venerdì 16 dicembre 2011

IL VOLO


Un fiore bianco fluttuava nei grigiori dell’alba, abbandonato alla danza della brezza, evocando delicatezza pacata, eppure maestosa nel suo volteggiare.
Un petalo di quel fiore si staccò da esso, posandosi leggero sul volto dell’uomo che camminava solingo.
Cinta al fianco l’uomo portava una spada; nudo il petto esposto alla fredda brezza. Lungo gli impervi sentieri del monte egli vagava, cercando se stesso nel proprio sangue.
Velati i suoi occhi dal violaceo sfumare di notti insonni, trascorse a udire il suono della notte in quel luogo sinistro, meditando la morte sulle placide note del torrente scrosciante.
Una lugubre bruma circondava il monte mentre il sole nascente si faceva spazio, ma cattive nubi offuscavano il cuore dell’uomo, una grigia tempesta si scatenava nella sua ribollente anima.
Udì il canto degli uccelli, ebbro di solitudine, trascinava se stesso lungo un sentiero che non conduceva all’immensità del mare, ove impetuosi dormono i sogni, ove fertile s'erge la vita e sorge la speme, frenesia di dolci passioni.
Il suo cammino invece portava in alto, sulla cima del monte, in alto verso le stelle, verso l’infinito, l’ignoto del Tutto; il suo cammino conduceva alla morte.

Sedette ad una roccia, era stanco, le sue braccia gelate tremavano, tirò con l’arco una freccia mirando verso un punto lontano, il dardo si scagliò saettando verso il cielo, smarrendosi nell’immenso, turchese abbraccio del mattino appena sorto.
L’uomo sorrise e si rialzò, muovendosi lento verso il silente picco, la notte prima aveva parlato col fuoco, si era immerso nei sussurri delle fate, che già dal crepuscolo lo avevano persuaso al suicidio.
Aveva purificato il proprio spirito in quella notte, allontanato da sé ogni demone della sua antica pazzia, ogni macabro sussurro capace di offuscare la sua mente.

Giunse presso un tempio imperioso, severo il crocefisso troneggiava sul tetto, mentre il giardino di quel luogo maestoso cantava di pace e riposo; un morbido giaciglio per le sue stanche membra, un luogo d’esilio dove avrebbe espiato ogni colpa, soffocato ogni desiderio.
Attese dinnanzi all’alto cancello, la brezza lo avvolgeva nuovamente, donando arcani brividi alla sua pelle.
Un monaco lo raggiunse all’ingresso.
“Pax Vobiscum!” Disse il sottile uomo ottenebrato dalla grande stazza del guerriero, che fu subito accolto.
Silenziosi, entrambi, percorsero il giardino ove statue di santi imperavano immote.

Fu condotto nella sua cella, dove avrebbe consumato il proprio esilio, una volta lì, fu nuovamente lasciato solo.
Dopo aver sospirato depose la spada, prima nascosta abilmente agli occhi del servo di Dio, poi giacque sfinito sullo scomodo letto, solo, nel delirio di un sonno dettato dal male.

Erano trascorsi molti giorni nell’isolamento in quella roccaforte tra le montagne, si era fustigato ogni notte con un rosario che aveva aperto rosse piaghe sulla sua schiena, si era cinto di spine; aveva portato di notte, in preda al delirio, un enorme crocefisso sulle spalle.
Aveva ascoltato il silenzio della chiesa notturna, illuminato dal flebile danzare di pallide candele, circondato dallo sguardo dei Santi e dall’enorme, sanguinante Cristo.
Intanto il male gli cresceva dentro, come un’insana prole, affondando di notte nel delirio dei suoi sogni; di nascosto impugnava la sua spada e fendeva l’aria foriera di spettri.

Un monaco bussò un giorno alla sua cella:
“Ti aspettano di sotto!” Furono queste le sue sterili parole.
Scese le scale di marmo, in basso altri monaci lo attendevano al fine di celebrare un rito.
Servile, come mai era stato, egli si inginocchiò dinnanzi al superiore, posò la testa cinta di nero crine sulle sue ginocchia in un atto di totale sottomissione, attua a imitare l’immolazione dello stesso Cristo.
Il suo capo fu rasato, ed era come se le ali di un angelo fossero state tarpate, ora le sue chiome giacevano in terra, ali prive del moto di un tempo, di quando si libravano lucide nell’aria mossa dal vento.

La decadenza si impadroniva di lui ogni giorno, la malinconia di una creatura che si era sepolta viva, rinchiuso in quel sepolcro, schiavo del proprio onore perduto.
Un giorno, molti anni prima, aveva visto una donna pazza danzare alle fiamme guizzanti di un fuoco, quella donna gli aveva insegnato a udire il dolore, aveva aperto il suo cuore fanciullesco al mondo del martirio e quella stessa notte aveva carpito l’ululare dei lupi e il fruscio delle foglie persuaderlo nottetempo a un rituale suicida.
Dormì abbrancato a tali foschi ricordi, un insetto volò nella stanza per poi posarsi sulle lenzuola, un piccolo segno nero, in quella bianca distesa d’angoscia, poi sognò:
Gonfio era il suo ventre , gravido di un’insana progenie, una nera piuma si posò accanto al suo letto, udì un batter d’ali lontano, un’oscura rivelazione.
Si svegliò di colpo, madido di sudore e gelido, fasciato da bianche bende in vita afferrò la spada e uscì nella notte.

Fuggì dal monastero, percorse lo stretto sentiero che lo aveva condotto lì, offuscato da un’ignota forza, ignota malia che lo allontanava dalla vita, conducendolo verso quel cammino  di morte e auto annullamento.
Si chiese quanto immensa fosse la tenebra, si chiese inoltre se la freccia che aveva lanciato si fosse arrestata o se continuasse ancora il suo volo, implacabile e sottile nell’aria, nel tempo, nel tutto.
Giunse ad un precipizio e sospirò, stava albeggiando, nuovamente si innalzava il canto degli uccelli.
Dall’alto del  monastero si udiva il lugubre suono delle campane, il guerriero premette la punta della spada contro il proprio ventre, trafisse la sua anima annegandola nel sangue del di lui sacrificio.
La sua bocca divenne  rubiconda,  percorsa da purpurei rivoli simili a essenza di cinabro, con la spada confitta nel corpo egli si gettò nel vuoto, spalancando le braccia come fossero grandi ali bianche; per un attimo gli sembrò di librarsi in volo, di potersi innalzare come un’aquila e fondersi con le profondità turchesi del cielo, fino a squarciare le nuvole, poi, nell’estasi della morte, si infranse rovinosamente contro le rocce.
Spappolato il suo cadavere giaceva immobile, dolcemente il sangue irrorava la roccia, accanto a lui riposava una freccia, che lì aveva cessato il suo fiero volo.

