Gran Garrota era stato invitato nella torre del campanile in cui abitava abusivamente il Canonico Dagger, prete scomunicato e gran maestro di una setta Satanica, per consumare la cena della vigilia di Natale tra le spesse mura medievali riscaldate da una stufa a legna. Altro ospite sarebbe stato lo stregone Fravaglio di Triglia, che si guadagnava da vivere con falsi oroscopi e imbrogliando mediante la cartomanzia. C’erano inoltre la monaca che aveva abbandonato i voti, grassa e possidente, condotta sulla cattiva strada dal Canonico Dagger e la ragazzina ululante, di cui si sapeva poco o niente, tranne il fatto che presenziava sempre alle messe nere del canonico standosene in disparte in un angolo e ululando di tanto in tanto.
Il campanile si trovava in campagna, ma Gran Garrota, che aveva lavorato in fabbrica fino al giorno prima, voleva scaldarsi in procinto della cena, sfogarsi un po’ e farsi qualche regalo di Natale. Allora uscì di casa nel primo pomeriggio, guidò fino alla fermata di un autobus che portava ai bassi fondi della città, dalla parte opposta in cui era atteso per il cenone, molte ore dopo. Occultò la macchina in una strada fuori mano e salì senza biglietto sulla corriera, voleva immergersi nell’atmosfera dei reietti sin da subito. Sul pullman c’era un miscuglio di varie razze, ispanici, africani, islamici provenienti da terre remote, Gran Garrota li osservava con la bava alla bocca come fossero dolci natalizi, gli piaceva immergersi nello squallore come il messia di Lautrèamont che si distende nell’immondo giaciglio di un postribolo abbandonandovi un loquace capello dell’aurea chioma.
Dopo circa mezz’ora la corriera vomitò i passeggeri dall’acre afrore tra le strade fatiscenti della città attanagliata dal gelo. Garrota scese con loro, il freddo accarezzava il suo lungo cappotto di pelle nera, un colosso dal volto mezzo celato da una Coppola grigia, guanti neri di capretto, incedeva nelle strade puzzolenti in cui le varie etnie, per il giorno di festa già cucinavano immonde pietanze composte dalle più svariate spezie e carni di sconosciuti animali.
Entrò nel negozio di un cinese, prese fascette, nastro isolante nero, ganci d’acciaio, schiuma da barba, rasoi di plastica da poco e una borsa in simil pelle nera attua a contenere il tutto. Violentò la brutta cassiera asiatica visto che il negozio era deserto, la sgozzò e la lasciò in un lago di sangue dietro al bancone. Portava sempre con sé un lungo e largo coltello da caccia a lama fissa per questo tipo di esperienze.
Gli venne fame ed entrò in un piccolo, sudicio locale che vendeva kebab, si rinfrescò con una birra e ordinò un panino, lo consumò lentamente, osservando gli avventori slavi e arabi, cercando di scatenare una rissa. L’odore della cipolla cruda e il grasso crepitare di quella carne dalla provenienza sconosciuta che girava sullo spiedo verticale dinnanzi al fuoco lo eccitò ricordandogli un piccolo inferno medievale, così, non sapendo più resistere frantumò la bottiglia vuota sul cranio di un moldavo e infilò il collo tagliente della bottiglia rotta nella pancia di un marocchino. Li stese tutti, compreso il gestore del locale, rimpinzando le loro carni coi frammenti di vetro e quando non bastarono, li abbuffò con l’irremovibile, puro acciaio della lama.
Ormai si era fatto buio e la magia del Natale era ancora più inebriante. Voleva comprare delle anguille, da cuocere sulla brace avvolte in foglie di lauro, da portare al Canonico Dagger, sarebbero state deliziose, il solo pensiero gli infuse calore in quella serata gelida.
Andò dal pescivendolo, un giovane bengalese gli stava facendo un lavoretto di bocca nel retro bottega, Fravaglio di Triglia avrebbe detto che il giovane garzone, pagato in nero e a pochi spiccioli, stava “pulendo il pesce” come da tradizione. L’omone inzaccherato di frattaglie ittiche spinse via il piccoletto bengalese lasciandolo con la bava alla bocca, si sistemò i calzoni e andò al bancone a servire il cliente.
“Metti i guanti merda umana, voglio delle anguille vive della specie grande detta Capitone e ringrazia che non ti uccido, perché sei l’unico italiano che ho incontrato stasera!”
Comprò cinque bellissimi esemplari giganteschi, vivi si dibattevano nella busta di plastica puzzolente mista ad acqua dolce. Rivide in quella scena un nuovo, piccolo inferno medievale e si eccitò ancora.
Lì vicino abitava Sashi, un suo misero e sudicio collega della fabbrica, anche lui un ometto musulmano del Bangladesh come il tipetto di poco prima che arrotondava alla vigilia dal pescivendolo.
