguardo la luce.
Di Davide Giannicolo

La civetta osservava con l’abisso dei suoi ambrati occhi nella finestra del monastero semi diroccato, all’interno flessuose ombre decoravano il chiaro di luna con vacue movenze inumane, simili alla seta sollevata delicatamente dalla brezza della sera.

D’un tratto la civetta si lanciò in un volo maestoso e attraversò la gotica e alta finestra, nella notte lo sbattere violento delle sue ali appariva flemmatico, lene come il silenzio.
Avviluppata dalla fitta ombra il rapace scorse un bassa figura bianca, vestita di stracci, un bianco topolino vestito di stracci.
La civetta si posò lenta e delicata sulla spalla di quella che si rivelò essere una bambina, pallida, consunta, palesemente cadavere.
La bambina sorrise, e quel sorriso fu inquietante quanto il sangue che si intravedeva sugli ingialliti denti di lei nell’atto di concederlo all’uccello.
Le sue manine erano livide, con una di esse porse un ratto all’uccello che con il becco le vezzeggiava le rade chiome d’un colore indefinibile.
“Questa notte avrò la mia prima figlia artiglietto, vieni.”
Il suono di quella voce infantile riecheggiò lungo i corridoi deserti del monastero abbandonato ove la tenebra ammantava ogni cosa, la civetta rise isterica , ubriaca di impazienza, doveva assistere alla nascita di una sua sorella.
Alle spalle del monastero vi era un antico cimitero in disuso, l’incombenza claustrofoba  di quel edificio ora liberava la bimba nella fresca brezza che ondeggiava leggera, mentre le lapidi tutto intorno sussurravano un fugace messaggio.
Di lontano tra le tombe si avvicinò una figura di donna, di sposa vestita, di morte truccata, incedeva mentre gli spettri del chiaro di luna baciavano la sua pelle inchinandosi.
La donna vestita da sposa era completamente imbrattata di sangue, ancora più scuro nella notte esso segnava il pallore del suo viso ed il nivore dei  vestimenti che indossava.
Ella si avvicinò alla bambina, le prese il mento fra le mani e in fine le sorrise, anche lei orribilmente inquietante, come lo era stata la bambina tra gli spettrali corridoi del monastero, vi era qualcosa di perverso in quel sorriso, rivelatore di laidi propositi.
La sposa afferrò la civetta e la sbranò impiastricciandosi di sangue il petto ed il volto sottile, poi ne gettò in terra il corpo morto e sorrise ancora più allucinata guardandosi follemente intorno.
“Io ti ho creata mia sposa. Tu mi accompagnerai lungo il cammino della notte, è stata una brutta azione quella di scotennare artiglietto, tieni a freno le tue zannette piccolo roditore, per riparare al tuo errore non mangerai per tre giorni, e se mi tradirai reciderò i tuoi seni e li getterò agli scarafaggi.”
La donna soffiò come fosse un gatto, con gli occhi folli onusti d’un lucore diabolico inchiodati in quelli della bimba.
Ma la bimba ruggì, un ringhio gutturale innaturale, feroce come una coltellata. Artigliò il volto alla sposa, la costrinse a stare in terra e le salì sui seni violacei, le artigliò il volto provocandole quattro profondissimi tagli obliqui, aveva conficcato gli artigli fino all’osso.
Il volto della ragazzina era imperativo e serissimo, mentre la sposa si lamentava  dibattendosi ed emettendo versi inquietanti.
Con ferocia di belva impazzita la  bambina le strappò di colpo la lingua e la gettò sull’erba del cimitero, la vittima a cui lei stava impartendo severe lezioni d’obbedienza emise un urlo che raggelò anche il frinire dei grilli.
“Tu devi prestare obbedienza a me soltanto, poiché dalla tua carne morta ho ridestato la vita, eri in punto di morte, avevi tagliato i tuoi polsi a causa del tuo amore tradito, questa cosa mi ha profondamente commossa, solo un anima come la tua, disposta ad annegare nel sangue il legame perduto può essere a me affine, non sarò più sola adesso, poiché è a me che hai sacrificato parte del tuo sangue, si, impaziente l’ho bevuto forgiando il nostro eterno legame.”
La sposa non poteva rispondere, ne parlare, la lingua le era stata recisa.
La bambina le fece una carezza, dopo averla lungamente fissata le baciò la fronte, prima con tenerezza, lasciando poi spazio ad un trasporto abbastanza lascivo. Infine liberò la sua preda,  leggera come un’ombra  raccolse la lingua dall’erba e vi  depose su un bacio soave.
“Questa la terrò io, se sarai buona te la ricucirò, così che tu possa interpellarmi.”
Non era molto dolce questa bimba.

Durante il sonno nella bara la sposa tentò di fuggire, lei, la bambina, la rincorse e le recise le mani, poi la gettò in una fossa , lasciandola lì per tre giorni.