©Davide Gianncolo

giovedì 15 dicembre 2011

La sacra maestà del dolore


Hai veduto volare
al di là dei bagliori del tempio
la sacra maestà del dolore.

Tigre d’onore,
il vellutato tocco c’accarezza la mente.

Raro e prezioso
l’oscuro segreto,
perla d’ossidiana,
unica.

L’esilio della vergine,
tigre di velluto,
la poesia frustrante
                             delle membra dilaniate.

S’arrampica la bellezza
in evanescenti lucori di leggiadra ossessione.

Erompe la solitudine dei boschi
vibra candida
come fiore carezzato dalla bruma.

Il brusio delle tue gambe
respingo,
poiché l’angelo di ghiaccio si disfa
tra le sbarre
della gabbia dorata.

                                    Davide Giannicolo

martedì 13 dicembre 2011

I Borgia, Manara e Jodorowsky, recensione


Non sono mai stato un’amante dei disegni di Milo Manara, le sue donne mi sono sempre sembrate tutte uguali, i suoi disegni sempre troppo chiari e privi di ombre.
Ora però che stringo tra le mani gli ultimi due capitoli della saga dei Borgia, sono costretto a ricredermi; Manara ha superato se stesso dando vita a un vero e proprio capolavoro.
Questo è successo grazie a uno sceneggiatore che ho sempre amato, sia per i suoi fumetti(i Tecno padri, la casta dei Meta Baroni e l’Incaal con Moebius). Sia per i suoi film(La montagna sacra, El topo, Santa sangre). Sto parlando del grande Alejandro Jodorowsky; un artista eclettico, sapiente e assolutamente fuori dalle righe.
A questo si aggiunge il soggetto, tra i più intriganti e realmente esistiti della nostra storia italiana, parlo della famiglia Borgia, con il sadico e corrotto Alessandro(che fu papa), il folle e bellissimo Cesare, l’incestuosa e seducente Lucrezia e l’omosessualissimo Giovanni.

Intrighi, suore stuprate, bambini sgozzati, sesso di ogni tipo, tra orge vaticane, incesti e rapporti omosessuali.
Incontreremo Savonarola, Machiavelli, e addirittura il geniale Leonardo Da Vinci metterà al servizio di Cesare Borgia le proprie distruttive macchine da guerra in cambio di un rapporto sodomita.
Tra macabre mutilazioni, uccisioni sconsiderate e guerre per il potere, i due autori ci catapulteranno in uno scorcio della nostra storia “reale”; assolutamente riconducibile alle documentazioni storiche.
Un’unica pecca a questi quattro volumi, al di là del titanico tempo che ci hanno messo ad uscire, a me appaiono troppo sintetici e riassuntivi, per quella che a mio avviso poteva rivelarsi un’opera monumentale, capolavoro assoluto del fumetto mondiale.

Grazie ai disegni di Manara, che ha padroneggiato soprattutto nei magnificenti colori e nella sua sapienza architettonica(molte magioni d’Italia sono perfettamente riprodotte tre le pagine di questi volumi) e alle geniali trovate di Jodorowsky che ahimè mi lascia un po’ di amaro in bocca, visto che a mio avviso, una storia del genere, doveva raccontarla un italiano!!

Davide Giannicolo

venerdì 2 dicembre 2011

Crudele reazione fisica

Crudele reazione fisica
Bello come la complicità di un ano isterico,
violentissime le fitte,
è l’uomo o il secolo?
Spire d’astrazione m’avviluppano,
logora gli istanti
lontana, etera forma.
E quel veliero non m0ha ancora persuaso,
quella tua astuzia di infingarda regina d’amore.
Non mi commuoverò dinnanzi al sorgere
dell’angelo stupendo del mio dolore,
cercherò di nuotare,
nuotare a cuore aperto
nel mare depressione.




Prologo

Morale tristemente incisa sui tuoi storpi occhi di fata, fata deforme nella tua felicità, bigotta e vomitevole come uno struzzo che viola il tempio del ricordo.

I
(AMORE)

Fendi il mio essere ugualmente però, tarpi in modo così elegante le ali del mio onore, mi accorgo così che anche la tua volgarità è bellezza, il tuo essere pezzo di carne forgiato con maestria ultraterrena; il tuo piede che attira la bocca.
L’interno tuo però è celato, ma immagino quanto nere e profonde possano essere le tue viscere.
Immagino l’ombra opaca del tuo male.
Il piacere dei sensi visivi è letale, lama ubriaca forgiata dal nuovo uomo, lo sterile abitante della terra che hai creato, protetto e vezzeggiato; coprofaga, hai ucciso il primitivo che ti amava cosparsa di nera pelliccia.
Cannibale, puttana, vampira, masochista, lasciva e peccatrice……..
                                                ..
                                                 .
                               II…………    . .
                                                  (STATO CONFUSIONALE)

                                                                                               Ali d’amore

                                        Leggiadra Opulenza

                                                                                                                          Tetre Virtù
    Amore per la notte.


                                                         Amore
                                                         Per
                                                         Malinconia




Ermetico?

SPARA!
SPARA BENE!!


III
(SPINTA REATTIVA)

E’sangue quello che mi pulsa alla testa?
Non lo so, mi tremano le mani, eccola, eccola, eccola, eccola….
Meticolosamente….la vedo…
Quella fastidiosa, repellente morale incisa sui tuoi storpi occhi di fata, la scorgo in tutte le sue escrescenze pervicaci e moleste dell’anima.
Questa tempesta Sturm und drang un po’ più Naziskin mi sta avvampando ed erompe dagli occhi, ma non è riflessione, no, è sentimento, puro sentimento, energia rovente insita in ciascuna molecola…INESPRIMI
                                     BILE
                                           A
                                            PAROLE.



IV
(REAZIONE)
TUMPF!!
No, no cazzo, il suono del cranio che urta contro le nocche si deve sentire, lo devi percepire sulle mani; non lo si esplica con un semplice, misero, povero, esecrabile TUMPF!!
Che cazzo è TUMPF!!?
Non è certo parola che esprime la sublime poesia di questo٢Suono٢
Non vi è sangue per un po’…ma dopo quattro, cinque, sei,  ELETTTTTTTRIZZZZZZZZZANTI COLPI
Sulla scatola cranica ricoperta di TUMPF!! biondo crine platinato, il sangue comincia a scorrere dal naso…………………………
                                                        .
                                                        .
                                                         .
                                                         .
                                                         .
INTERMEZZO  
   (STATO CONFUSIONALE)
 
……….Altri colpi, altri ancora, dolore sulle mani, sublime bacio algolagniaco, sangue sulle mani, forza di reazione, cranio spappolato, o forse no?---------- ?????
Ancora colpi, TUMPF!!

inaudita
violenza
spinta fisica
annullamento d’energia
frantuma le molecole
tue e d’ogni altra cosa intorno a te e oltre i confini conosciuti dalla tua labile mente
Carne
Molecole in frantumi….
Le schegge che da esse derivano…
...sono la poesia!!!!