Sapeva dove viveva Sashi perché lo aveva già seguito una volta, incuriosito dalla nana scimmiesca di sua moglie, anche lei era stata assunta da poco nello squallido posto dove si guadagnava da vivere. Essendo islamici non avrebbero festeggiato il Natale, ci avrebbe pensato lui ad allestire un bel presepe poco prima del cenone. I regali che aveva preso dalla cinese erano per loro.
Varcò la soglia del vecchio, fatiscente palazzo dalle mura marce, scrostate, cadenti. L’androne puzzava di stufato speziato in un cimitero mediorientale a cielo aperto, carcassa di pollo macerata nella merda condita con coriandolo, curry e cipolla.
Scassinò la porta, con la grazia e il silenzio di un cigno nero, all’interno la puzza di spezie straniere lo invase ancora di più , trovò quasi subito, uno dopo l’altro due ragazzini adolescenti, li stonò di botte al volto, legandoli poi saldamente col nastro isolante. In cucina incontrò Sashi, lo riempì di schiaffi, di peso, senza che questi potesse opporre resistenza, lo schiantò su una sedia e immobilizzò anche lui sapientemente col nastro nero. Ora poteva dedicarsi completamente alla signora, che a quanto pare era in bagno. Fu presa dal terrore quando si trovò davanti al colosso, le afferrò la gola, la sollevò e con la mano libera le strappò di dosso il pigiama denudandola. Le strinse una fascetta al collo senza soffocarla ma provocandole dolore, una alle mani e una ai piedi fino a segnarle con strazio le carni. Le infilò un gancio in una guancia facendola sanguinare abbondantemente, sul seno e sul ventre ambrato e gonfio. L’altro gancio fu fissato alla fascetta che servì a issarla su un pensile della cucina tenendola sospesa come una martire. Sashi guardava tutto con terrore. Sua moglie era nuda, sospesa nel vuoto, mentre agitava le corte gambe, sanguinante. Un rigoglioso cespuglio di pelo nero le ricopriva il pube come un manto animalesco,
arrivando fino all’ombelico. Gran Garrota spruzzò abbondante schiuma da barba sul mantello ispido, con il rasoio dalla lametta poco affilata cominciò a depilare la donna, grattava senza grazia; un rumore simile a un rostro di cavalletta stuprava la stanza mentre il pelo veniva via e la donna ansimava, presto emersero tagli ed escoriazioni, la vagina della bengalese mussulmana appariva ormai glabra come quella di una bimba. Sashi si dibatteva, Garrota lo tramortì con un pugno in testa, la donna piangeva, gridava singhiozzando frasi di diniego e richieste di pietà, che non fecero altro che infervorare l’aguzzino.
Garrota liberò due anguille, grasse e viscide, della specie che lui preferiva, ne infilò una nella vagina gonfia e arrossata poiché depilata di fresco e l’altra nella bocca della donna che si dibatteva. La lasciò così, stuprata da quei serpenti acquatici, legata su un gancio alla cucina.
“Si è fatto tardi, tornerò a incularti un’altro giorno!”
Gran Garrota si allontanò silenzioso, come un fantasma, per le scale nel suo nero cappotto, che pareva il mantello di Maldoror. Prese una corriera al volo, mentre ormai il gelo e le stelle volgevano verso la notte della natività. Solo pochi passanti si attardavano dirigendosi verso le calde dimore piene di parenti e amici. Tra le luminarie natalizie che salutavano il quartiere deserto, le finestre erano già piene di luce e appannate dal vapore caldo della cena imminente, dietro i cui vetri si udiva il vibrare di risate e voci in festa.
Il pullman era vuoto, se lo immaginava guidato da un conducente dalla faccia di teschio, per le strade non c’era anima viva.
La corriera spettrale lo condusse in campagna, dove recuperò la sua automobile. Erano le otto di sera, abbastanza in orario, gli piaceva arrivare per ultimo quando era atteso.
Il campanile era maestoso, immerso nell’oscurità. Quando salì le scale nere e buie, percepì le voci di sopra e una tenue luce conviviale. Immenso fu il calore quando gli aprirono la porta, il profumo del buon cibo, il lucore della stanza antica, il tepore della stufa, la compagnia dei suoi simili.
“Ho portato dei capitoni, hai del lauro vero Dagger?”
Il padrone di casa annuì senza parlare.
L’ex monaca grassa già lo fissava con occhi famelici, mentre la ragazza ululante gli sorrideva con follia demente.
L’unico a parlare, già palesemente ubriaco e rosso in volto accanto al fuoco scoppiettante fu lo stregone Fravaglio di Triglia.
“Sei sempre l’ultimo Gran Garrota....puzzi di sangue, torture e ossa rotte come al solito!”
Davide Giannicolo
La torre del campanile e i personaggi al loro interno sono liberamente tratti dal romanzo “L’Abisso” di J.K. Huysmans al quale l’autore porge un palese e grato omaggio.
L’ambientazione razzista, il titolo e lo squallore sordido dei bassifondi sono un omaggio al racconto “L’Orrore a Red Hook” di H.P. Lovecraft.
Il racconto è tra l’altro disseminato di tributi e omaggi al Conte di Lautrèamont.
Davide Giannicolo