Milena, questo era il nome del piccolo, inquietante essere, era nata così, partorita forse da un essere della sua stessa razza o forse figlia di se stessa.
Viveva nel monastero da quando aveva ricordo, ed era sempre stata sola.
Per lunghi, lunghissimi anni aveva esplorato l’edificio sia nelle sue più recondite fondamenta, sia all’esterno nella più accorta prudenza.
Aveva capito durante i primi anni della sua vita che poteva dominare i sussurri degli antichi, innumerevoli spettri che erano i patroni di quei luoghi sconsacrati. Non ne era stata mai spaventata, nonostante le inquietanti, fievoli voci l’avessero sempre accarezzata con lasciva, intimidatoria perversione.
La civetta era  stata la sua prima ed unica eterna amica, solo con lei Milena cessava di essere mesta e imperiosa per divenire dolce, infinitamente dolce, solo a lei aveva confessato i suoi segreti, le sue paure inconfessabili che la spingevano a volte a suicidarsi con la luce.
Era suo istinto evitarla, non concepiva il perché, sapeva solo che immergersi nella fonte dorata di un raggio di sole le sarebbe costato puro, insondabile dolore.
Questo era il segreto di Milena, l’attrazione peccaminosa e letale nei confronti del bagliore del sole la poneva d’innanzi alla morte, cosa poteva desiderare un essere come lei, dominato dalla tenebra, dannato nel sempiterno oblio della negazione, un essere solo al cospetto della pura bellezza del cielo limpido che bacia il mare mediante sinuose lingue di ardente sole, cosa poteva desiderare Milena se non una danza soave con la morte?
Quando anche la civetta morì, mangiata dalla sposa che lei stessa aveva reso come lei, la bimba eterna fu perforata da un lancinante strazio, il fatto di essere stata privata dell’unico essere che l’aveva capita, cullandola con le carezze del suo becco, fu insopportabile presa di coscienza, si ritrovava sola, come era suo destino ignobile sin da principio, e al posto della sua unica amica vi era una ribelle sposa puttanella che lei stessa aveva creato per colmare il vorticoso baratro della sua solitudine.
Milena si sedette su di un catafalco di pietra, era nelle cripte del monastero ove vi era anche la sua bara, vi si appoggiò morbida e leggera, poi posò delicatamente la sua fronte nel mezzo della piccola manina bianchissima, scoppiò in una violenta crisi di pianto, i suoi singhiozzi divennero convulsi, fino a quando una presenza non si rivelò come un soffio di argentea luna.
Quando Milena alzò gli occhi velati dal pianto intravide il diafano spettro della madre superiora.
Era una donna bellissima, era priva di vesti monacali e appariva nuda, non era suo solito rivelarsi a Milena così.
“Pensi che la tua eterna solitudine sia incolmabile? Almeno tu puoi morire bimba demoniaca che hai invaso questi luoghi inviolati da anni con il tuo passo caprino. Io sono confinata qui, in eterno, a causa dei miei peccati innominabili. Dimmi, quale sorte sia la peggiore?”

“Dimmi almeno qual è il mio peccato spettro, dimmelo e io andrò in contro al mio destino in maniera solenne.”


Il peccato di Milena era quello di essere  nata così, di essere figlia della tenebra, e di essere sempre stata sola con la civetta.

Ma questo la suora non lo sapeva, così non potette far altro che tacere.

“Tu cos’hai fatto spettro? Dimmelo! Dimmi chi poi giudica le azioni degli esseri come me!”


“Io non so tu cosa sia bambina eterna, so che bevi il sangue degli uomini nottetempo e dormi in una piccola bara, riguardo a chi o cosa giudichi sia me che te è impossibile risponderti, io ignoro molte più cose di quanto non sappia!”


Milena scattò dal catafalco e furente si rivolse allo spettro:

“E allora perché vieni qui a tormentarmi bastarda? Perché non strisci nell’oscurità e sparisci dal mio sguardo che brama dilaniare le tue informi carni? Vuoi consolarmi patetico essere? Non puoi e non osare mai più girarmi intorno con i tuoi patetici singhiozzi.”

Lo spettro mutò la sua espressione di tormentata tristezza e s’accinse a liberare le cripte di Milena, aveva già svoltato il primo angolo quando la sentì gridare:


“Aspetta fantasma!”


La suora ritornò cautamente lungo il percorso che prima aveva attraversato saettando, vide Milena nuovamente seduta, con le piccole gambine dondolanti al di la del catafalco.


“Non mi hai più raccontato del tuo passato donna morta, cos’hai fatto, ti sei suicidata?”


L’espressione di Milena era dolce e tristissima, gli occhi velati da una liquida nube di pianto.

Si scorgeva in quegli occhi una solitudine eterna, una solitudine da ella stessa non ancora compresa, poiché troppo immensa da sopportare.
E lo spettro questo lo notò, notò che l’infante creatura notturna non aveva ancora accettato la sua condanna ed era per questo che cercava compagnia nella notte.

“Io sono stata uccisa dalla mia passione, ho amato un’ uomo che non m’amava ed un’ uomo che non amavo ha amato me, quest’ultimo ha ucciso sia il primo che me, in questo convento, cento anni or sono.”


“Ed eri una suora?” sussurrò Milena un po’ ripresa, metà infantile, metà mesta regina vampira.


“Si, avevo preso i voti poiché l’uomo che amavo mi aveva ripudiata, e l’altro giunse qui di notte mostrandomi la testa di lui, un folle sanguinario brutale. Voleva condurmi con lui, ma quando io mi opposi egli mi uccise.”


“Dovevi pensare al suo amore, l’amore d’un altro è una cosa che si deve sempre rispettare, io non ho mai avuto l’amore di un altro.”


La suora trasalì, quella bambina emanava la tristezza più insopportabile che una qualsiasi entità possa emanare, la solitudine era il fondamento di quella esistenza che sembrava essere composta di buio immenso.


“Dovevi pensare al gesto che aveva compiuto quel uomo, ha ucciso per te, si è bagnato nella tragedia per te, e tu invece amavi un altro.

Beffardo non credi? Per me ha fatto bene.”