Ti do un’ora di tempo per riuscire a vivere, forse un minuto, forse ancor meno.
 
Passività,no, stanchezza, Lupo, giovane sangue di Lupo, non proprio lupo…facoltà riflessive s’ergono!!


V
(INFIERISCI)
 
Vampirigia:Viltà vendicativa esplicata in brutale e ugual modo raffinata sevizia.
 
Io….Alphonse….Donatien…Francois…..De Sade…..sappi….che ho inventato….Io….
La Vampirigia.
RICORDATI DI PARTIRE

                                          IMMENSITA’
                                                            
                                                               ANIMA ARIDA

MARE LIBERA LE MIE ALI.

VI
(PASSIVITA’)
 
Morte, arida e priva di poesia, morte prosciuga ogni atomo, come una piuma sulla sabbia giaccio,
Insostenibile, eterno attimo di passività…
EPILOGOErmetico?
Ficcati un sorcio nel culo!!
Ermetico?

 Topastro

Metropoli (Un racconto splatter di Davide Giannicolo)



Metropoli 

metropoli
Un antico canto di sofferenza,
innalzatosi da remote regioni,
mi impedisce.
Mi impedisce di essere,
mi impedisce di scrivere
e so che il giusto è labile.


1.
Il Grande Orso Protezione

Anche quella sera una leggera paura velava il morbido ventre di Sara, era il sottile timore dell’inflazione; non aveva studiato qualche materia. Un male è estremo anche se è futile, è l’intensità con il quale lo si affronta a renderlo insopportabile.
Quanto era bella Sara, sembrava destinata ad essere perfetta in eterno, aveva sedici anni, a trenta sarebbe divenuta puro male!
Il fatto che ne avrebbe preso coscienza a noi è ignoto, per ora sembrava conscia a metà; da un lato la certezza della sua fresca bellezza, dall’altro l’impotenza della grazia perduta, svalutata, nel limbo televisivo del nuovo occidente, dove c’è sempre una ballerina di varietà più bella di te.
Ogni sensazione nella sua mente di adolescente era amplificata in modo languido e personale.
“Ho bisogno di affetto!” Sussurrava al Grande Orso Protezione, che però non l’ascoltava, vagando nelle strade sfruttando la prostituzione, cercando di divenire criminale e non l’orso di pezza di una bambina carina; loschi scopi accarezzavano la gioventù del Grande Orso Protezione, ma il fascino ha talvolta la proprietà d’essere ingannevole.

metropoli7Cos’ascoltava Sara mentre aspettava il suo peluche smarrito in cerca di prostituzione?
Ascoltava la notte, una poesia incomprensibile che le smuoveva le viscere, e lei incarnava quel suono in sogni suadenti, visioni di un presente idealizzato e ricco di fervide passioni.
Misteriosi ragazzi, bellezza esile interposta tra l’utero e la forza.
Pioveva fuori, il languido trasporto di Sara aveva a sua disposizione un magnifico scenario, strade deserte accarezzate dalla pioggia; e l’Orso Protezione era là fuori, forse, infeltrito e zuppo, questo fece rabbrividire Sara che si raggomitolò portandosi le magre ginocchia al petto, sussurrando:
“Ho bisogno di calore!”
Non sapeva che non tutti sono in grado di donare quel tipo di tepore. C’era qualcuno fuori, flagellato dalla pioggia, vagante come uno spettro per le strade, qualcuno che aveva dimenticato o mai conosciuto quel tepore; spiriti vuoti, poiché più si è baciati dalla poesia e più incolmabile è il nostro abisso.

I palazzi che si erano annidati sulla città come rapaci giganti, gli avevano infuso depressive e strane manie.
“Chi è costui?” Vi chiederete.
E’ un tipo complesso, difficile da descrivere, diciamo uno stravagante musicista incompreso, figlio di un basso scordato e un violino morente.
La strada fredda gli parlava tramite l’asfalto di dolore a venire, com’è strana, sì, come cazzo è strana l’esistenza!

Sara si addormentò in preda al timore.



*
2.
Sofferenze dal diverso peso

Nella radura africana Bula attendeva la morte; era stata una pantera alta e flessuosa, ma adesso il suo corpo si rivelava come uno scheletro ricoperto di pelle d’ebano.La denutrizione aveva rese mostruose le sue membra; prima di lei erano morti i suoi figli, suo marito, le sue sorelle.
Ricordava ancora il suo primo atto d’amore, aveva un anno meno di Sara, e suo marito la possedette all’ombra di una pianta dopo aver ucciso un pretendente di lei.
Com’era dolce la reminescenza degli occhi di lui quando la vide rispondere ad una domanda del terzo; occhi di furia e di odio. Come fu dolce essere posseduta da lui, dopo che aveva compiuto quel sanguinoso e fervido atto di passione.
Il sentore del sangue che si appiccicava alle loro membra dopo che il suo amante se ne era tinto, assassinando con una pietra il suo rivale.
L’amore è sempre battezzato dal sangue, se è vero amore; ma adesso tutto era spento nel cuore di Bula, anche le stelle.
Qualche iena intonava arie lugubri e intense, intanto uno stormo di gru volava verso sud, onde di grazia nel cielo.
Bula moriva, aveva diciassette anni, il suo corpo era uno scheletro straziato dalla fame.
metropoli13


*
3.
L’avvento

Sara aveva una vaga concezione della parola “Prostituta”, sapeva qual’era il compito di coloro che esercitavano questa professione, ma ignorava quali erano le reali condizioni che spingevano alcune di queste signore a vendere il proprio corpo, e soprattutto non era al corrente del fatto che svariate tra loro avevano più o meno la sua età.
Una consanguinea di Bula si trovava nella città di Sara, voleva liberare lo spirito sofferente della sua stirpe sui sordidi altari dell’occidente.

metropoli14Quando Bula morì, nell’attimo stesso in cui Sara stava fantasticando riguardo amori proibiti, da sostituire al Grande Orso Protezione ormai scappato via, e il musicista fallito si  recava a comprare del sesso, una vaga figura, altissima e magra si avvicinava al corpo esanime di Bula, avanzando lentamente al di là dell’orizzonte africano. Era un magro viandante vestito di stracci, dal volto coperto; una volta giunto accanto al cadavere si chinò su di esso, affondò affilati incisivi nella fronte della morta e cominciò a succhiarne qualcosa, forse materia grigia.

La stessa figura adesso, nella squallida metropoli occidentale,  appariva dinnanzi agli occhi della consanguinea di Bula, emigrata prostituta dalle robuste cosce nere come la notte.
“Chi sei?” Chiese la ragazza spaventata.
“Accoglimi, anzi, fa si che io ti accolga!” L’uomo le aveva risposto nell’idioma della loro tribù natia.
Terrorizzata la ragazza tentò di scappare, ma l’essere che appariva come un lembo liso di tenebra, un ramo nodoso d’un albero spoglio, fragile e vacillante, l’afferrò invece con ferrea fermezza, le affondò gli aguzzi incisivi nel cranio e iniziò a suggerne il contenuto, impossibile vedere il volto di lui, proprio perché volto non possedeva. Lasciando cadere il corpo della donna sparì, allontanandosi nella tenebra come un mostruoso, gigantesco insetto, fondendosi alla sporcizia e alla catasta di rifiuti circostante.

Quell’essere aveva percorso migliaia di chilometri, dall’Africa fino allo squallore urbano di quella metropoli piagata, seguendo ignoti fini, in un istante aveva solcato quelle immense distanze per poi svanire nella notte.
Quando la ragazza si rialzò, mezza nuda nella sua tenuta notturna, non comprese cos’era accaduto, sentiva un sinistro vigore dentro di sé e un po’ della propria coscienza svanita, come se avesse assunto una droga, sì, un pezzo della sua coscienza era volato via, fuso alla luna che irradiava i suoi raggi lattei al di sopra dello squallido ponte che era il riparo di quell’anima in pena.
metropolitan
Il musicista fallito si avvicinò timido; aveva preso l’autobus apposta per raggiungere la zona delle raffinerie, voleva la più carnosa delle puttane, per affogarci dentro il suo squallore; come in una tomba, una fossa profonda capace di inghiottirlo, incontrò proprio lei, la consanguinea di Bula.
metropoli3



Sorrise, ancora stordita:
“Vieni con me!” Disse infine lei.
“Certo che ci vengo!” Pensò lui, un po’ narcotizzato dagli ormoni e un po’ assuefatto dai propri idealizzati sentimenti di Maledetto Nella Notte.
La seguì addentrandosi nella tenebra, dietro all’enorme pilastro del ponte, dove in terra giaceva un materasso sfondato e sudicio che emanava pregnanti olezzi di orina e preservativo scadente; tutt’intorno solo squallore e rifiuti, compresi gli escrementi che le ragazze lasciavano dove potevano.
La ragazza però era bella, nera, fusa alla notte, indossava unicamente un tanga bianco, rifulgente nella profonda oscurità.
Il musicista fallito la prese da dietro, ignorando il tanfo del lattice di cui lei era impregnata; lì, in quel luogo ove il degrado urbano imperava, nel puro romanticismo della zona industriale, tra ratti voyeur ed escrementi umani.
Le spinte di lui erano furiose e allo stesso tempo dolci, mentre lei, che di solito subiva passivamente quel tipo di rapporti isolandosi completamente, adesso avvertiva strane movenze organiche all’interno del proprio ventre, un ondeggiare viscoso certo non provocato dal pene fremente di lui.
Proprio mentre il musicista fallito era al culmine del proprio patetico amplesso, con le mani strette sulle natiche scure di lei, simile a un singolare mollusco avvinghiato a una conchiglia di carne, segnando quelle tenere membra con la sua stretta disperata, lei avvertì quel movimento interiore divenire cento volte più forte; qualcosa pulsava nelle sue viscere, agitandosi spasmodicamente…
Allora lui avvertì una presa vigorosa al pene, qualcosa che era all’interno di lei glie lo aveva agguantato; Il musicista fallito sgranò gli occhi, tentò di ritrarsi, non poteva, quel qualcosa lo teneva ben saldo nella vagina della prostituta, e adesso lo strattonava tentando di estirpargli il pene, patetico aculeo della sua distorta sessualità.
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Allora il musicista fallito cominciò a urlare percuotendo le natiche della donna a cui era rimasto incollato, lei era voltata di schiena naturalmente, riusciva quindi a vederle solo la schiena nerissima e sudata; ma se avesse potuto scorgerle il volto, avrebbe notato una faccia assente, pupille ribaltate e bianche, la bocca ebete che sbavava posseduta da qualcosa di mostruoso.


Lentamente il pene di lui fu strappato alla radice, il dolore era indicibile, mentre con flemma diabolica l’organo si staccava dal pube liberando sanguinosi filamenti; una fontana di sangue inondò le natiche della donna, gli spruzzi raggiunsero i sacchi di plastica dell’immondizia che li circondava, irrorando ogni cosa in fiotti dolorosi.
Il musicista fallito barcollava stonato dalla copiosa perdita di sangue, poté veder fuoriuscire dalla vagina della donna grigi tentacoli insanguinati.
“Che ci fa un polpo nella tua fica puttana?” Sussurrò prossimo allo svenimento il pagante avventore.
I tentacoli si agitavano convulsamente strisciando viscosi sui glutei di lei e sembravano quasi schiaffeggiarli, emettendo un suono sinistro e disgustoso, la ragazza restava tuttavia nella stessa posizione, immobile, offrendo il proprio sesso mostruoso all’evirato musicista.
Uno dei tentacoli stringeva il pene reciso, lo agitava in viscidi scatti come a volerlo mostrare sventolandolo, era una scena disumana e vomitevole, come descrivervi l’orrore che può provocare una donna a novanta gradi, con malvagi tentacoli che le fuoriescono dalla vulva, disegnando arcani alfabeti nell’aria notturna con le loro diaboliche, lente movenze?