La suora non sapeva cosa dire, effettivamente aveva pensato spesso alle sagge parole di Milena anche prima, ma adesso che senso aveva, ora che dimoravano nella torre a metà fra il sogno e la vendetta?


Milena proseguì indispettita:

“Per una persona come me, che è nata sola e non conosce niente al di fuori della propria solitudine non sai quanto sarebbe importante trovare un uomo disposto ad uccidere per me!
Da questo deduco che tu sei una gran troia madre superiora, e che non tollererò mai più la tua vista.”

Lo spettro fuggi pavido lasciandola nuovamente sola, giacente sul catafalco di marmo.

La piccola decise di dormire lì, non aveva voglia di stare nella sua bara. Il suo sonno stava sollevandosi leggermente verso i castelli del sopore quando avvertì sottili mani carezzargli le gote, quel tocco era gelido velluto, eppure familiare amore materno, ma il tocco mutò indirizzo carezzandola più in basso, verso il ventre.
Milena riconosceva la morte in quel tocco, riconosceva la familiarità della morte che l’aveva generata, ma la tenerezza di quel gesto fu infranta da un sentore lascivo, qualcosa di malevolo che da sempre accompagnava il sonno di lei, di Milena la bimba eterna nata dalla morte.

“Dimmi qualcosa riguardo la luce, te ne prego!”


Questo sussurrò Milena un istante prima di svegliarsi ed era nuovamente notte, eterna notte dagli infranti sogni vacui ove mai luce alcuna si scorge.


©Di Davide Giannicolo 03 05 2005

 Dedicato alla solitudine, alla tetra malinconia, alla mancanza di sbocco.


  

Manipolazione di organi genitali

Manipolazione di organi genitali.
di Davide Giannicolo



Quando sono ubriaco sono capace di nefandezze frustranti, una volta mi trovarono infilzato mezzo morto sul cancello di un cimitero.
Mi salvai per poco, all’alba, un po’ svenuto e un po’ in collasso etilico pensavo ad angeli d’argento che stuprano Luisella, Luisella è una tipa a cui ho orinato in bocca, rappresenta un po’ tutte le lettrici del cazzo di Stephen King.
Luisella non sa però che ero io, perché ero mascherato da nano medievale, praticamente l’ho aggredita dal basso e l’ho schiavizzata con un uncino.
Era il periodo in cui masticavo prozac al posto del cornetto a colazione e mescevo gin con subatrex.
Ero un vampiro, di giorno ero mollo e inoperoso, di notte ero ferocia.
Quando gli sbirri mi hanno tirato giù dal cancello mi hanno anche chiesto cos’era successo e come mai avevo così tanti coltelli.
“Mi arresti brigadiere, ho pisciato in bocca a Luisella”. Ma il brigadiere invece mi portò all’ospedale, dal quale uscii un mese dopo.
“Non puoi bere più!” mi disse il medico, avevo lasciato scorrere quantità immani d’alcool sulle sbarre del cancello, scivolato via insieme al sangue in quella notte di delirio.
Naturalmente corsi a prendere un bottiglione di vino e buttai giù qualche giro di basso chiuso in casa, sinfonie malevole, chiuse in loro stesse, depressive.
D’un tratto cominciai a giocherellare con il mio pene, rilassato come il sonno d’un bebè.
Cominciai a sbatterlo contro le corde del basso fracassandomelo a sangue, quel dolore mi fece pensare all’ambiguità della morte, all’ipocrita faccia del mondo che doveva a tutti i costi versare sangue e invece si opponeva a se stessa vivendo in un chimerico dramma ove regna la menzogna.
Da che conosco il mondo, da quando sono nato, c’è sempre una cazzo di guerra, c’è sempre chi incula l’umanità, c’è sempre l’odio, la rissa, il confronto fisico e la carne desiderata attua ad appagare il desiderio di sangue.
Da che mondo e mondo ci siete voi coglioni pronti ad applaudire, a venerare le veline, a credere nella divina intercessione di Costanzo, a creare futili cazzate naturale gesto di chi come voi è deleterea merda ipocrita e codarda.
Il vostro amore è la prostituzione dell’essenza a favore del materialismo dei sensi, tutto quello che vi circonda è una farsa recitata una merda e non ci posso credere che voi, maledetti coglioni, ci crediate sorridenti.
Ma no, voi non ci credete nemmeno, voi vi ci adagiate, come chi è infingardo, muto, dinnanzi al torto subito.
E voi vi chiedete perché ero infilzato al cancello del cimitero?
Perché non vi chiedete il perché mantenete milioni di coglioni fottuti vip senza che essi svolgano una precisa ne tanto meno fondamentale mansione nella società!
Perché!?
Perché non vi togliete dal volto imprenditoriale quel sorriso lobotomizato?


Così d’un tratto afferrai un coltello bello largo e mi amputai il pene, lo affettai lentamente, soffrendo atroci tormenti che mi aprivano le porte dell’essenza, dolore divino, poiché da me stesso inflitto.
Galleggiavo nel mio sangue vergognosamente disteso in una posa d’abbandono. Giunse Rottenhead, il mio cane, e cominciò a leccare il lago di sangue dall’acre odore invitante al suo faccione di mastino, poi scorse il mio membro sul pavimento poco distante dalla polla, capii subito cosa voleva fare.
“Non osare mangiare il mio cazzo Rottenhead!!!!” urlai furibondo.
Ma ero troppo debole per muovermi, intanto Rottenhead mangiava il mio pene che scuoteva e sgretolava per la stanza.
Ed ecco che entra il brigadiere Baccotti.
“Lei è in arresto signor RottenVlad, la riteniamo responsabile di aver pisciato in bocca a Luisella Verdelli!”
Mi ricucirono due o tre pezzi di cazzo, ora non mi serve a molto, ho però schiavizzato ancora Luisella(in galera ci ho passato dodici anni).
Ho di nuovo staccato il mio membro e gli e l’ho fatto mangiare. Ora sto aspettando che lo espella analmente, lei invece aspetta che io muoia dissanguato, chi giungerà per primo?
                                                                                                                              

Ambulanza nella notte

 



Ambulanza nella notte
Di Davide Giannicolo

Ambulanza nella notte,
untuoso il suono scorre tra le natiche della studentessa dormiente; s’inerpica, lascivo come un serpente, il graffiante eco.
Un eroe romantico, orribilmente fatto di tavor, incede sul balcone della studentessa, è notte fonda, e in pugno stringe una rosa, mentre maschera e mantello coprono le distorte forme del suo corpo psicoalterato, o forse è una mannaia quella che brilla fra le sue mani? Si forse non sono fiori,  forse l’eroe romantico orribilmente fatto di tavor era lì per disfare con la lama quelle giovani carni bianche che avvelenavano le ombre.
Ambulanza nella notte,
vuota, solenne, come un carro funebre vomitato dal becco d’un pellicano cannibale affamato di niente.
Per chi arriva non ci interessa, è progressivo il niente di voi stessi e non intacca la bellezza, varca sogni di illusioni pretenziose infrangendosi tumultuosa sugli scarti vagabondi, quest’ambulanza nella notte, che porta in giro mezzi termini e miseria, a noi non interessa, forse un po’ alla studentessa, poiché il suono di quella sirena accarezza come soffice lingua chiodata i suoi sogni e il suo clitoride.
Ambulanza nella notte,
l’ha vista anche la puttana, mentre sfrecciava come uno spettro luminoso sull’asfalto, ma è stato solo per un attimo, poiché era giunto il 21°  cliente.
“Puoi baciarmi?”
“No!”
“Non mi piace così!”            
“Sbrigati!”
Il grosso uomo fortemente alcolizzato non bada alla pioggia che gli abbevera le membra, cerca un delirio carnale, cerca spettri infausti o sessualità satanica.
Ma la puttana non lo sa, sa solo di un ambulanza poco fa e di soldi da gestire.
“Puttana negra, potevi fare la cameriera e prenderlo in bocca lo stesso ma in maniera onesta!”
Queste erano le parole che i fanali della macchina del 21°  cliente le avevano sussurrato mentre l’ambulanza si allontanava.
“E le puttane bianche allora?”
 Che cazzo ne sapevano di lei quei fanali che non sapevano né scopare né pagare? Prima pagare però, poi scopare.
E quando il grosso uomo era sceso dalla macchina, con in dosso la fradicia maglietta larga e tagliata, il torso nudo per metà, il vino e il whisky a cantare inni blasfemi di ondulata perdizione.
La puttana glie lo succhia ma lui niente, la pioggia lo beccava ovunque stesse, anche ora che gli alberelli della pompa di benzina riparavano lei accovacciata ma non lui, il suo corpo fuoriusciva dalle fronde per metà, palesemente grottesco, irrorato dalla pioggia e stordito.
Lei era gran pompinara, stringeva le labbra come un cappio, ma lui niente, niente, solo profonde distese di Whisky, polipi viscosi, sirene silenziose, e poi lei era antipatica, non voleva scoprirsi le tette mentre lui era fradicio e a torso nudo nel freddo della notte e oltre a pagarla era anche costretto ad implorarla.
“Fanculo la strada e queste maledette puttane! E’ comunque un modo simpatico per spendere i soldi!”
Riallacciandosi i pantaloni andò via spedito nella sua auto lasciando la puttana accovacciata e implorante a sua volta:
“Sei ubriaco, sei ubriaco capisci? Non posso farti venire!”
Ma ormai era nuovamente sola.
 
La studentessa dormiva intanto, lei che di pompini ne faceva gratis, ma
solo a chi voleva lei, ben inteso?
“No, io non ho inteso, io che sono la mannaia e me ne fotto, ma ho visto generalmente gente vergognosa stare tra le gambe di quella lì!”

Donna incinta nella notte,
nuda, seducente, d’un opulento candore, lontana incede in baratri carnali.
Il grosso cliente numero 21 la osserva sgomento, poi l’ambulanza la prende in pieno, dritta davanti, lei si spappola in molteplici pezzi scarlatti, il feto sbatte con umido, secco suono contro il parabrezza del cliente 21, quest’ultimo finisce dritto nel fianco dell’ambulanza e tutto si capovolge.