metyropoli

Il polpo interiore gettò il pene insanguinato in terra, fu orribile per il musicista vedere il proprio, mutilato membro nel terreno, fra gli escrementi.
Intanto però, le ultime gocce del suo sangue lo avvertivano della morte imminente, ci volle veramente poco affinché il pallore divenisse cereo rendendo esangui e livide le sue labbra, labbra che in quella notte avevano avidamente cercato baci protetti dal lattice.
Nell’istante in cui lui morì la vagina della donna espulse l’enorme, mostruoso polipo, vomitandolo insieme ad un liquido nauseabondo di colore giallastro.
L’animale marino si agitò nel terreno contorcendosi convulsamente, macchiandosi di terra creava una pastosa fanghiglia intorno a sé, cominciò ad avanzare, mescolandosi agli escrementi, strisciò su ogni tipo di rifiuto, infilzandosi con due siringhe gettate lì da qualche tossico anzitempo.
Si dirigeva verso il cadavere del musicista fallito; giunto accanto a lui, coi viscidi tentacoli gli aprì le labbra, penetrò a forza, con aliena ostinazione nella bocca di lui, spingendo, strattonando, contorcendosi, gonfiandosi e rimpicciolendosi come fosse un polmone, pur di irrompere nell’orifizio.
Era repellente vedere la bocca del morto riempirsi dell’orrendo boccone, ancora più disgustoso poiché impanato in una pellicola di terra e merda, con siringhe infilate nelle grinfie.
La gola del cadavere si gonfiò fino a che l’essere non scivolò dentro di lui con la sua flemma ignominiosa, avvinghiandosi alle viscere dell’uomo.
In quel momento le pupille del musicista si rianimarono di una nuova vita, non sua.
Si alzò, con il pene reciso, rindossò le mutande macchiandole di sangue, poi si allontanò lasciando per terra il proprio organo sessuale amputato, accanto al corpo nudo e svenuto della prostituta; mentre si allontanava, involontariamente, schiacciò il pene con il tacco dello stivale, maciullandolo, l’organo si contorse come fosse un truculento tubetto di dentifricio contenente sangue.

Due ore dopo la prostituta si risvegliò, notò di avere le mutandine calate e il culo scoperto, era distesa nel sangue e imbrattata da esso.
Si spaventò a morte, decise di prendere i voti al fine di divenire suora; qualcosa di diabolico, primitivo e insano aveva posseduto il suo ventre quella notte.

*
4.
Il musicista morto

Il musicista fallito camminava barcollando, pallidissimo, le labbra violacee, gli occhi infossati e velati di nero, i jeans fradici di sangue vomitato dall’amputazione genitale, vacillava facendo svolazzare il suo cappotto di pelle, lungo fino alle caviglie, un maledetto figlio della metropoli, poteva essere scambiato per un morto vivente mangiatore di cervelli, o semplicemente per un tossico che il cervello se l’è mangiato da solo.
Vagava sotto i ponti deserti accarezzato dalle tenebre, lo sguardo assente, i capelli sconvolti in una pettinatura non proprio presentabile, con le ciocche arruffate verso l’alto, tipiche di chi è sconvolto o ha scarsa cura di sé. Nemmeno la polizia lo avrebbe fermato, nessuno avrebbe voluto avere a che fare con uno così, un derelitto insanguinato, alimentato unicamente dal metadone.
Salì sullo stesso autobus che lo aveva condotto verso quella orribile amputazione, sì, ora era diverso, non più se stesso, evirato, palesemente morto, tenuto in piedi da una forza sconosciuta che muoveva i suoi passi nella notte.
L’autobus era vuoto, il conducente, abituato ai tipi strani, agli ubriaconi, i violenti e i consumatori di Cobret, considerava quel ragazzo pallido e silenzioso sempre meglio di un qualunque rumoroso, casinista figlio di puttana fatto anfetamine impaziente di puntare la lama alla gola di qualcuno.
Il ragazzo invece era assente, spento, vomitò un paio di volte una densa sostanza nera; non si terse nemmeno la bocca imbrattata dal liquido scuro, sorrise guardandosi nei vetri opachi del mezzo che incedeva lasciandosi alle spalle la zona industriale.

metropolitan4Giunto alla fermata scese dall’autobus con il suo passo incerto e tremolante, il conducente ebbe pena di lui, ma chiuse inesorabilmente le porte scorrevoli dietro la schiena del ragazzo, con soave cinismo metropolitano abbandonava l’agnello fra le grinfie di quella metropoli malata, tanto a cosa sarebbe servito aiutarlo? Non si dirigono forse tutti verso le fauci di quella puttana vestita di luci?
Il paesaggio era cambiato, non più squallore industriale ma squallore civico, il novello essere della notte si ritrovò a passeggiare lungo le vie notturne di un quartiere borghese.
Condomini e fantasmi di segnali stradali, calma apparente, silenzio educato, strisce pedonali bianche come spettri distesi sull’asfalto, viali alberati colmi di sussurri, le cose erano vive, vive e inquietanti, dietro ciascun muretto poteva celarsi un mostro composto di silenzio e solitudine notturna, un mostro bramoso, figlio dell’alienazione urbana.
Nella notte sorda e solinga incedeva l’aborto vacillante vomitato dalle disincantate porte dell’autobus: animale comunale dalle fauci metalliche.
Vagò per un po’ fino ad arrestarsi alla porta di un palazzo, l’astro artificiale di un lampione illuminava il pallore mortifero del suo volto infossato; alzò gli occhi verso una finestra dalla luce accesa, sorrise, mostrando i denti ancora macchiati di vomito nero, sinistro e inquietante ribaltava gli occhi all’indietro mostrando unicamente le pupille bianche mentre la sua risata diveniva sempre più grottesca e altisonante, rimbombando nella notte come l’agghiacciante ghigno di una civetta.
Quella era la finestra di Sara!
E non era un principe azzurro colui che indugiava sghignazzando di sotto, bensì un principe nero come la decomposizione, nero, come le fondamenta di una chiesa carbonizzata dalla mano di un folle oppresso dalla febbre del misfatto.
La tranquilla solitudine civica intanto, carezzava le spalle del musicista morto, esortandolo a turpi prese di posizione, al fine di disgregare quel fastidioso silenzio regnante.

*
5.
Demoni
 La consanguinea di Bula camminò disorientata fino alla chiesa più vicina, faceva freddo e lei era mezza nuda, i glutei abituati al calore veemente dell’Africa erano letteralmente gelati nel momento in cui si era risvegliata nella pozza di sangue; fortunatamente aveva con sé una borsa con all’interno abiti meno provocanti e non attui ad adescare attardati automobilisti arrapati.
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Bussò al portone della chiesa, l’azione fu ripetuta, fino a divenire violenta, in città però di solito i preti non vivono in parrocchia, ma la ragazza fu fortunata:
“Chi è?” Chiese una voce spaventata al di là della porta.
Lei parlava poco l’italiano, aveva imparato frasi essenziali come: “Dieci euro bocca e fica!”
Ma riuscì a spiegarsi nel suo accento del Ghana:
“Padre, penso che un diavolo sia entrato dentro di me stanotte, mi sono risvegliata nel sangue!”