Sangue nella notte,
fiamme deboli di labile realtà.   
Un eroe romantico orribilmente fatto di tavor accorre, ha la testa mozzata della puttana di colore attaccata al cazzo in atto di fellatio, estrae una lunga, luminosissima lama d’acciaio e con essa si infligge dolore e spappola la testa della donna, ben presto egli muore, ucciso da se stesso, attorniato da una pozza di sangue che scorre dal suo ventre.
Anche il 21° cliente è fatto, il feto materno gli accarezza la faccia sanguinante offrendogli un tavor recuperato, un istante dopo il feto si introduce nella bocca dell’uomo che si contorce fra le lamiere, vi si inabissa velocemente, forse il piccolo voleva stare ancora dentro, forse colui che lo aveva inghiottito era il suo futuro o attuale padre.
Ci fu un enorme scoppio proveniente dal retro dell’ambulanza in fiamme, attorniato dagli echi di distruzione di quella notte fuoriuscì il misterioso ospite, era una bimba di si e no dieci anni, nuda, di quelle piccole piccole.
D’un tratto la bimba comincia a gemere, la sua piccola vagina profumata vomita tre polipi viscidi e inquietanti nel loro contorcersi sull’asfalto, poi dalla vagina fuoriesce una leonessa, imperiale nella sua eleganza si guarda intorno emanando armonico splendore.
La piccola vagina vomita molto sangue dopo orribili spasmi ecco uscire dal ventre ormai deforme di lei uno squalo, una perla ed un’ampolla.
Fu allora che la studentessa si destò, bagnata dal lacrimante suono dell’ambulanza nella notte.

©davidegiannicolo

Solo Duri

solo duri copertina
                                                       clicca qui per leggere il pdfMicrosoft WordUna storia dura, aspra e violenta, priva di ciascun disincanto, narra dell'efferatezza, la noia, la solitudine interiore e la mancanza di scrupoli di una gioventù bruciata.
Racconto semi autobiografico di uno dei maggiori scrittori contemporanei, uno scontro tra adolescenti annoiati e una gang di lesbiche violente, ecco a voi il prototipo, la bozza che poi diede vita al romanzo "Solo duri come l'asfalto che e natiche vi abbevererà di dolore"
Un racconto cruento e senza scrupoli come la giovinezza del suo autore Napoletano da cui è attinto a piene mani.



Harry Splatter e la Fuga verso lo Scolo



                     
                    
                
  HARRY SPLATTER E LA FUGA VERSO LO SCOLO
Si risvegliò cullato dalle onde, supino sull’acqua, le braccia spalancate come se fosse stato crocefisso al salato liquido turchese, alto nel cielo ardeva un sole assassino, lo stesso sole che aveva desiderato scaraventare sulla terra così da poterla incendiare in un rogo funesto, adesso l’astro infuocato ustionava il suo volto, era implacabile, forse offeso dall’arroganza di Harry.
L’apprendista fallito distolse lo sguardo dal disco fiammeggiante, quel gesto era la testimonianza del suo fallimento, non poteva reggere al confronto con il sole, impossibile sfidarlo tenendo gli occhi fissi nei suoi, poiché avrebbero miseramente preso fuoco.
Una nave dalle larghe e maestose vele era vicinissima a Harry, aveva solcato l’orizzonte avvicinandosi lentamente, varcando i fluttui con il suo scafo imponente, l’apprendista però non l’aveva notata, troppo occupato a contemplare la propria disfatta, ma ora che essa era a pochi metri, sovrastandolo con la sua immensa ombra, non poté fare a meno di scorgerla.
Si trattava di un galeone pirata di dimensioni gigantesche, la polena raffigurava un fauno di cui l’immenso fallo era puntato minacciosamente innanzi a sé come fosse una spada, la scultura di legno era così reale, l’espressione del fauno così minacciosa e i suoi occhi furentemente macchiati di sangue così ben fatti da terrorizzare Harry all’istante, ad accrescere il timore fu la bandiera che sventolava in cima all’albero maestro e ciò che essa rappresentava: su uno sfondo nero vi era raffigurata una donna, o forse è meglio dire il tronco di una donna dai grossi seni, la testa, le braccia e le gambe mutilate, non vi erano dubbi riguardo quell’effige, si trattava dello stendardo del feroce pirata Von Sodom il pazzo, noto narcotrafficante cocainomane, necrofilo, sodomita, spietato e antropofago, di lui si diceva che mangiasse peni e vagine, che tagliasse gole con la facilità con cui ci si pettina.
Dal ponte apparve un gigante barbuto, la piccola parte del volto non coperta dalla barba era ornata da serpeggianti tatuaggi, il petto nudo, anch’esso coperto dalla nera barba e dai tatuaggi che coprivano tutto il tronco, l’eloquenza dei tatuaggi confermava lo stesso gusto della bandiera, raffiguravano donne, uomini e bambini mutilati in un inferno di tortura, affollamento di corpi martoriati del tutto simile a un quadro del pittore fiammingo Hieuronymus Bosch.
Lo sguardo di quell’uomo era pervaso da abissi di follia, occhi costantemente spalancati, figli dello stupro e del delitto.

“Tiratelo su per Dio, o vi spacco le reni con la mia mazza ferrata!”
L’ambiguità di della frase mobilitò immediatamente gli uomini, anch’essi tatuati e abbronzati all’estremo, un gruppo di questi si calò mediante delle scale di corda fino a raggiungere la superficie dell’acqua, l’abilità da nuotatori di costoro non necessitava l’uso di scialuppe.
“Sembra morto capitano, anzi, decomposto!”
“Meglio, me lo scoperò fino a farlo diventare uno scheletro e anche oltre! O qualcuno di voi preferisce prendere il suo posto?”
Harry trasalì a quell’affermazione, quale infima sorte lo attendeva? Era sfuggito ai maghi per cadere nelle mani di un necrofilo trafficante di cocaina.
I marinai afferrarono Harry non senza repulsione:
“Che schifo, è ricoperto di pustole!”
“Già, ormai il capitano fotte anche i rifiuti marini!”
“Spero di suscitare lo stesso ribrezzo anche al capitano Sodom!”
Pensò Harry mentre veniva trascinato su, peso morto che si fingeva incosciente.
Lo distesero sul ponte bollente arso dal sole, subito l’estremo calore gli contorse lo stomaco, tossì convulsamente, si voltò su un fianco e vomitò i tre litri e mezzo d’acqua che aveva inghiottito sul fondo dell’oceano, poi aprì lentamente gli occhi, una scia di bava salmastra gli tingeva il mento e le screpolate labbra; intorno a se vide facce segnate dalle cicatrici, torvi sguardi da criminali, occhi scolpiti dal misfatto, dal saccheggio, dal delitto e il furto, ad alcuni mancava un occhio e lo fissavano con l’unica iride sospettosa, altri portavano uncini al posto dei moncherini, altri ancora gambe di legno, arti perduti in risse, scorribande attraverso i mari e battaglie coi guardacoste.
L’individuo più spaventoso però restava Von Sodom il pazzo, che guardava Harry con occhio lubrico, famelico, sessuale, per lui il risveglio di quel mostriciattolo era stato come il dischiudersi di un fiore purpureo che mostra l’umida corolla, corolla che lui bramava dilaniare mediante la sua possente cuspide, turgido pungiglione che già gli si gonfiava sotto il grasso ventre.
“E’la creatura più bella che abbia mai visto!”
Disse con voce sognante il folle pirata.
Harry non si aspettava un simile slancio poetico da un così rozzo lupo di mare, poi realizzò che profferite dalle sue labbra necrofile, quelle parole non erano certo da considerarsi una lusinga.
“Sembra morto, putrescente, ma non lo è, non è un corpo inerte, è vivo, vivo e caldo, fatti toccare!”
E Von Sodom si chinò su Harry, lo sfiorò con la bramosa mano, callosa a causa dell’usura causata dal manico del pugnale con il quale aveva sgozzato milioni di innocenti.
“Voglio scoparmelo subito, subitooo!”
Il colosso barbuto infilò la lingua in bocca all’apprendista , si, la fetida bocca di Harry Splatter, sulla quale nessuno aveva mai osato posare le labbra, adesso invece profanata dalla grassa lingua di un pirata che frugava fin nei suoi più intimi recessi come se avesse voluto leccargli le viscere, giungendo con il suo viscido tocco fino ai molari marci e le gengive grigie, tumefatte, che al tocco espellevano grumi di pus giallo.
Il pirata non provava ribrezzo, anzi era estasiato, innamorato, in un pederasta, necropedofilo colpo di fulmine.
Harry intanto rimaneva passivo, una bambola mostruosa assoggettata ai voleri del gigante, il bacio durò venti minuti buoni.
“Diverrai il mio secondo, mi accompagnerai lungo i sette mari, ma adesso vieni con me, sto esplodendo, voglio succhiare le piaghe purulente del tuo sfintere, profanarti i budelli, empirli del mio possente nettare!”
Il pirata afferrò Harry per un braccio trascinandolo nella sua cabina mentre la ciurma se la rideva sguaiatamente, sorrisi sdentati, quasi nessuno desiderava i favori violenti del capitano Von Sodom, vizi che quasi sempre sfociavano nell’assassinio del partner sessuale, nessuno aspirava a simile sorte, tranne i suicidi recidivi e i masochisti all’ultimo stadio naturalmente, s’intende.
                                           
Non appena furono soli ebbe inizio il delirante amplesso, i preliminari furono disgustosi e violenti, ma Harry continuava a subire passivamente, Von Sodom consumò immani quantità di cocaina e tre intere bottiglie di Bourbon, così alcolizzato e fatto si spinse ai limiti estremi dell’efferatezza, pestò Harry a sangue, lo legò al letto, con il suo coltellaccio arrugginito dalla salsedine tagliuzzò le carni purulente del ragazzino, poi, estraendo il suo membro mostruoso, lo strozzò con esso, conficcandoglielo fino in gola come fosse un pugnale, eiaculò nella bocca mescolando sperma infetto a infetta saliva, in seguito mise Harry prono, infilzando il suo ano con una gamba di legno appartenuta a un defunto amante, continuò fino a farlo sanguinare.
Venne sei volte, poi svenne completamente ubriaco, lasciandosi andare addormentato sull’esile corpo del raagazzo che quasi soffocava sotto il peso di quella lardosa, sudata, tatuata e pelosa bestia cocainomane.

                                                                         *
“Sono stato dragone di fuoco e adesso invece sono la puttana di un corsaro, la verginità che non ho perso con la bellissima sirena me l’ha fatta perdere lui analmente, da tre mesi mi costringe a baciare le sue chiappe segnate dalle cicatrici del vizio, a succhiare le sue emorroidi come faccio con il suo fallo, sono ancora vergine però, non si è mai fatto inculare, che consolazione del cazzo.”
Harry pensava sul ponte notturno, osservando la luna circuita dalle giocose stelle.
“Che almeno il mare torni ad amare la luna, che spezzi la quiete di questa tavola immota con il fragore delle sue onde adirate!”
Udì dei passi alle sue spalle, Von Sodom, completamente ubriaco e barcollante, giunse fino a lui, gli cinse le spalle con le possenti braccia, come fosse un amante romantico che contempla la luna con la sua innamorata, infilò la lingua nell’orecchio cesellato di croste di Harry Splatter, l’ispida barba che passava sul collo donava carezze latrici di laidi propositi.
“Stiamo per sbarcare sull’isola delle Battone Ninfomani, dopo mesi di mare e omosessualità sia io che i miei uomini abbiamo bisogno di sani bagordi, Naitha, la matrona dell’isola-bordello è una vera cagna, sono intere notti che sogno la sua umida, nera caverna, inoltre l’alcool sta per finire, lì hanno delle ottime distillerie artigianali, portiamo con noi un grosso carico di coca, ne baratteremo una parte con whiskey, puttane e oro!
Vai in cabina e cambiati, ho fatto fare un completino a posta per te, camminerai al guinzaglio, non posso mostrarmi clemente nemmeno per un istante, capisci? C’è in gioco la mia sanguinolenta reputazione!”
Harry tacque, come aveva sempre fatto dinnanzi ai soprusi, tranne quella volta in cui il suo grido interiore era esploso divenendo puro fuoco.
In cabina lo aspettava il suo completo, una tuta in latex nero cosparsa di campanellini e pon pon, una maschera con lampo sulla bocca, guinzaglio e collare, la indossò senza fare storie, mentre Von Sodom cadeva, perdutamente ebbro, in un sonno profondo.