Il vecchio parroco, un uomo sulla sessantina, fece entrare la donna di colore, sorrideva e aveva un che di beffardo dipinto sul volto.
“Padre io ho capito di avere percorso una strada cattiva, io voglio donare il mio corpo a Dio!”
“Vediamo cosa si può fare piccolina!”
Il prete sorrise ed era laido nel farlo, le stava guardando le tette, lì al centro della chiesa, tra due file di panche, a pochi metri dall’altare il parroco si sbottonava la toga…
Sotto di essa era completamente nudo, un corpo flaccido e magro si rivelò con blasfemia sotto gli occhi di Cristo crocifisso; aveva il vituperevole membro eretto e pulsante.
L’uomo afferrò la chioma forte e folta della donna, la strattonò costringendola a inginocchiarsi dinnanzi a lui, occhi di fuoco fiammeggiavano sul suo volto deformato dalla bramosia; di sicuro non era quella l’espressione che sfoggiava ai battesimi, tantomeno ai matrimoni, celebrati con pia risolutezza.
La donna accolse quel membro fremente nella propria bocca, con sottomissione, come aveva già fatto tante altre volte, chiuse gli occhi, i demoni erano ovunque, enormi rispetto a lei, la costringevano sovente a inginocchiarsi, tappandole la bocca, strozzandola.

Qualcuno alle spalle del prete aveva staccato il crocefisso, lo abbatté violentemente sulla testa dell’uomo che se ne stava in estasi, premendo la testa della donna, con forza, contro la propria inguine.
Il cranio si fracassò all’istante; un abbondante zampillo di sangue schizzò sul volto della ragazza, che aperti gli occhi vide il crocefisso conficcato nella testa del suo aguzzino.
Nudo, squallido come un sorcio privo di pelliccia, il prete cadde all’indietro sul marmo della chiesa, su cui presto si allargò una polla di sangue.


metropoli9L’uomo esile e alto che le aveva trasmesso il polpo a sua insaputa, ammantato e con il volto coperto da un lacero panno nero, si avvicinò lentamente alla ragazza.
“Scusami per quanto accaduto, avevo bisogno di un mezzo, loro la chiamano Nemesi, ho dovuto usare te e questo ti è servito a capire, gli occidentali non apprezzano la vita, sono così, non hanno la malaria e la sostituiscono con la depressione, hai sbagliato a venire in questo paese, erano meglio i banditi coi machete! Ricordi Bula? Questo è un regalo per lei!”
La ragazza era terrorizzata, in ginocchio dinnanzi al nero fantasma che adesso brandiva la croce insanguinata come fosse un’ascia.
Non capiva, cosa ne sapeva lui di Bula? I banditi coi machete, a loro volta stupratori e assassini, erano realmente meglio di tutta quella miseria? Di quelle strade senza sole, ingrigite dall’asfalto e dai sinistri caseggiati deserti e fatiscenti? I DEMONI SONO OVUNQUE.
“Farti suora non servirà a niente, trovati un brav’uomo e accontentati di quello che hai!”
“Come farò a riconoscere il male?”
I due stavano parlando in stretto dialetto.
“A cosa ti servirà riconoscerlo? Il male è giusto, io sono giusto, poiché io sono il male, guarda!”
Dicendo ciò lo spettro rivelò il suo volto, aveva tre corna verticali lungo la faccia che seguivano la linea del naso, simili a robuste antenne di insetto; le orecchie recise, gli occhi al posto della bocca e la bocca in fronte, le orribili, tumide labbra si spalancarono e ne fuoriuscì una nidiata di bisce che caddero in terra contorcendosi in unico viluppo, l’orrenda cavità che era la bocca di lui, emanava un effluvio di sepolcro, cimiteriale olezzo che investì le viscere della ragazza.


Scappò terrorizzata, aveva i pantaloni umidi poiché si era orinata addosso, inciampò sul corpo del prete giacente in terra col cranio spappolato che ancora vomitava sangue; strisciò gattonando tra i pezzetti di cranio e cervella, scivolando sulla materia organica mentre il mostruoso fantasma troneggiava su di lei, empietà notturna che con la pretesa di mostrarle chissà cosa, aveva condannato quella donna all’eterna follia.
Mentre lei scappava la creatura non tentò di fermarla, sorrideva in modo beffardo, con ai piedi il cadavere ormai esangue del parroco; abbassò gli occhi su costui, allungò il suo magro braccio simile alla zampa rostrata di una cavalletta e sollevò il corpo con estrema facilità, con la forza di quell’unico arto. Affondò le dita nello stomaco del cadavere, fino a farle affondare penetrando nella carne, estrasse un po’ di frattaglie, qualche organo indefinito, poi la bocca sulla sua fronte si allargò in un sorriso perverso. Gettò il corpo fra le panche fracassandole, si portò gli organi alla bocca deforme, masticandoli fino a inghiottirli, il corpo del mostro fremette. Si denudò il petto prima coperto da stracci; la sua pelle era grigia, tumefatta, assolutamente morta. Affondò le dita adunche simili a stiletti nelle ossa del proprio petto scarno, dilatò la ferita fino a ricavarne una bavosa fessura; ne fuoriuscì una sorta di crostaceo peloso, grosso come un cane di media taglia, che presto si contorse sul sacro marmo della chiesa.


L’animale cominciò a zampettare qua e là minacciosamente, l’empia creatura sconosciuta all’occhio di Dio si insinuò amorevolmente nella scatola cranica del prete giacente in terra, penetrando con le sue sottili e coriacee zampette nel morbido cervello, adagiandosi come un pargolo fra confortevoli coltri l’essere sembrò calmarsi e arricciare le antenne verso il suo nuovo giaciglio.
Presto il prete si rialzò, il cranio aperto, una corona di sangue intorno alla testa spaccata, il nudo corpo che rivelava l’orribile buco che l’aveva svuotato dei suoi organi all’altezza delle viscere; un guscio, null’altro che un guscio vacillante era egli adesso.
Barcollò fino all’altare, giunto a pochi passi da esso emanò un grido disumano, simile al graffiante frinire di un grillo gigantesco.