                                                                             *
Il giorno dopo sbarcarono sull’isola delle Battone Ninfomani, Harry si muoveva al guinzaglio del suo padrone scampanellando ad ogni movimento, vergognandosi di sé stesso e di quegli abiti che ardevano sotto il sole cocente emanando un forte odore di preservativo scadente.
Già sulla spiaggia si respirava un aria di festa, ragazze di tutte le nazionalità, seminude, accolsero gli schiamazzanti scellerati, alcune di loro erano grasse e sdentate, altre magre come sciacalli, ma altre ancora sembravano veramente belle, di una venustà sensuale che a Harry Splatter non era dato conoscere, chissà, forse dopo tre mesi di prigionia e torture sulla nave di Von Sodom forse avrebbe perso la sua verginità con una di quelle donne meravigliose ed esotiche.
Ma Von Sodom non lasciava per un istante il guinzaglio che teneva stretto a sé il piccolo mago fallito, che veniva strattonato, umiliato, mentre il grasso corsaro brandiva perennemente una ambrata bottiglia.
I bagordi si protrassero per tutto il giorno, tra droghe, canti ubriachi, alcool e sesso; di tanto in tanto scoppiava una rissa o si vedeva una donna sanguinante sbucare dagli alberi, inseguita da qualche nudo pirata intento a reciderle un seno o il clitoride, presto però nell’isola lambita dal mare tropicale calò il silenzio, puttane e puttanieri si erano addormentati tra i fumi dell’alcool che aveva avuto il sopravvento sull’ebbrezza della coca, Von Sodom giaceva nudo sulla spiaggia con addosso tre cagne cellulitiche, russava profondamente e aveva finalmente mollato la presa dal guinzaglio di Harry, solo dalla grossa capanna-bar-lupanare provenivano musica e grida deliranti, un pappagallo starnazzava:
“Scopala, spaccala questa puttana cinese e dopo sfregiala, sfregiala!”
Era ovvio che il pennuto era stato allevato da un pirata.
Si era finalmente manifestata ad Harry l’occasione propizia per scappare, si alzò lentamente, i campanellini non destarono l’addormentato Von Sodom, così ne approfittò per dirigersi verso il mare affondando i suoi passi nella sabbia leggera, si denudò subito liberandosi di quell’orrendo suono scaturito dalle sue vesti perverse, rimase in mutande, orribile e magro come la zampa di un ragno.
Sulla riva erano arenate più scialuppe, mentre la nave, immenso monumento di tenebra, con il suo fauno apotropaico dal minaccioso membro eretto, era ancorata verso il nero mare aperto.
Spinse la scialuppa e vi montò sopra, lo scrosciare dell’acqua e la spuma bianca ricamata nella tenebra gli annunciarono la libertà ritrovata, remò instancabilmente, se Von Sodom si fosse accorto della sua fuga per lui sarebbe stata la fine, un orribile fine di cui faceva orrore il solo pensiero.
Guardò in alto verso il cielo, la luna rischiarava il suo percorso brillando argentea come uno spettro sul mare.
“Troia, non vedi quanto gli fai del male?”
Si riferiva alla fredda relazione che la Luna teneva con il Mare.

                                                                *
Quando Von Sodom riaprì gli occhi si sentì come se una scimmia gli avesse defecato nel cervello, la sabbia lo aveva impanato come una cotoletta insinuandosi anche nelle più recondite pieghe di lardo, notò dopo un po’ che nella sua mano non vi era più il guinzaglio, era solo, le puttane si erano svegliate prima di lui e orinavano nella foresta di palme, ne scorgeva i grossi culi tra le fronde, accovacciate di schiena, come frutti che espellono un liquido dorato, era stata proprio una bella festa.
“Dov’è Harry, dov’è!”
Lo cercò in tutta l’isola, quando realizzò che era scappato lanciò un grido disperato e furente, un grido in cui si mescolavano amore, morte, rabbia, tristezza, dolore e frustrazione.
“In mare presto!”
Harry era già in mare aperto, aveva molte ore d’anticipo sui suoi inseguitori, ma sapeva che le ampie vele del galeone divoravano i fluttui a velocità impressionante, mentre le sue esili braccia già da ore non ne potevano più di remare, dunque Sodom poteva abbrancarlo da un momento all’altro.
Dinnanzi a sé vide una striscia di terra, la raggiunse dopo qualche ora, rapito dal desiderio di cercare un rifugio, una volta conquistato il bagnasciuga si lasciò cadere sfinito sul letto di umida sabbia, fu in quell’istante che udì il sinistro schioccare di chele innaturali e il suono dello zampettare di un enorme granchio che gli si avvicinava.