*
6.
Il principe azzurro

Sara dormiva, era inverno ma le giornate si accingevano a divenire più calde, era in mutandine e reggiseno sotto le calde coperte.
Un suono sinistro la destò dal suo sonno profondo; udì dei passi strascicati avvicinarsi alla porta chiusa della sua stanza, poi qualcuno aprì…
Era sua madre!
“Cosa c’è mamma?”
La donna cadde nel buio assoluto del pavimento.
“Mamma che ti succede?”
Sara si precipitò ad accendere la luce, in terra vide sua madre, completamente nuda, con un cavatappi conficcato nella testa e uno sbattiuova elettrico nel retto, l’elettrodomestico sorgeva dalle natiche di lei come se avesse sempre, grottescamente fatto parte del suo corpo.
Sara si ritrasse inorridita dalla scena, i sensi bloccati, le lacrime, nervose come bisce diafane cominciavano già a irrorarle i seni acerbi stretti in un reggiseno con ricami a forma di cuore.Vide poi la testa di suo padre rotolare come fosse una palla, lasciandosi dietro una scia di sangue scuro; la palla truculenta che aveva i lineamenti del suo genitore si arrestò frenata dalle cosce insanguinate di sua madre.


 

1260200646506_f Infine il tronco mutilato di suo padre le fu lanciato addosso; per un attimo Sara abbracciò quel viscido ceppo di carne privo di gambe e braccia. Lo fece istintivamente, al fine di difendersi, ma immediatamente, al gelido contatto, gettò in terra l’ammasso sanguinante.


Il musicista ormai fuori di sé varcò la soglia della stanza che era divenuta un carnaio.
Brandiva un braccio mozzo in una mano e una gamba mutilata nell’altra; a giudicare dalla bocca imbrattata e dai denti impastati di sangue, probabilmente aveva mangiato i restanti arti.

Sara era incapace di muoversi, l’uomo addentò la coscia di suo padre per poi sputarle addosso, con sdegno, il boccone sanguinante.
Con voce debole, viscosa, il ragazzo coperto di sangue parlò:
“Sono il tuo principe azzurro! Mi stavi a spettando vero? Vieni a darmi un bacio!”

metropoli8Finalmente Sara ebbe la forza di urlare con tutte le sue forze, ma il musicista morto non vi badò, era calmo e distante nonostante lo sguardo maligno che lo pervadeva.
Il mostro si chinò sulla signora che giaceva in terra e premette il pulsante che avrebbe messo in funzione lo sbattiuova elettrico. La forza centrifuga scavò nell’ano già devastato della donna morta, schizzi di sangue iniziarono a piovigginare in tutta la stanza, posandosi sui loro volti come petali di fiori rubizzi.
Il ragazzo non accennava a fermarsi, mentre i glutei della madre di Sara erano tormentati e in preda ai sobbalzi delle fruste metalliche, egli fissava la ragazza sorridendo con malvagia eloquenza.
Sara singhiozzava, tentava di schermirsi gli occhi, non aveva la forza di chiedergli di smettere, poiché parlare con quell’essere significava accettarne l’esistenza, e lei non voleva questo, non poteva credere che fosse reale quel pazzo insanguinato che scuoteva il culo di sua madre come fosse preda di scariche elettriche.
Finalmente il musicista morto si fermò, lasciando l’arnese insanguinato conficcato nella madre di Sara, che tornò a essere immobile.
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“Perché lo fai?” Ebbe il coraggio di mormorare senza guardarlo negli occhi, rannicchiata e tremante in un angolo, coperta di sangue familiare.
“Credo perché al mondo c’è gente che soffre e tu devi comprenderne il dolore, per ogni pasto che hai gettato con arroganza mentre dall’altra parte del mondo un bambino moriva desiderandone almeno le briciole, per ogni indumento del cazzo della marca più in voga che hai indossato solo due volte perché ti faceva sembrare grassa, mentre una ragazzina veniva infibulata!”
Sara non comprendeva a pieno, il ragazzo parlando le si era avvicinato, aveva preso la testa di suo padre fra entrambe le mani, come fosse una reliquia, ancora gocciolava sangue.
“Dai un bacino a papà!”
La testa mozzata veniva avvicinata con sadismo alle labbra della ragazza.
“Ho detto bacia il paparino cazzo!”
Insistette lui quando vide che Sara si ritraeva inorridita.
“Troietta! Non era un bacio ciò che cercavi questa notte?”metropoli11


Le mollò un ceffone, poi staccò il filo elettrico dalla lampada e legò la testa del padre, saldamente premuta, contro la bocca della figlia, labbra morte su labbra vive.
Sara gemeva tentando di urlare, ma aveva la bocca serrata dalla carne morta del suo genitore.
Sentiva il gelido sapore della morte, il sapore ferroso del sangue di suo padre, in quel  forzato bacio necrofilo e incestuoso.
Il musicista fallito le strappò il reggiseno, sorrise afferrando il braccio mutilato e cominciò a carezzare il torso nudo di Sara con la mano inerte e ormai priva di vita di suo padre; il freddo arto ricamò sensazioni agghiaccianti sul ventre di lei, fino ad arrivare a frugare passivamente nelle mutandine, scostandole con rigido, necrofilo interesse.
“Visto come ti vuole bene il tuo papà? Visto? Non era un po’ d’amore quello che volevi? Non era per questo che eri depressa?”


metropoli12Era orribile vedere quel braccio troncato carezzare il fiore adolescente di lei, passare poi alle cosce, ai seni, con gelida inerzia, mentre la testa che un tempo era stata sul torso insieme a quel braccio, adesso se ne stava recisa e ancora saldamente allacciata alla bocca della ragazza in lacrime; un incesto necrofilo disarmante era stato indetto da quello spirito folle che pretendeva di propugnare sentimenti di giusta vendetta.
Abilmente, con la mano troncata, il ragazzo sfilò a Sara le mutandine; ormai la toccava con mestiere, tanto che la mano fredda appariva avida e viva.
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Ma il malsano visitatore aveva ancor più pazzesche intenzioni, come ben presto dimostrò; depose il braccio mutilato e slacciò il cavo elettrico che legava la testa alle labbra di Sara, afferrò la testa e avvicinò le labbra morte del genitore al sesso di lei:
“Apri le gambe che papà ti fa un bel lavoretto!”
Sara non aveva più forze, non era più un essere umano, bensì un oggetto di carne, non oppose resistenza quando lui le divaricò le fragili cosce, premette la testa mozzata contro la vergine vagina mentre la ragazza singhiozzava sulla soglia dello svenimento.Sara tentava di guardare in alto, verso il bianco virginale del soffitto appannato dalle sue lacrime, il volto distorto dal pianto, il naso intriso di muchi di sofferenza che le colavano appiccicandosi sui seni, sentiva l’orrore strisciare fra le sue gambe. Suo padre, morto, era tra le sue cosce, la testa del Grande Orso Protezione, recisa, umiliata, senza vita, a sua volta la stava umiliando, colui che gli aveva dato la vita, ora morto, le baciava la vergine vulva, da lui stesso creata…1307711141811


L’orrore la invase, improvvisamente l’olezzo del sangue e della carne morta divenne insopportabile, allora iniziò a urlare ferocemente, come un uccello ferito a morte.
In quel momento il musicista morto divenne particolarmente violento; la percosse, schiaffeggiandola mediante il braccio mutilato, poi afferrò lo sbattiuova e dopo averlo insinuato a forza nella vagina di lei premette il pulsante letale…
Il sangue cominciò a scorrere copioso lungo le gambe di Sara.
“Devo pisciare!”
Disse il macabro musicista calandosi i jeans lordi di sangue, mostrando a Sara il buco purpureo che aveva al posto del pene; le espulse in faccia orina mista a sangue, unita ad altre indefinibili viscosità.
Sara non capiva, non comprendeva il motivo di quella punizione; non sapendo che quell’uomo era stato a sua volta misteriosamente punito prima di lei.
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Non resse più quando vide un tentacolo spuntare dal buco sanguinante che il suo aguzzino aveva sotto il pube. Il tentacolo si agitava convulso e cercava la vagina insanguinata di Sara; quando vi penetrò ne strappò a forza l’utero, Sara ebbe modo di vederlo, quel pezzo di carne sanguinante appartenente al suo interno, che le fu cacciato in bocca contro il proprio volere, strozzandola atrocemente.
Quando Sara morì il polpo fuoriuscì mediante la ferita del musicista, con suono viscido dilatò la carne spingendo, servendosi di tentacoli e testa mostruosa, cadde poi sul pavimento in un liquido tonfo simile all’appiccicarsi di una ventosa.
L’orrido essere si contorse nel sangue fino a raggiungere la testa del padre di Sara, si insinuò dentro di essa strisciando nella carotide recisa; l’abominevole testa prese così a muoversi, sorretta da quei tentacoli maledetti. Strisciò sul corpo esanime che era stato di sua moglie, scavalcandolo e macchiandolo di bava; infine discese le scale del condominio illuminato dagli spettri tristi dei neon, lasciandosi dietro una scia scarlatta.
Quello che era stato il guscio del polpo, l’ex musicista folle condannato alla depressione, era finalmente libero di spirare in pace, in terra, tra i resti delle due donne e dell’uomo di casa, la cui testa, se ne andava a zonzo in quella notte maledetta.

*
7.
Il festino

Era domenica mattina e la chiesa si affollava di fedeli, alcuni di loro notarono subito che il prete aveva qualcosa di strano. Innanzi tutto portava sul capo un buffo cappello a larghe tese, del tutto fuori luogo e inusuale, per non parlare del passo incerto e lo sguardo assente.
Il chierichetto giaceva mutilato in sacrestia, con due piccoli crocefissi conficcati in entrambi gli occhi, nessuno naturalmente si domandava dove fosse l’effeminato discepolo del parroco.
Quando la chiesa fu piena, coloro che stavano in piedi nelle ultime file, notarono che stranamente le porte si erano chiuse alle loro spalle.
Il parroco si schiarì la voce, poi sputò nel calice santo contenente il vino, guardò i propri parrocchiani sorridendo follemente:
“Carissimi fedeli, pisciamo nell’acqua santa e fottiamoci a vicenda, che i culi di voi caprette di Dio vengano a me! Vi immetterò ostie a forza di spinte lussuriose e sacre vergate! Ahahahahah!”La risata si protrasse sguaiatamente, intanto si innalzava nella sala un brusio di disappunto, la gente credeva, a giusta ragione, che il prete fosse impazzito.tumblr_lf3byhLTWQ1qbgnymo1_400


“Fedelissimi!” Continuò ridendo, “Succhiatemi l’asso di bastoni e avrete il paradiso!”
Qualcuno, indignato, tentò di andare via, ma le porte erano serrate e non c’era verso di aprirle.
Chi era accanto all’organo poté vedere con chiarezza una testa munita di tentacoli che intonava arie sataniche e funeree, sorridendo con inquietante beffa ai presenti.
“Ma cosa succede?” Gridava qualcuno.
Effettivamente la testa coi tentacoli aveva seminato il panico, smise di suonare e ammiccando burlesca prese a zampettare fra le gambe dei presenti disseminando orrore e ripugnanza; poi cominciò a sollevare le gonne alle signore. Quel sorriso era agghiacciante, sicuramente manovrato all’interno dai tentacoli del polpo, la testa continuava a fiondarsi a destra e a manca come un bambino deforme.
Intanto il prete aveva tolto il cappello, rivelando così il proprio cranio spaccato, dal quale fuoriuscivano scure antenne e chele pelose:
“Cari fedeli, vedo che non collaborate e ciò non è bene!”
Da sotto all’altare tirò fuori una tanica e se la rovesciò completamente addosso; nel frattempo la testa s’era arrampicata coi suoi viscidi tentacoli fino al seno di una donna grassa e prosperosa, tenendole la testa con le grinfie irte di ventose violacee tentava di baciarla con sguardo da vecchio seduttore. Alcuni fedeli notarono frattanto il liquido che il prete aveva versato arrivare fino ai loro piedi: era benzina!
Il prete si diede fuoco, avvampando come una stella che brucia su se stessa si gettò fra la folla; presto ogni cosa fu abbracciata dal soffio distruttore del fuoco, tra le urla strazianti dei presenti intrappolati. Le fiamme guizzavano ma la testa sorretta dai tentacoli non cessava di gironzolare, strappando occhi, strozzando donne con le grinfie, e sorridendo a ciascuno con estrema cortesia.
Tutto ciò che era composto di legno crollò in tonfi violenti, le carni bruciavano mentre di tanto in tanto venivano seppellite da rovinose ondate di macerie, i tentacoli carezzavano ugualmente però i volti dei cadaveri; l’essere non sembrava temere minimamente il fuoco.
Anche il crostaceo aveva abbandonato la calotta cranica del prete e adesso si aggirava tra i corpi carbonizzati nutrendosi delle loro carni fumanti, strappandole a grandi brani con le robuste chele pelose.
Tutto era rosso ormai, il fuoco ed il fumo coprivano ogni cosa come un manto devastante; nessuno poteva scorgere nulla mentre la morte già si sedeva inclemente sull’altare.


untitledSul soffitto c’era l’uomo mascherato, vestito con stracci lisi, se ne stava a testa in giù, come fosse un pipistrello, osservava compiaciuto la scena.
“A cosa serve? Tanto non capirete mai!”
L’uomo mutò in scorpione, nero e sottile, si infilò in una fessura.

Davide Giannicolo





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