Il granchio aveva le dimensioni di un cane di grossa taglia, era repellente nella sua armatura grigiastra e la bocca mostruosa che faceva scattare convulsamente una sorta di piccola antenna, questa andava orizzontalmente avanti e indietro senza fermarsi mai, come fosse un corazzato, rigido, acuminato polmone.
Per giunta sembrava che il granchio fosse in grado di parlare:
“Salve giovane ragazzo, tu devi essere Harry Splatter!”
“Come sai chi sono?”
“La descrizione è inconfondibile, tutti i maghi della terra ti cercano!”
Harry trasalì.
“Qui ci sono maghi?”
“Qui? No, qui ci sono solo io e qualche stupido volatile!”
“Bene, ho bisogno di nascondermi per un po’!”
“Posso offrirti la mia ospitalità, la mia casa è laggiù, tra gli scogli!”
Harry si fidava del grosso crostaceo, una sensazione epidermica che non aveva mai provato, simile a quella che avvicina  gli umani in un bacio senza parole schioccato nel buio, era la prima volta che incontrava una creatura gentile dopo il Mare, che però si era dimostrato essere un pazzo.
Seguì il suo compagno verso la modesta tana fra gli scogli, dopo un po’ si distese deciso a dormire, la stanchezza e il sopore erano orami padroni delle sue membra, ma nel momento in cui stava per cedere al sonno cullato dall’andirivieni delle onde, un quarto d’ora dopo la reciproca buonanotte, sentì il corpo spigoloso del granchio incollarsi al suo graffiandolo dolorosamente; zampe rigide e sottili, aiutate dalle chele, presero ad accarezzargli il corpo in una crostacea danza d’amore, intanto un suono sinistro si innalzava dall’interno del granchio, una vibrazione sonora simile allo scatto di una cesoia, erano le fusa del compagno di Harry, che presto si rivelò essere una lei.
Quel tocco doveva apparire disgustoso, invece ridestò in Harry qualcosa di selvaggio e primitivo, una sensazione promiscua, sconosciuta, innominabile: era  preda di una spaventosa erezione.
La granchiona gli si strusciava contro sempre più, in una tacita intesa Harry cominciò a palparle la corazza e la parte morbida del ventre dove bianche si congiungono le zampe, l’umido tocco di quella carezza strozzava i suoi sospiri, mentre la fragranza del mare si innalzava posandosi intorno a quell’immondo intreccio.
Voleva penetrarla, non sapeva però da dove cominciare, allora la granchia lo aiutò, si voltò mostrandogli il sedere piatto e spigoloso, a un tratto dalla sua corazza, accompagnata da un viscido e untuoso suono, fuoriuscì una sacca trasparente, simile a un fiore vivo, era la sua vagina, candida come la polpa dalla quale proveniva, umida di una bava viscosa, scaglie sottili che la coprivano prima del suo dischiudersi, adesso attorniavano l’organo muovendosi convulsamente, anche quella appariva come una danza amorosa, gli spasmi parevano invitarlo, ad Harry sembrava di notare qualche oscuro organo interno attraverso quelle mucose pareti diafane, il suono vibrante aumentò d’intensità, ipnotizzava Harry spaccandogli lo sterno, allora scattò avanti, mosso da pulsioni quasi elettriche, introdusse il membro con timore in quello splendido orrore, ma al lieve contatto la vulva del granchio agguantò il pene contorcendosi e stringendolo a se, cominciò a far da sola, era gelida e rovente in ugual modo, le zampe ed il corpo del crostaceo restavano immobili immobili, si trattava di un lavoro interno, era come se suggesse il pene di Harry, lo aspirasse dentro se in un  paradiso liquido, un’estasi arcana lo pervadeva infatti, nebulosa di sensazioni a lui sconosciute, dimenticò chi era, da dove veniva, perché era lì, con i sensi oscurati si preoccupava solo di spingere, lo accompagnavano in quel cammino cosmico la foga repressa e la rabbia, allora anche il granchio fu scosso dall’estasi, il suono delle sue antenne mascellari divenne più umido, denso, poi Harry esplose nel suo ventre polposo, inondandola di pastosa bruma, aveva perso la sua verginità.

                                                                           *
“Resta con me!” Disse la granchia.
“No, non posso, mi stanno cercando, ti ucciderebbero con sadismo, è ora di apprendere seriamente la magia come voleva quel negromante alcolizzato di mio nonno, andrò all’isola delle scimmie pazze.”
“Sei pazzo, nessuno può fare una cosa del genere!”
“Io sembro un coglione, ma ho sentito anch’io le leggente su Saduront! Lui ce l’ha fatta!”
“Saduront è solo una storiella che raccontano agli imbecilli”.
“Non ho scelta, mi faranno a pezzi se non ci provo!”
Harry salutò così il suo primo amore, con il ventre ancora caldo montò sulla scialuppa e cominciò a remare verso Est senza voltarsi indietro, era lì che si trovava l’isola delle scimmie pazze.
Era ormai in alto mare quando un bruciore funesto si fece sentire sulla punta del suo pene, rabbrividendo lo tirò fuori al fine di controllarsi, era gonfio, cosparso di macchie e liquami purulenti, prudeva dolorosamente, la punta rossa come la cresta di un gallo, si era beccato lo scolo!
Lo diceva sempre sua madre prima di morire che il sesso non porta altro che malattie veneree.
Davide Giannicolo                                                                                          CONTINUA....
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